Elda cap. 44, Il 1968 a Palermo

Chi come Elda aveva ancora sonni popolati dal ricordo dei bombardamenti, delle vibrazioni delle  fondamenta, del fremito dei muri, delle fughe notturne nell’incertezza di ritrovare al ritorno le proprie cose, ebbe il presagio di un’altra guerra, questa volta contro un nemico che stava sotto terra. E così in un sonno già disturbato dalla paura, per via degli avvertimenti di quella domenica di gennaio, la prima scossa delle 2.25[1] fu terrificante: nella sua camera si rovesciò un grosso vaso di cristallo che stava sul comò, rompendosi in mille pezzi e si aprirono di colpo le porte dell’armadio, mentre i vetri delle finestre e il lampadario continuavano a tremare. Elda si ritrovò in piedi, morta di paura, alla ricerca dei suoi abiti, mentre Pietro, seduto a mezzo letto, aspettava che la scossa finisse, quando invece sembrava interminabile. Dalla sua stanza Ruggero urlava:

“Andiamocene, andiamocene subito!” – Aveva 15 anni e Dario 11, questa differenza d’età garantiva all’ultimo una sorta di incoscienza infantile che lo faceva restare nel suo letto, nonostante si fosse svegliato.

“Dario, alzati, dobbiamo scappare.” – urlava suo fratello

“Ma stavo dormendo!”

“C’è il terremoto.”

“Lo so, è caduto per terra il lume della scrivania e l’ho rimesso a posto, ora lasciami dormire.”

Si sentiva gente fuggire dalla tromba delle scale mentre Ottavia, con Emanuele, bussava alla loro porta.

“Che dobbiamo fare? E’ stata fortissima.”

“Non lo so, c’è gente che scappa ma il palazzo è solido, io non mi preoccuperei – diceva Pietro – semmai mettiamo i ragazzi sotto i muri portanti.”
“Io ho Emma che dorme e Davide con la febbre.”

Le ultime persone in fuga erano ora ostacolate dalle gambe pesanti della signora Emma che saliva faticosamente dal primo piano.

“Mamma, stavo venendo io da te.”

“Ieri in televisione dicevano di non prendere l’ascensore, che può essere pericoloso, e sono salita a piedi…”

Neanche finì di parlare che arrivò la scossa delle 3.03, violentissima. Sembravano in balia delle solette del palazzo che andavano per i fatti loro, arrivavano rumori sinistri dai due appartamenti e nel pianerottolo si materializzavano, in pigiama, da un lato Dario e dall’altro Davide e Emma.

“Ma che succede?”

 “Andiamocene, per favore!” – urlava Ruggero.

Dopo dieci minuti il nutrito gruppo stava seduto nelle panchine di via Libertà, tutti morti di freddo, a scrutare le chiome dei grossi platani che ondeggiavano sulle loro teste; con loro c’era una popolazione di persone, alcune in pigiama e vestaglia.

Alle 4.20, infine, arrivò una terza scossa di forza minore. La gente non accennava a rientrare, Pietro voleva raggiungere il giornale, ma non se la sentiva di lasciare le donne e i ragazzi e Davide tremava per la febbre. Così li riportò a casa e corse in redazione dove ricevette le prime notizie:

“La zona più colpita è fra il palermitano, il trapanese e l’agrigentino, i paesi sono Salemi, Poggioreale, Santa Margherita Belice, Gibellina, Santa Ninfa, Salaparuta, Partanna e Montevago. La seconda scossa è stata la più violenta e c’è stata anche una mareggiata.”

“Morti?”

 “A Montevago sono già stati recuperati oltre duecento cadaveri[2].”

Continuavano ad arrivare notizie dalle telescriventi

“A Gibellina crollati il 90 per cento degli edifici. A Santa Margherita Belìce l’80 per cento.”

