Patriot act news: come ho rischiato di finire in un carcere del New Jersey

Arriviamo all’aeroporto di Newark da Roma con due ore ritardo, è vigilia di thanksgiving e probabilmente abbiamo perso il nostro treno per Washington D.C. Jesse ha preferito che atterrassimo in un aereoporto poco affollato, soprattutto evitare il Kennedy i cui controlli sono da incubo. La fila per i passaporti è come al solito un susseguirsi di divieti e obblighi perentori. Poliziotti vestiti di scuro e armati fino ai denti scortano le file di passeggeri con gesti bruschi, spesso usando il calcio del fucile come fosse uno sfollagente. Mi impediscono di telefonare alle figlie per comunicare che siamo arrivati, mentre una lunga sequenza di cartelli ringraziano le forze dell’ordine e altre categorie di eroi della patria che lavorano “for your safety“, mastini poliziotto compresi. Al nostro turno ecco la domandina che ci ricorda che quì sanno tutto di noi “come mai stavolta di thanksgiving e non per Natale?” Jesse cerca di alleggerire i toni sorridendo: “i miei genitori in questi giorni festeggiano il loro 65° anniversario di matrimonio, così abbiamo deciso di unire i due festeggiamenti.” Nessun sorriso di risposta. 

Come al solito, in quanto straniera, devo sottopormi al rilevamento delle impronte digitali (tutte e 10) e alla foto segnaletica, all’inizio del patriot act lo facevo con rabbia, adesso ci sono abituata. Sembra che abbiamo finito, invece il poliziotto si alza dicendo che le mie impronte non sono state ben rilevate e ci fa segno di seguirlo, in realtà ci sta scortando. Penso che ci stia semplicemente portando in un’altra postazione di controllo, magari con una macchinetta più sensibile, invece arriviamo davanti al posto di polizia e io e Jesse veniamo separati.

Sappiamo che questo può essere l’inizio della fine, abbiamo letto tante testimonianze di persone fermate per giorni o per settimane per semplici cavilli o per misunderstanding, questo è il patriot act e tu non ci puoi fare niente. Quel che è peggio è che non ci può far niente nenche il Presidente Obama, ormai ostaggio di un Congresso a maggioranza repubblicana. Avrei l’istinto alla fuga ma subentra un’imbelle rassegnazione e varco come una condannata al patibolo la soglia delle libertà democratiche e dei diritti civili. Adesso sono in un limbo dove qualsiasi mia parola o azione può essere usata contro di me, loro hanno il mio passaporto e io ho il divieto assoluto di usare il telefono. “Sit there!” urla, e mi avvio alla seggiola indicatami.

La stanza è piena di umanità che sembra dimenticata dal resto del mondo: tre anziani in sedia a rotelle che non capisco di cosa possono essere accusati, una signora polacca invitata a dimostrare che sua figlia sia residente negli USA e in possesso della green card, ma la poveretta non parla l’Inglese e poi non può usare il telefono. E’ una stazione di polizia come quelle che vedi nei telefilm sperando di non trovarti mai in un luogo così. C’è uno scranno altissimo, nero, i poliziotti stanno in piedi in alto e quando ti chiamano al loro cospetto, a meno che tu non sia un giocatore di basket, devi stare in punta di piedi per poter guardare il tuo interlocutore. In questo momento c’è una ragazza hispanica che sembra minuscola mentre è sottoposta ad un interminabile interrogatorio in spagnolo. Così penso che, per fortuna, dall’avvento del patriot act ho deciso di imparare bene l’inglese, altra fortuna è che in una situazione così non sono con mia figlia Vittoria che invece l’inglese non lo parla. Il terrore si legge nel volto di ognuno seduto seduto in attesa, si evita di incrociare gli sguardi di angoscia, non c’è un turno, ogni tanto qualcuno viene chiamato e poi fatto sedere nuovamente, si può stare lì per un tempo indefinito.

Arriva una signora di colore con la sua bambina, stavano sul mio aereo, lei viene chiamata prima di me, invitata a ripetere la sua firma e poi lasciata andare, penso: “qualcuno allora ce la fa ad uscire di quì!” Saprò dopo che questa è la stessa cosa pensata da Jesse vedendola uscire, mentre stava fuori ad apettarmi terrorizzato, con i poliziotti che lo allontanavano continuamente in malo modo. Ma sembra che io sia lì per un problema grave che riguarda le mie impronte digitali, e se la macchinetta mi ha scambiato per un criminale come potrò mai dimostrare il contrario?

Capisco che devo solo stare zitta e ferma come fanno tutti gli altri, non piangere e non perdere la calma. E’ svanito d’un colpo il mio proverbiale istinto polemico così come la mia vocazione alla battaglia civile.

Finalmente un poliziotto urla il mio cognome, storpiandolo, mi presento e vedo che ha una busta trasparente con dentro il mio passaporto e un dossier che mi riguarda con tanto di foto. Dice di aspettare ancora guardando un punto a caso in lontananza, forse il tempo necessario ad aumentare la mia paura. Finalmente chiede se parlo l’Inglese e benedico tutti i soldi che ho versato all’International House di Palermo “certamente, senza problemi” questo apre la porta all’accenno di un sorriso, ma non c’è da illudersi: “il rilevamento delle tue impronte digitali è andato male, non riusciamo a leggerle” poi sta zitto. Sono io che devo inventarmi qualcosa da dire perché la sentenza sembra già prodotta, rispondo cercando di apparire tranquilla:

“come mai?”

