NOI, come dobbiamo chiamarci?

Siamo nuovamene chiamati ad assistere a un cambio di nome di quel partito che un tempo si chiamava PCI, acronimo di Partito Comunista Italiano. E’ uno sport che dura dai tempi della caduta del muro di Berlino, quando improvvisamente definirsi comunista diventò imbarazzante.

Fu un senso di vergogna improvvisa, coincidente alla consapevolezza che dalla madre Russia non sarebbero più arrivati quei fondi indispensabili a mantenere le sezioni PCI, i circoli ARCI, gli Istituti Gramsci, la rivista Rinascita, i quotidiani l’Unità, Paese Sera, L’Ora e altri, e poi l’UDI, ItaliaURSS, la CAMST, varie COOP, l’ItalTourist… la Città del Mare… tutte cose di qualità che contribuivano alla crescita culturale del nostro paese.

Diciamolo, per i dirigenti del PCI era evidente da tempo la deriva autoritaria dei regimi comunisti dell’est, però per opportunismo restavano in una posizione ambigua. Il dissenso interno c’era, eccome: c’era chi per i fatti di Ungheria e poi di Praga protestava e manifestava, chi addirittura lasciava il partito, con un dibattito talmente raffinato che se leggessimo adesso certe polemiche sulle pagine di Rinascita non riusciremmo a coglierne tutte le sfumature: la rimpiango quella capacità di dialogo, come rimpiango le conquiste sociali e gli esperimenti di società socialista operati in Toscana ed Emilia Romagna. Esperienze in apparenza inattaccabili che però sono state travolte dall’ondata di revisionismo degli anni novanta.

Anche se da sinistra lo criticavamo, il PCI è stato il secondo partito dell’arco costituzionale dal dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino, è successo in Italia, dove sembrava normale avere le strade invase dal simbolo della falce e martello. Fuori dal blocco sovietico, il nostro era l’unico Partito Comunista ad avere tanto peso. Ad ogni elezione ci mangiavamo le mani, perché il sorpasso della Democrazia Cristiana non arrivava mai, e sognavamo il momento in cui avremmo avuto i numeri per governare, per operare quella pacifica via Italiana al Socialismo in cui credevamo. Non sapevamo, o fingevamo di non capire, che una nostra vittoria ci avrebbe trascinato in qualche stadio in attesa di esecuzioni sommarie, non capivamo che quel tanto così che ci impediva di vincere era invece la nostra salvezza.

Quanti di noi si rendevano conto di costituire una minaccia ai bordi di quello che gli americani chiamavano mondo libero? Eppure la CIA ci spiava, ci ostacolava, tramava colpi di stato che per un pelo non riuscivano, probabilmente appoggiava gruppi terroristici. Era strano perché guardandolo dall’interno del paese, il PCI era un partito pacifista, che ripudiava la violenza, impegnato in una capillare opera di alfabetizzazione, attraverso un apparato volto alla crescita culturale oltre che al consenso, che aveva il corrispettivo solo nell’azione cattolica e che mai più s’è riproposta.

Poi ad un certo punto insieme alle statue di Lenin furono abbattute le nostre idee e le cose giuste fatte in italia dal PCI e, a poco a poco, diventammo estremisti, peccatori, clandestini, quando le nostre convinzioni restavano le stesse ma il mondo intorno a noi si semplificava in rossi e neri, in slogan di basso conio, in un nuovismo che riciclava i malversatori di sempre.

Anche se tirammo un sospiro di sollievo nel vedere crollare il muro di Berlino, quel muro nel cadere ci ha travolti. Ci siamo affannati a cambiare identità diventando sempre più incerti, sempre meno credibili, rendendo palese una crisi che originava da tempo. Molti di noi si sentono comunisti nelle ossa, quando basterebbe definirsi Marxisti. Cosa significa per un italiano il comunismo, se non il risultato di una scissione dal Partito Socialista del Congresso di Livorno del 1921? E’ probabile che in realtà fu l’identità socialista a prevalere? D’altro canto negli anni a venire si cercò di deliniare una via Italiana al Socialismo, e forse è questa l’unica identità che ci ha distinto da chi a est sbagliava.

E nei trent’anni in cui in Italia gli ex comunisti litigavano sul nome, dal Cimitero di Highgate Karl Marx ci ricordava che lui non aveva affatto previsto che il suo pensiero fosse interpretato da Giuseppe Stalin o Leonid Breznev, mentre nel frattempo erano gli economisti della London School of economics a studiarne i suoi scritti e dedurre che il barbuto fosse stato profetico nel prevedere la fine del Capitalismo. Siamo stati scavalcati anche da loro, mentre ancora non sappiamo come chiamarci.

Ma chi siamo NOI? Democratici, liberal, laburisti, marxisti, antifascisti, ex sessantottini? Ce l’avevamo un bel nome, quello che un secolo fa abbandonammo al congresso di Livorno. Lo potremmo anche recuperare se Bettino Craxi non lo avesse avvelenato, e si chiama socialismo (sottolineo che considero questo il delitto peggiore commesso da Craxi, più dei soldi pubblici che s’è portato all’estero e più delle sue dondanne). La nostra via Italiana al socialismo era un modello che ci piaceva criticare da sinistra ma che costituiva un punto di riferimento.

Perché noi volevamo tutto il pacchetto: sezioni PCI, circoli ARCI… ripudio dell’URSS e critica dall’esterno (ricordiamolo quando giunge la nostalgia dei nostri vent’anni). E quando qualcuno afferma: ricominciamo dalle sezioni qualcun altro saggiamente ricorda che soldi non ce ne sono più. Quantomento di quella via italiana si potrebbero ricorsiderare i contenuti, i pensieri e i personaggi. Piuttosto che riconsiderare Craxi, Andreotti e Berlusconi: riconsideriamo NOI.

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