Elda cap. 42, Il Boom

Nel 1960 Sua Eccellenza il Giudice Santelia andò in pensione e con la moglie ritornò a Palermo. Fu così riaperto il loro appartamento al primo piano di via XX Settembre e la signora Emma dovette rapidamente rendersi conto che le sue nuore non seguivano il modello familiare per cui lei era stata educata, a dire il vero neanche il cliché dominante in quegli anni.

Dopo aver sofferto la solitudine in un’abitazione di rappresentanza a Roma, frequentando soltanto mogli di magistrati e la sua fedele fantesca Rosa, era rientrata a Palermo ansiosa di condividere la sua vita con le nuore e i nipotini.

Lei e suo marito erano già molto affezionati a Emanuele che ora aveva tredici anni, perché aveva passato dei lunghi soggiorni nella loro casa di Roma negli anni precedenti. Poi c’erano Davide di otto anni e Ruggero di sette, mentre si era aggiunta la piccola Emma, figlia di Ignazio e Ottavia, che lei adorava perché era l’unica femmina e portava il suo nome. E poi c’era Dario, il piccolo di Elda e Pietro, che aveva tre anni come Emma.

Nessuno di questi bambini era battezzato, questo era un dolore che lei e suo marito avevano dovuto soffrire già dalla nascita di Emanuele, c’erano state altre discussioni con l’arrivo di Davide, messe poi a tacere dal fatto che la famiglia di Ottavia era di rito ebraico. Quando poi era nato Ruggero avevano sperato nell’appoggio dei genitori di Elda, che invece si erano mostrati scarsamente interessati alla questione. Con i due piccoli non si era neanche preso l’argomento.

Ma il problema della religione era un’inezia di fronte al fatto che, a suo vedere, le giornate di Ottavia ed Elda erano impegnate da qualsiasi attività che non fosse accudire i figli, la casa e il marito.

Ottavia aveva un’intensa vita sociale fra vernissage, concerti, presentazioni letterarie e rassegne cinematografiche e quando era a casa stava nel suo studio a dipingere o a scrivere recensioni. Elda spendeva quasi tutta la giornata fuori casa fra il lavoro al giornale e l’attività di sezione. La sera le due case ricevevano fino a tardi, non proprio occasioni formali anzi, veniva gente di ogni tipo vestita in qualsiasi modo.

I bambini stavano molto con la zia Teresa, meno con i nonni materni, poi c’erano le tate, ragazze di paese non molto pratiche.

Subito dopo il loro trasloco Emanuele prese a bussare alla porta dei nonni al primo piano, salutando a monosillabi, per poi buttarsi sulla poltrona di Sua Eccellenza a leggere, mentre la nonna Emma gli portava il pane con la crema Ferrero, che poi avrebbe cambiato nome e consistenza nella frivola Nutella. Alternava Tex Willer ai gialli di Simenon, i romanzi di Hemingway e le equazioni algebriche di secondo grado; ma ancora giocava col meccano, con cui costruiva marchingegni mossi da carrucole, pulegge e ruote dentate, alimentati da rudimentali motori a vapore.

I due cugini Davide e Ruggero, quasi coetanei, già andavano da soli a scuola e il pomeriggio giocavano nel giardinetto dietro casa con altri bambini del quartiere, ma se fra questi bambini si formavano due bande opposte di sicuro loro due non stavano nella stessa.

I piccoli Dario ed Emma avevano giochi misteriosi e un linguaggio esclusivo, per il momento condividevano lo stesso asilo montessoriano e i pomeriggi in casa con le tate, nella speranza di essere accettati dai fratelli più grandi e dagli altri bambini del giardinetto.

La nonna Emma prese in mano la situazione e nel pomeriggio mandava Rosa a chiamare i bambini per la merenda, controllava che Davide e Ruggero avessero fatto i compiti, che i due piccoli fossero ben puliti e pettinati, che i loro nasi non scolassero e che non si imbarcassero in giochi pericolosi. Già fra le due case del secondo piano, quella di Ottavia e Ignazio e quella di Elda e Pietro, il pianerottolo era sempre stato più che altro un corridoio, con le porte di ingresso perennemente aperte; adesso il via vai di bambini si era spinto fra un piano e l’altro con il portiere che di tanto in tanto si raccomandava di non fare troppo baccano.