“Ma in città?” – chiedeva ancora Pietro

“Solo danni superficiali e una donna incinta che nella fuga si è sentita male e ha partorito al Motel Agip.”

Il giornale aveva già mandato sul luogo tre cronisti e Pietro e il direttore scendevano in tipografia per vedere se c’erano danni agli impianti anche perché bisognava andare subito in straordinaria.

Più tardi Elda lasciò i ragazzi a dormire e arrivò anche lei al giornale, poi arrivò la comunicazione che le scuole erano chiuse fino a nuovo ordine.

Intanto i cronisti mandavano notizie dalle zone colpite:

“Qua c’è un’apocalisse, non si vedono soccorsi e c’è gente che vaga semiassiderata, affamata e distrutta dal dolore.”

Anche se Palermo era lontana dall’epicentro, per le tre notti successive scapparono ancora, questa volta a Villa Sperlinga dove c’era una specie di kermesse, col bar aperto tutta la notte, fuochi improvvisati, gente che dormiva nelle macchine (fra cui Davide che non si riprendeva dall’influenza) e altra che passeggiava conversando con le coperte sulle spalle.

“Ora dimmi tu – faceva Guglielmo – un Presidente di Corte d’Appello avvolto in una coperta, ma non ce l’ha un cappotto?”

Dopo qualche ora si tornava a casa per stanchezza, le scuole continuavano a restare chiuse e Dario ed Emma vivevano una sorta di eccitazione: non si dormiva più e mentre i grandi confabulavano loro potevano giocare a carte e a Monopoli in piena notte, a volte si univano anche Davide e Ruggero, che alternavano ansia a strafottenza. La mattina Elda e Pietro tornavano al lavoro mentre Ottavia restava con la nonna e i ragazzi, in quel frangente la pagina della cultura non aveva molto spazio e poteva aspettare, mentre Davide aveva dei fortissimi mal di testa, vomitava e sentiva il collo rigido.

Si sparse la voce di un’epidemia di meningite e Ottavia iniziò ad allarmarsi, non fu facile trovare un dottore ma quando ne arrivò uno consigliò subito delle analisi complicate. Ottavia si angosciò e telefonò a Ignazio.

“Io sto per prendere l’aereo.”

“Stai arrivando, che sollievo!”

“Sì ma a Punta Raisi mi aspettano i compagni per portarmi direttamente nelle zone terremotate.”

“Ma Davide potrebbe avere la meningite!”

“Non sei sola, c’è Emanuele che ormai ha vent’anni, ci sono Elda e Pietro, c’è mia madre… io devo correre lì perché c’è una situazione delicatissima, quelli della DC stanno iniziando a dare biglietti di sola andata per il nord. Invece di organizzare i soccorsi li vogliono mandare tutti via.”

“Ma Ignazio…”

Quel pomeriggio Ottavia si sfogava con Elda:

“Cosa gli costava passare da casa? Allungare di qualche chilometro? La verità è che io, i suoi figli, non siamo niente per lui… è generoso… buono… ma con chi? Con i compagni, con i terremotati… Davide potrebbe avere la meningite e come al solito io sono qui a cavarmela da sola!”

“Secondo me non ha capito la situazione, comunque ci siamo noi.”

“Ci siete sempre voi, solo voi, non voglio sembrare ingrata, ma non è giusto, quei ragazzi un padre ce l’hanno. Forse l’errore è stato mio, che Ignazio fosse così preso dalla politica si capiva sin dall’inizio.”

Per fortuna non si trattava di meningite ma della brutta piega che aveva preso l’influenza per via di quelle fughe notturne in un gennaio freddissimo.

Nello stesso tempo la presenza di Ignazio e di altri compagni nelle tendopoli si rivelava indispensabile, per convincerli a non partire e soprattutto per organizzare un fronte comune che pretendesse sostegni economici e ricostruzione.

