Ho visto un cervo in giardino

Ieri sera, prima di andare a dormire, mi sono fermata alla finestra della nostra camera da letto a guardare il giardino che lentamente si copriva di neve, quando ad un certo punto ho visto un cervo che si aggirava placido ed elegante, quasi sfiorando le sedie di ghisa della veranda d’ingresso, con le corna che si confondevano fra i rami dei pini e il muso che frugava nel pungitopo. Ho lanciato un richiamo soffocato a Jesse e alle ragazze che erano sulle scale, era difficile non  urlare dall’emozione: un cervo sotto la neve, in giardino, pochi giorni prima di Natale! Non mi avrebbe creduta nessuno! Poteva essere l’effetto del Jet lag, in fondo ero arrivata a Washington da poche ore, per fortuna anche Jesse è risuscito a scorgerlo mentre pacificamente si avviava fra le stradine di Chevy Chase; perché quì i giardini delle case non hanno cancellate che li separano dalla strada. Certo non potevo avere un benvenuto più fantastico e surreale per le mie vacanze di Natale, sembrava una scena dalle “Cronache di Narnia”. Stamattina gran-mum  a colazione ha tagliato corto, un cervo? Si ce n’è un intera famiglia, cercano da mangiare e stanno provocando qualche danno, gran-dad invece aveva preparato delle pannocchie da mettere quà e là per i piccoli cerbiatti. A Washington è un’abitudine convivere con gli scoiattoli e i procioni, che entrano quasi dentro casa, ma non avevo mai sentito il racconto di un cervo davanti la porta d’ingresso. Questo è il primo Natale a Washington senza Bush al governo ma i controlli in Aeroporto non sono stati meno invasivi: forse perché  il nostro volo era della United Airlines già a Fiumicino siamo entrati nel clima di emergenza dell'”American security”, infatti per fare il ceck-in ci hanno caricato su un pullman che ci ha portati in un hangar disadorno e senza negozi (for your safety), all’interno del quale c’era un ballatoio di ferro pieno di militari con i fucili spianati nella nostra direzione, fatto il ceck-in e tutti i controlli personali (valige aperte, cinture e stivali tolti, palpeggiamenti) pensavamo di essere pronti per salire sull’aereo, invece ci hanno ricaricati sul pulmino e riportati alla zona dei voli internazionali, evidentemente non si fidavano dei controlli italiani e hanno organizzato una loro extraterritorialità. All’arrivo a Washington tutto sembrava leggermente meno ansioso della volta precedente anche perché, per fortuna, stavolta viaggiavo senza stampelle e valigia termica per i medicinali. Sembrava ce l’avessimo fatta senza qualcuno che ci urlava e divideva la nostra famiglia fra “domestic passports” (Jesse e Franca) e “other passports” (io Valentina e Vittoria), quando la burocracy ci ha colto nel momento in cui Vittoria poggiava la sua mano per le impronte e l’addetto le controllava la pupilla, farfugliando nel suo slang, per fortuna Valentina le stava accanto e le ha chiesto? Vitto ti sei messa in borsa il panino? La poveretta, ignara, aveva pensato che la merenda che Valentina stava rifiutando all’hostess, un’ora prima dell’atterraggio, poteva servire in seguito e se l’era messa in borsa, ancora sigillata nel cellophane. “Non si possono introdurre alimenti negli Stati Uniti” ha sentenziato l’addetto – “Va bene lo buttiamo subito”  – ha risposto Jesse – “Non si può, deve essere ufficialmente distrutto” –  “Allora lo diamo a lei” – “Non è così semplice, dovete recarvi all’ufficio del Ministero dell’Agricoltura, che si trova uscendo di quì alla fine di quel corridoio e consegnarlo ufficialmente agli addetti, che poi procederanno alla procedura di distruzione” Raggiunto l’ufficio davanti al quale stazionavano delle guardie con dei cani da fiuto, davanti a noi c’erano due tizi, credo greci o turchi, uno dei quali in carrozzina, che avevano avuto la malaugurata idea di portare dei panettoni e delle scatole di sardine e stavano subendo una meticolosissima perquisizione di ogni bagaglio. Arrivati al nostro turno la guardia ha riempito dei moduli guardando spazientito Vittoria, poi con aria di sufficienza le ha detto che poteva tenersi il panino. Siamo stati comunque molto fortunati, il nostro volo è stato fra gli ultimi ad atterrare, la città era già pronta all’emergenza e la radio dello shuttle che ci portava a Chavy Chase intercalava annunci elettrizzati della neve che avanzava dalla Virginia e del Maryland che si preparava alla tormenta. Il traffico era impazzito e tutti correvano a fare provviste per poi chiudersi in casa. Ha nevicato tutta la notte e tutto il giorno, stamattina siamo dovuti correre a comprare il router wireless e i riduttori elettrici per permettere a tutti e cinque il collegamento durante la reclusione forzata, non abbiamo pensato alle provviste. Il nostro pick up è una specie di trattore capace di macinare un metro di neve sotto le ruote ed era l’unico mezzo che non faceva lo slalom; stentavamo a riconoscere le strade, coperte da un metro di neve. In queste condizioni era fuori discussione andare a prendere l’albero nel solito bosco, per fortuna in giardino erano cresciuti due grandi pini e ne abbiamo tagliato uno. Poi non è stato facile convincere grandad a lasciare il suo lavoro di carpenteria che ogni anno gli permette di mantenere il pino eretto, per andare al Chevy Chase club per il lunch. Lì c’era già aria di smobilitazione ed eravamo gli unici ospiti del salone, tutto chiudeva alle tre in attesa della tormenta. Solo a quel punto abbiamo pensato che forse era meglio fare un po di provviste e ovviamente era già troppo tardi: uscendo dal club tutti i supermarket erano chiusi “due to the weather conditions”. Per le strade c’era un’atmosfera da “The day after tomorrow”: macchine che non ce l’avevano fatta a proseguire abbandonate ovunque, poca gente che continuava a piedi equipaggiata come nella campagna di Russia, in effetti lo eravamo anche noi. A quel punto siamo tornati a casa a finire l’albero e aspettare la fine della tormenta, lo spessore della neve era aumentato e per arrivare alla porta di casa mi sono immersa fin sopra il ginocchio. Non so cosa stia succedendo nel frattempo in Italia, soltanto che il post precedente ha avuto 240 lettori, per un blog con un mese di vita è un record (ieri era fra i primi 50 wordpress in Italia), significa che l’argomento è caldo, purtroppo.

Slide show Washington under the snow

I cerbiatti della famiglia una settimana dopo

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