La guerra è questa cosa qui

Stiamo vivendo la quarantena imposta dal coronavirus covid 19, mentre qualcuno inizia a introdurre la parola guerra nei suoi discorsi: siamo in guerra, economia di guerra, usciremo da questa guerra…

Senza dubbio stiamo vivendo un momento molto difficile, ma la guerra è un’altra cosa, così vorrei proporre un estratto del mio romanzo “A mani nude, vite di magnifici perdenti”, in parte ambientato in tempi di guerra. Mentre scrivevo questo e altri capitoli ambientati nel 1943, basandomi sui racconti di mia madre e documentandomi approfonditamente, presi in esame i diari che mia nonna Eleda aveva scritto in quel periodo, che mi immersero profondamente nell’epoca, facendomi vivere in quel contesto attraverso le parole di una persona che in fondo avevo conosciuto poco.

E’ stata un’esperienza profonda, quasi spirituale, e in certi momenti ho avuto la sensazione che la sua mano guidasse la mia. Queste righe hanno quindi un valore storico, descrivendo cose che neanche le mie approfondite letture erano riuscite a regalarmi, ad esempio la natura che circondava la linea ferroviaria Palermo – Santa Flavia, ora quasi completamente costeggiata di costruzioni.

A chi vuole approfondire, buona lettura.

Sfollamento

L’anno scolastico 1942-43, in cui Elda avrebbe dovuto frequentare il terzo Liceo Classico e sostenere a luglio gli esami di licenza Liceale, iniziò regolarmente ma s’interruppe poco prima delle vacanze natalizie. Wanda nel frattempo, con l’intermediazione dello zio Domenico, era finalmente riuscita a trovare una sistemazione a Santa Flavia, in realtà una sola stanza alla periferia del paese verso Bagheria.

Il piccolo paese di Santa Flavia era il luogo privilegiato dello sfollamento, grazie alla sua modesta distanza da Palermo e al facile collegamento ferroviario, lì vicino, nella località turistica Olivella, c’era un recente insediamento di villini che somigliavano a quelli di Mondello e altri ancora ce ne erano in paese vicino alla stazione ferroviaria. I proprietari di questi villini erano stati i primi ad arrivare, ospitando spesso parenti stretti. Altri membri della borghesia palermitana avevano preso per tempo in paese una casa d’affitto. Alla periferia del paese c’erano delle ville nobiliari e bellissime ce n’erano nel paese di Bagheria, distante appena due chilometri, ognuna gremita dai vari rami delle famiglie.

Guglielmo fu avvertito da un telegramma che la sua famiglia stava lasciando la città alla volta di Santa Flavia:

tutti bene famiglia trasferirà Santa Flavia via San Marco otto

Mentre Elda fece in tempo a mandare una lettera ad Augusto per comunicargli il suo nuovo indirizzo:

Caro Augusto,

i bombardamenti sono sempre più frequenti e stiamo per trasferirci a Santa Flavia, in via San Marco 8, d’ora in poi potrai scrivermi a questo indirizzo...

Mamma e figlia cominciarono a smontare l’appartamento, imballando la cristalleria, i servizi, le cose fragili e quelle preziose, Elda smontò la sua stanza con tristezza, sistemò i libri in una cassa e il resto, imballato in ceste e cassette, fu trasportato nel salone e coperto accuratamente. La casa in disordine, ingombra di casse, di carta con le pareti nude, divenne squallida e sconsolata.

Tutti quelli che lasciavano la città si accomiatavano dalle proprie cose con gesti affettuosi e apprensivi. Quante doppie e triple mandate furono date a porte in seguito sventrate, di appartamenti e palazzi andati interamente distrutti!

Wanda e Elda con la nonna, raggiunsero in tram la stazione, dove era già formato un lungo treno sporco e fumoso. Erano carri bestiame in cui erano state poste delle panche di legno, la folla vi si pigiava alla rinfusa e fu difficile trovare un posto decente per la nonna. L’anziana donna, composta nelle sue vesti che rimandavano a una moda di trent’anni addietro, con quel doppio chignon vaporoso che era stato in uso nei primi anni del secolo, il colletto di trine e il nastro di velluto, aveva seguito composta ogni girone infernale di quella guerra e adesso stava lì con la sua pesante borsa che trascinava nei rifugi con le sue poche cose d’oro, una foto del marito, una miniatura della prima figlia morta di tifo in tenera età e delle uova sode che nessuno, non sapendo bene a quando risalivano, aveva mai osato consumare.

Adesso lasciare la propria casa e trovarsi in un carro bestiame in mezzo alla folla, non sarebbe stato troppo per lei? Elda, guardando i suoi occhi sperduti e trasparenti che si guardavano attorno, la cinse con le braccia sorridendo per compiere stretta a lei quel tragitto.

Il convoglio percorse lentamente la litoranea ricca di ulivi, di aranceti, di limoni, di vigne degradanti, un verde sempre più pallido che si versava nell’azzurro liquido del mare. L’aria tiepida e luminosa di sole profumava dei fiori di zagara: piccole e bianche stelle in mezzo al fogliame lucido. Giunsero col sole ancora alto. La piccola stazione ferroviaria era piena di gente: il treno da Palermo era sempre atteso con ansia dagli sfollati. Dai villini che contornavano il paesino fuoriuscivano rami di oleandri e di mimose.