Arrivavano aiuti da tutto il mondo, ma né il governo nazionale né quello regionale riuscivano a darsi un’organizzazione, alcuni centri erano irraggiungibili e non si riusciva a smistare con criterio il cibo e il vestiario; cataste di pane restavano a marcire sotto la pioggia, mentre arrivavano abiti assolutamente inadatti a persone che dovevano sopportare un inverno rigidissimo, senza il conforto di un tetto.

Già due giorni dopo quelle dirompenti scosse notturne, dalle pagine del loro giornale, Leonardo Sciascia si lamentava dei disservizi dello Stato e notava come le testate del Nord già parlavano con disprezzo di quelle case di pietra e fango, come se fosse salutare radere al suolo borghi carichi di storia, vita, ricordi e umanità. Qualcuno già una settimana dopo si raccomandava che non finisse come Messina, che a sessant’anni dal terremoto aveva ancora gente che viveva nelle baracche. Invece sarebbe stata una crudele profezia.

Il giornale avviò una sottoscrizione fra i lettori, mentre dal partito, dai sindacati, dalle Acli e da altre associazioni iniziarono a organizzarsi pullman di volontari.

Davide si riprendeva e Ignazio era ancora nelle tendopoli, quando Emanuele decise di salire su uno di quei mezzi per andare a dare il suo aiuto. Tantissimi ragazzi stavano andando da tutta la Sicilia ma anche dal resto d’Italia e del mondo, seguendo l’esempio della sorprendente solidarietà giovanile dopo l’alluvione di Firenze.

Emanuele si fermò nel Belice per oltre un mese incontrando sporadicamente suo padre, il quale a fasi alterne restò fino alla primavera. A fine febbraio Emma e Dario rientrarono un giorno a scuola e, mentre erano in aula, ci fu una scossa fortissima che li costrinse a scendere in strada. Solo allora si resero conto che il terremoto non era così divertente e iniziarono ad avere nostalgia della loro vita scolastica, che poterono riprendere solo un mese dopo. Le scosse continuavano inesorabili, lente e inquietanti e in una di queste, era mattina, Emma scoppiò a piangere.

“Non ne posso più, ma quando finiscono?”

Nel frattempo Davide con i suoi compagni occupava per protesta il liceo scientifico Cannizzaro, inagibile per il terremoto, mentre il primo marzo a Roma gli scontri con la polizia a Valle Giulia segnavano il momento più sduro del movimento del ‘68.

In autunno quasi tutti i licei e le facoltà universitarie furono occupate nuovamente dagli studenti. Davide dormiva nelle aule del Cannizzaro, Ruggero in quelle del liceo classico Garibaldi, mentre Emanuele prendeva possesso con i suoi colleghi dei corridoi lugubri della facoltà di Ingegneria.

Da quando la nonna Emma era restata a vivere da sola nell’appartamento al primo piano, era diventata un’abitudine il suo pranzo familiare ogni sabato, dove i nipoti prenotavano in anticipo il menù, si mangiava benissimo e decisamente si eccedeva nelle quantità.

Il sabato era anche il giorno della settimana in cui era più probabile la presenza di Ignazio e in cui i preliminari di conversazione che riguardavano il tempo, le novità della campagna, i ricordi familiari, gli aggiornamenti sugli studi dei ragazzi, venivano presto espletati per fare posto all’argomento di maggiore interesse per la famiglia, che inevitabilmente escludeva la nonna Emma e la fantesca Rosa, cioè la politica.

Pietro era un editorialista politico con la giusta distanza dal partito, Ignazio era invece sempre allineato con le sue posizioni e ogni settimana portava notizie di prima mano sulla vita parlamentare. Malgrado Pietro conservasse sentimenti di deferenza verso il fratello maggiore la sua raffinata eloquenza gli permetteva di arrivare all’argomento scottante del momento da una angolazione che coglieva Ignazio di sorpresa. Così quando ancora non si era passati alla seconda portata, il tono di voce dei due fratelli iniziava a elevarsi sensibilmente, complice il vino di campagna.