“sei tu che devi spiegarlo a noi, perché hai contraffatto le tue impronte digitali?” Adesso capisco che l’accusa è gravissima.

Mi salva il lungo training negli aeroporti degli Stati Uniti, questa infatti non è la prima disavventura capitata a me o alle mie figlie nonostante io sia sposata ad un cittadino americano, certamente è la più grave. Capisco che quello che proprio non devo fare è insinuare il sospetto che sia la loro macchinetta ad essere sfasciata, così inizio a biascicare:

“forse non ho pressato bene le dita sul vetro… “

Poi rigirando nervosamente le dita nella tasca mi rendo conto che i miei polpastrelli sono induriti dalla psoriasi, spellati e anche più lisci del normale. Adesso ho il sospetto che il continuo sfaldamento della pelle possa aver reso meno leggibili le impronte digitali. La psoriasi palmare è un regalino dell’ultimo anno, non l’avevo l’ultima volta che sono venuta in America, due anni fa. Così spiego al poliziotto la situazione, nel mio inglese migliore, invitandolo anche a toccare i miei polpastrelli, sembra umanizzarsi, ma non c’è ancora da illudersi:

I beleive youbut… la procedura è: un altro tentativo ancora, un ultima chance soltanto.” Vuol dire che se va male rimarrò in un carcere del New Jersey?

Mi consiglia di lavare bene le mani per far si che la prova riesca meglio, poi mi conduce fuori e intravedo il volto miserable e atterrito di Jesse, appoggiato ad una colonna con un poliziotto che lo guarda a distanza. Il mio poliziotto mi conduce ad una postazione di rilevamento diversa dalla precedente dove c’è una poliziotta, pulisce il vetro più volte prima con una salvietta poi con un pezzo di autoadesivo, poi quando appoggio le dita ci pressa sopra con la sua mano.

Finalmente le mie fingerprints (impronte digitali) sono legibili e il poliziotto mi saluta dicendomi che sono libera.

Next time press better” dice la poliziotta

It won’t be a next time, this is my last time in USA.

“Bad experience?”

Yes, a relly bad experience. Jesse ascolta da lontano ma non riesce ad evercela con me per questa piccola mancanza di controllo, è distrutto e vuole solo portarmi al sicuro, cerchiamo di uscire da lì il più rapidamente possibile, passiamo dalla consegna bagagli dove vediamo le nostre valige girare da sole nel tappeto, le afferriamo al volo e corriamo verso la stazione dei treni, dove non riesco ancora a sentirmi al sicuro: abbiamo perso il nostro treno e dieci anni di vita anche se tutto è durato 45 minuti. Finalmente ci abbracciamo, ancora terrorizzati.

Comments

11 comments on “Patriot act news: come ho rischiato di finire in un carcere del New Jersey”
  1. shamal ha detto:

    Il tuo post, devo ammetterlo, mi ha fatto salire su un po’ di rabbia, ora sta sbollendo, leggendo anche le tue risposte ai commenti.
    Ripensavo alla storia d’America animata inclusa in Bowling for Colombine di Michael Moore, e di questo paese costruito e strutturalmente votato alla difesa permanente dal “nemico”. Ho provato anche una certa compassione, ad un certo punto.
    A Roma si direbbe: ma come vivi male, però…
    Ti auguro un formidabile 2012, e sono contento di essere ripassato. Ciao

    1. Shamal hai ragione, ogni volta che vado la mia pazienza viene messa a dura prova, e questa volta rischia di essere l’ultima. Purtroppo non vado per mia scelta e così cerco di farmela piacere, stilando la mia lista di favourite things in USA che dovrebbero sopperire ai suoi difetti. Però la bilancia fra le cose che amo e le cose che odio comincia a sbilanciarsi.

  2. Maruzza Battaglia ha detto:

    Maria Adele, momenti davvero drammatici… Un bacio

  3. federico ha detto:

    Amo troppo l’Europa e la nostra cultura. L’America l’ho sempre vista in negativo e ancora oggi non mi riesce di cambiare opinione.

  4. Federico, pensavo anch’io lo stesso fino a quando ho sposato un americano, che del resto dall’america è voluto andare via. Condivido allora il suo spirito da migrante, odiando e amando allo stesso tempo un luogo.

  5. federico ha detto:

    Il mio amore per l’America invece non è mai andato oltre Bob Dylan, per tutto il resto continuo a farne perfettamente a meno.

  6. grazie della vostra solidarietà, come dice Paola è l’America, nel bene e nel male. Ogni volta è dura andare ma ho un pezzo di famiglia che amo moltissimo con due suoceri anziani che rischio sempre di vedere per l’ultima volta. Soprattutto una lista di “my favourite american things” per le quali provo nostalgia appena tornata. Un amore odio senza fine.

  7. federico ha detto:

    Detesto gli Stati Uniti d’America

  8. adriana ragonese ha detto:

    Sarebbero gli States??? E tu la candidata galeotta nel New Jersey??? Epperò… Devono avere galeotti di gran classe nel New Jersey… Assurdo! E’ un’America come non la racconta mai nessuno. Mi dispiace, deve essere stato davvero brutto.

  9. Paola Lantieri ha detto:

    Ogni volta che presso le dieci dita TREMO! E l’entrata a Washington e’ forse peggio del JFK, per non parlare dell’uscita. Che vuoi fare? E’ l’America, nel bene e nel male.
    Io sono stata sconvolta quest’anno dalla quantita’ di persone che camminavano a piedi. Mai viste, mai. E un Thanksgiving decisamente sottotono, anche in una citta’ piccola come quella dove sta mio figlio.

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