La signora Emma evitò sempre qualsiasi attrito diretto con le nuore, ma dai discorsi fra la signora Rosa e le tate e fra queste e Ottavia ed Elda, ogni tanto venivano riportati  i sospiri della suocera e perfino qualche frase mormorata da Sua Eccellenza, come quella rivolta a Elda un pomeriggio in cui era a una manifestazione per la richiesta di un asilo al rione Capo: “invece di pensare ai figli degli altri, potrebbe occuparsi dei suoi…”

In realtà Elda e Ottavia si erano molto occupate dei bambini quando erano più piccoli, anche perché non potevano permettersi un aiuto domestico, Ottavia poi era una madre allegra e creativa ed era stata la prima a Palermo a organizzare feste di compleanno con gimcane, in cui i bambini potevano urlare e correre per il corridoio, sudare e imbrattarsi di colori; Elda invece preparava torte, riempiva brioscine con burro e prosciutto e leggeva favole, soprattutto parlava ai bambini come se fossero adulti. Le due cognate sposavano nuove teorie pedagogiche volte a responsabilizzare i bambini, concedendo loro il massimo della libertà. Col passare del tempo queste teorie erano anche risultate comode, Emanuele stava per andare alle superiori ed era ormai un ometto; Davide e Ruggero, che andavano in terza elementare, facevano molte cose da soli come vestirsi, recarsi a scuola o al calcetto, prepararsi la colazione e la merenda. 

Di rado ai bambini veniva limitata la libertà di gioco e le due case del secondo piano erano ormai il loro regno: il lungo tavolo nel salotto di Elda e Pietro aveva una rete da ping-pong perennemente montata, mentre Dario ed Emma vivevano sotto una scrivania dove avevano costruito la loro casa, che si completava di un balconcino aprendo il cassetto centrale.

Questa vita brada e comunitaria veniva riproposta anche al Carrubo, dove i bambini trascorrevano tre mesi l’anno, a piedi nudi, arrampicandosi sugli alberi e sulle rocce. Quando d’estate Giulio spariva per i suoi lunghi viaggi all’estero, la sua stanza veniva ceduta alla zia Teresa, il cui arrivo era molto atteso. Giocava e scherzava con quei ragazzini come aveva fatto un tempo con Giulio e Elda, senza fare distinzione fra i suoi nipoti e i figli di Ottavia e Ignazio. Organizzava gite al mare, picnic nelle montagnole vicine e la sera, alla luce del Petromax, passava ore a giocare con i bambini a Monopoli e a Scala Quaranta nella grande stanza della masseria. Era una piacevole presenza anche per i loro genitori, con cui parlava di viaggi e letteratura, leggeva qualsiasi cosa Elda e Giulio le consigliassero e si era anche imbarcata nella lettura del Capitale.

Wanda e Guglielmo avevano una Fiat 600 e spesso venivano in visita, ma non si fermavano mai a dormire. Wanda, in gran forma e più elegante che mai, era ormai diventata una figura storica dei magazzini Rosati di cui reggeva interi reparti, mentre Guglielmo lavorava a pieno regime nel suo studio. Non sembravano intenzionati ad andare in pensione e avevano un giro di amici con cui facevano viaggi e andavano ai concerti. Erano anche riusciti ad acquistare la casa che abitavano.

Da quando Vittorio e Igea si erano trasferiti in Toscana il Carrubo era diventato ormai un porto di mare. Erano tempi in cui non usava avere una seconda casa e la particolarità dei suoi ospiti faceva sì che la compagnia fosse veramente interessante. Con il suo bicchiere di whisky in una mano e la pipa nell’altra, Giulio era un mattatore che accompagnava gli ospiti in una comicità surreale ed esilarante e Pietro e Ottavia erano capaci di fargli da spalla fino all’alba. Venivano gli amici della redazione e il direttore del giornale, i compagni di partito e i loro dirigenti, gli intellettuali del gruppo 63, le troupe cinematografiche di Salvatore Giuliano e del Gattopardo.

Ma dopo i fatti di Ungheria del 1956 c’erano anche interminabili discussioni politiche che inevitabilmente si impantanavano sul ruolo del PCI.

“La rivolta d’Ungheria è una controrivoluzione delle forze reazionarie e i 101 che hanno firmato quel manifesto sono caduti vittima delle strumentalizzazioni!” – tagliava corto Ignazio

“Stiamo parlando di intellettuali del calibro di Natalino Spegno, Carlo Muscetta, Gaetano Trombatore!” rispondeva Giulio

“Sì ma il manifesto si poteva prima discutere dentro il partito, perché farlo trapelare agli organi di stampa?” – mediava Pietro

“Dentro il partito c’erano già stati gli insulti personali, era stato detto chiaro e tondo che qualora l’Unità non l’avesse pubblicato, i compagni sarebbero stati costretti a rivolgersi agli altri membri del Partito, alle sezioni, alle cellule…” – diceva Giulio

La fedeltà al partito era un cruccio che attanagliava Elda ormai da qualche anno: restava profondamente ferita nel vedere i segnali dell’allontanamento di Pietro e di Ottavia, mentre Giulio in fondo non ne era mai stato organico. I fatti di Ungheria erano stati la conferma dei dubbi che covavano da tempo ma le reazioni si divisero fra gli scettici intellettuali della prima ora come Giulio, quelli che si erano già defilati in silenzio come Pietro e Ottavia e quelli che come Ignazio si aggrappavano alle giustificazioni dei vertici di partito, per spirito di appartenenza, perché era troppo complicato fare altrimenti, soprattutto se si dovevano dare risposte al proprio collegio elettorale.