La casa era brutta e sporca e piccola, le tre donne ebbero un moto di sconforto guardando desolate il pavimento sconnesso e polveroso, l’unico gabinetto, posto in un sottoscala, era angusto e puzzolente. Scaricarono la roba e cercarono di pulire alla meglio. Giulio arrivò più tardi con la bicicletta, per averla lì a disposizione. Cenarono in fretta e, al lume di candela, si svestirono per dormire. Cominciò la vita degli sfollati.

I viveri scarseggiavano perché le risorse del paesino non erano sufficienti all’accresciuto numero degli abitanti. Ogni mattina si aspettava che arrivasse il pane, che Don Tano arrivasse col carretto delle verdure, che i pescatori di Porticello, piccolo borgo marinaro limitrofo, portassero qualche cesta piena di pesce.

Le carte annonarie individuali sembravano ormai una beffa, c’erano le caselle per il pane, quelle per la pasta, per le patate, per i formaggi, per i legumi secchi, perfino per le marmellate e “altri generi da destinarsi”. Ma niente di tutto questo esisteva. Entrare nella panetteria riservava il solito spettacolo: la coda della folla impaziente, il placido volto indifferente della fornaia, l’odore nauseabondo del pane caldo, un rozzo pane nero acido e bruciato, si diceva di segale ma era piuttosto di segatura, umido, elastico e muffito, quando si spezzava si allungava come una pasta.

“E’ tanto appiccicoso che ogni volta che si taglia, si deve ripulire il coltello… “ “non è buono neanche per le bestie… “ si lamentava la gente.

Adesso Elda ricordava la mamma, così piena di risorse:

“Lo taglio in fettine sottili e lo metto sulla brace ad abbrustolire. Vi assicuro che risulta più appetibile.” la gente la guardava incredula. Spesso però non c’era neanche quel pane ammuffito. In una casupola più lontana c’era il pane di contrabbando, rotonde pagnotte nere tenute nascoste, che costavano care ed erano insufficienti. Poi lunghi giri per trovare la pasta. Sua madre usciva di casa al mattino presto per fare la spesa e a mezzogiorno non aveva ancora finito, comprava con circospezione, con astuzia e sorriso, con umiliazione, e molto, troppo denaro.

Ai primi di gennaio arrivò dalla città un’ulteriore ondata di disperati. C’era stata la prima incursione di fortezze volanti in pieno giorno e la sirena aveva dato il segnale di allarme quando il bombardamento era già finito. C’erano state numerose vittime e molti dei superstiti, terrorizzati, avevano abbandonato la città.

Ogni mattina Giulio si alzava di buon ora e si incamminava in bicicletta verso la stazione, a prendere il treno per andare in città. Non erano tanto gli impegni universitari a richiamarlo, quanto la disperata ricerca di danaro per aiutare la sua famiglia. Qualcosa mandava suo padre dal fronte e qualcos’altro la zia Teresa dall’ospedale, persino lo zio Luca faceva giungere piccole somme “per la sua mamma”, ma i soldi non bastavano e il magro conto in banca si era ormai estinto da tempo.

Svolgeva il suo compito di assistente del Genio Civile aiutando a scavare fra le macerie, rimettere a posto travi pericolanti, mettere in salvo portoni e infissi di valore; poi apriva lo studio legale del padre cercando di mandare avanti le pratiche in sospeso, ma soprattutto riceveva i clienti nella speranza di farsi pagare qualcosa. Infine, per quel ragazzo di neanche vent’anni, si erano aggiunte le visite periodiche al Monte di Pietà; ormai con la mamma era tutto un confabulare che escludeva Elda, si accordavano su cosa dovesse prendere da casa: posateria, suppellettili o biancheria, per poi portarli al Monte.

“Nell’uscire di casa assicura qualche asse di legno alla porta, giusto per scoraggiare i vandali…” raccomandava Wanda.

Giulio prendeva da Santa Flavia il treno delle 7,10 e tornava a volte con quello delle 14,30 altre con quello delle 18, trovando alla stazione sua madre e sua sorella che intrepide l’aspettavano.

Spesso mentre questi era in città iniziava un bombardamento, Wanda e Elda salivano nel terrazzino sul tetto e seguivano il volo degli apparecchi che si dirigevano su Palermo oltrepassando i monti della Conca D’oro, la città si ricopriva di dense nuvole di fumo, i rombi degli aeroplani, il sibilo delle bombe che atterravano, il boato finale, potevano essere uditi distintamente da Wanda che ormai aveva affinato una sensibilità particolare, madre e figlia ascoltavano impassibili, in piedi, appoggiate al parapetto di pietra, come resistendo a una tortura. Giulio ormai sapeva che al ritorno avrebbe dovuto sbracciarsi dal finestrino, mentre il treno entrava in stazione; le due donne correvano fra i binari per abbracciarlo e anche per quella volta ce l’avevano fatta.

La fame di Elda e Giulio era un supplizio, divoravano gli spaghetti pazientemente liberati dai vermi sotto il filo d’acqua erogato soltanto di notte. Divoravano le fave di cui si mangiava anche la buccia a listelli, secondo una creativa idea della nonna.

“Sembrano fagiolini, quasi non si sente la differenza.” dicevano alla mamma per incoraggiarla a mangiare, anche se nessuno dei due fu disposto a riprovare quella ricetta a guerra finita. Wanda fingeva di non avere appetito per destinare il proprio cibo ai figli e finì la guerra con dodici chili in meno. Fino alla fine dei suoi giorni avvertì un senso di colpa per ogni cucchiaino di zucchero che metteva nel caffè.

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