Ma era cocciuta Elda e lo era ancora di più quando sapeva di aver torto, non se la sentiva di tradire qualcosa che era per lei più che un partito, era il motivo per cui aveva dato un’improvvisa svolta alla sua vita. La sua risposta ai fatti di Ungheria era stata quindi quella di buttarsi a capofitto nel lavoro di sezione, che in quel quartiere voleva dire entrare casa per casa, occuparsi dei problemi reali, l’asilo, i sussidi, l’assistenza sanitaria, il conforto umano ai disoccupati, agli ammalati, organizzare il doposcuola ai bambini, le riunioni delle donne, svolgere il ruolo di consultorio.

Aveva cercato in ogni modo di coinvolgere Ottavia in queste attività ma più che un rifiuto aveva trovato un gaio muro di gomma. Ottavia era assolutamente inaffidabile, perennemente in ritardo e quando arrivava svolgeva il suo ruolo controvoglia, pronta a scappare con la scusa dei figli, magari per raggiungere amici in una occasione certamente più divertente. Questo le pesava più dell’atteggiamento di Pietro, che diceva chiaramente di non volerne sapere.

Ottavia ormai si districava fra un’intensa vita sociale  quando stava da sola e il ruolo di moglie affettuosa quando arrivava Ignazio, mai gelosa, mai possessiva, mai triste per le sue partenze. Il suo atteggiamento era troppo perfetto, troppo ben dosato, come se in fondo lei recitasse una parte. Che i due cognati fossero male assortiti lo si poteva sospettare dall’inizio, solo che nel dopoguerra era facile stare tutti dalla stessa parte, mentre il tempo aveva eretto uno spartiacque fra il mondo della burocrazia di partito di Ignazio e la intellettualità frequentata da Ottavia. Nessuno dei pettegolezzi che albergavano nel palazzo delle Botteghe Oscure coinvolgeva Ignazio, anche se era un bell’uomo, mentre l’irrequietezza stava tutta in Ottavia a cui l’età stava regalando un fascino inaspettato. Da ragazza non la si poteva certo definire una bellezza, ora invece era una trentottenne dal collo lungo, il corpo affusolato e uno sguardo molto intenso, in più era una donna sempre allegra, spiritosa, capace di farsi apprezzare in qualsiasi ambiente, perfino irrompere in una serata formale e sembrare elegantissima con i suoi capelli corti, un paio di pantaloni a sigaretta e una casacca dalla fantasia astratta.

E poi era successa quella cosa: era la serata conclusiva della Festa dell’Unità, che allora si teneva al teatro Politeama. Ignazio era a Roma e Ottavia era voluta restare da sola a casa perché stava preparando una mostra. Elda aveva deciso di tornare a casa in anticipo per un mal di testa e aveva lasciato lì Pietro, Emanuele e i quattro bambini.

Giunta al palazzo, quando l’ascensore arrivò al secondo piano, Elda vide Giulio che si richiudeva alle spalle la porta dell’appartamento di Ignazio e Ottavia.

“Elda.” – fece Giulio.

“Ciao Giulio.” – fece lei infilando la chiave nella porta della sua casa e lasciandolo lì.

Ma perché era stata tanto gelida? Cosa temeva di scoprire? Giulio e Ottavia erano sempre stati tanto amici e in quegli anni non c’era nulla di male in una visita serale, e se anche avessero avuto una relazione… in fondo Elda lo aveva sperato prima del matrimonio di Ottavia. La verità è che quelli erano anni in cui ogni sua amica un bel giorno le comunicava trionfante: ho un amante, come se si fosse trattato di un gioco. Elda soffriva ogni volta, vedeva minacciato il suo di matrimonio e si sentiva una specie in via d’estinzione. Ma era soltanto questo o c’era il rischio che Elda fosse diventata eccessivamente cattocomunista? Comunque non volle mai sapere nulla, né dall’uno né dall’altra…

Infine cosa dire di Giulio? Anche lui sembrava avvolto in quel vortice di mondanità intellettuale che si imponeva a Palermo agli esordi del boom economico. Certo non andava al night club in Tuxedo e cravattino ma frequentava gente che lo faceva anzi, anche a lui come a Ottavia piaceva imporsi in quegli ambienti in abbigliamento non formale, fumando la pipa con un cardigan color cammello e un paio di pantaloni di velluto. Non era bello ma affascinante e soprattutto garantiva la serata col suo humour grottesco. Quei salotti se lo contendevano come fosse una celebrità anche se Giulio era solo un piccolo editore. Ogni anno produceva due o tre pregiati volumi, con belle foto e testi di scrittori di successo, sull’arte, l’architettura e le tradizioni Siciliane, che vendeva alla Regione e alle Banche per le strenne natalizie. Questo gli permetteva la sopravvivenza di una collana letteraria dalle scelte coraggiose e non gli si poteva dare torto se per questa missione fosse costretto a frequentare i salotti buoni.

Però questo stava cominciando a piacergli ed era anche corteggiato da una serie di giovani signore sposate che gli evitavano l’incomodo di impegnarsi oltre una certa misura. Poi si era comprato una vecchia decapottabile e una casa a Piazza Marina, che aveva arredato scegliendo ogni pezzo al mercato delle Pulci.

“Ma quanto sei snob! – gli diceva Pietro – I quartieri popolari sono di chi c’è nato. Ti sei preso una casa per due lire mentre quelli vengono deportati nei casermoni di periferia.”

“Parla lui che sta nella zona chic della città! – rispondeva Giulio con le parole roche di fumo, mentre metteva legna nel camino – Io semmai ho approfittato di quella stirpe di nobili idioti che non voleva più vivere in mezzo alla plebe, con la scusa di una lesione della guerra. Perché guarda che a parte Ciancimino e la mafia, anche questi deficienti sono responsabili dello scempio che si sta facendo a Palermo.”

“Razza padrona palermitana…si stanno svendendo pure i villini di via Libertà e via Notarbartolo. Ogni volta che ci passo c’è n’è un altro buttato a terra.” – diceva Pietro.

“Neanche il tempo di ricostruirci le cancellate Liberty che avevano fuso per la guerra…” – commentava Ignazio.

“E manco li rimpiangono! Sai com’è, le loro famiglie si allargano, quelli per una villa gli danno in cambio tre appartamenti moderni e gli altri se li tengono loro, in ognuno di questi palazzoni ci stanno per lo meno venti famiglie, fatti il conto di quanto ci guadagnano…”

“E chissà che materiali scadenti usano, per non parlare della bruttezza di queste costruzioni…”

“Ma te lo ricordi, Ignazio, com’era bella via Libertà quando siamo arrivati a Palermo da Caltanissetta?” – Chiedeva Pietro a suo fratello.

Cane, e come no? – rispondeva Ignazio – io avevo tredici anni e tu quanti ne avevi… undici? Ci pigliammo le biciclette dal carro mentre ancora scaricavano i mobili e ci siamo messi a esplorare la città, e la cosa che ci piacque di più fu via Libertà! Quel viale magnificente con due filari di platani e tutte quelle villette Liberty…”

“Io, bambino com’ero, pensavo mii, stanno qui, i ricchi! Questa è la strada più bella della città! “

“Io della mia infanzia ricordo l’odore… – faceva Giulio – era una città giardino, piena di alberi e fiori… a seconda della direzione del vento, la mattina potevi svegliarti con l’odore di zagara o con il gusto salmastro del mare…”

“Perché c’erano gli agrumeti! Ora a poco a poco la conca d’oro sta scomparendo, palazzi di dieci piani… tutti pieni di dipendenti della Regione Siciliana.”

“E questo significa distruggere le correnti d’aria, infatti ora d’estate c’è più caldo e non si sente né l’odore del mare e neanche il fresco delle montagne.”

“Per fortuna con Villa Deliella[1] non ci sono riusciti.”

“Sì ma lo stesso l’hanno buttata giù… in una notte! Ma ci pensate?”

“Sì, ma la vendetta è che non sono riusciti ad avere la licenza per ricostruire, ora ci resta ‘sto buco in mezzo alla parte più bella della città!”

“Ignoranti!”

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.


[1] Villa Deliella progettata da Ernesto Basile nel 1898 e realizzata intorno al 1906-09 dal costruttore Rutelli, era considerata dalla critica la più interessante delle opere dell’architetto che aveva impresso alla città una sfavillante impronta Liberty. Omaggio al Rinascimento Toscano, rimarrà nella memoria di molti palermitani come l’emblema di quello che viene chiamato il sacco di Palermo. Il 29 dicembre del 1959 Villa Deliella fu abbattuta in tutta fretta, perché meno di un mese dopo avrebbe maturato il diritto alla tutela quale edificio storico. L’area poi rimase vuota e attualmente c’è un lavaggio auto.

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