Ora in queste discussioni si inserirono anche i ragazzi e Ignazio, Ottavia, Pietro e Elda dovettero prendere coscienza del protagonismo politico di una generazione che non era la loro.

Emanuele aveva un bel viso, accompagnato però da una corporatura quadrata e da movimenti sgraziati, più che timido era poco incline a includere gli altri nel suo mondo. Aveva dovuto subire la politica attraverso la privazione della presenza paterna, alla quale aveva pensato di sostituirsi guidando una madre tanto amata quanto sfuggente. Era cresciuto con la compagnia dei suoi teoremi matematici e la scienza lo aveva guidato in una facoltà universitaria che poco era cambiata nell’ultimo secolo, in cui non si poteva entrare in aula senza giacca e cravatta e in cui non esistevano le studentesse. Quel mese passato nelle tendopoli dei terremotati era stato molto formativo e socializzante e lo aveva messo in contatto con ragazzi che pensavano che nel dopoguerra il partito avesse frenato una completa presa di potere da parte del popolo. Si era così avvicinato alla politica in una posizione critica rispetto a quella di suo padre.

Ruggero invece era un bellissimo ragazzo alto e magro, bravo a scuola ma soprattutto di gran successo, sempre aggiornato sulle mode giovanili e le avanguardie musicali, comprava gli LP dei Beatles e dei Rolling Stones lo stesso giorno in cui uscivano sul mercato, aveva imparato l’inglese dai loro testi e aveva scoperto quelli di Bob Dylan e Joan Baez, iniziava anche a conoscere un giovane cantautore italiano che si chiamava Fabrizio de André. Tutto quello che non rientrava nel suo sistema di misurazione, che si trattasse di decibel e note musicali, potenza del tubo di scappamento delle motociclette, sciancratura e colletti delle camicie, altezza delle basette e delle gambe dei jeans, era irrimediabilmente archiviato come antico, impedimento alla sua libertà di espressione. La voglia di svecchiamento era quindi la spinta principale della sua protesta, in un liceo in cui le ragazze portavano ancora il grembiule nero e non uscivano per la ricreazione, in cui canticchiare una canzone dei Bob Dylan avrebbe garantito una nota sul registro.

Nel confronto con la figura paterna, al contrario del fratello, Davide era riuscito a scendere a patti e si era avvicinato al PCI, iscrivendosi giovanissimo alla FGCI palermitana. Lo aveva fatto con tutte le carte in regola, con la scuola di partito alle Frattocchie e l’analisi critica dell’intero Capitale di Karl Marx, brillando in classe in tutte le materie umanistiche, soprattutto in storia, studiando la filosofia prima che rientrasse nel suo programma scolastico, facendosi crescere una barba autorevole con il primo pelame che era comparso nelle sue guance. Anche lui aveva un bel viso ma si atteggiava a uomo maturo, incurvando le spalle e gesticolando come un vecchio filosofo, cosa che comunque incontrava il favore delle ragazze culturalmente impegnate. Per lui il sessantotto era una inattesa novità che lo costringeva a confrontarsi con istanze giovanili che il partito non aveva ancora preso in considerazione.

Dario ed Emma, undicenni, si sorbivano i racconti delle gesta eroiche dei fratelli, colmi di gelosia e di invidia.

La piccola Emma era irrimediabilmente infatuata da Ruggero, avrebbe voluto essere più grande e poter dormire anche lei nei corridoi del liceo classico.

Dario sarebbe invece voluto diventare un capopopolo, essere bello come suo fratello, farsi crescere la barba come Davide e guadagnare la considerazione di qualche ragazzina.

Ottavia era l’unica disposta ad ascoltare con pazienza le ragioni dei ragazzi, mentre gli altri tre non riuscivano facilmente a liberarsi del loro paternalismo. Bisognava anche esaminare con attenzione i pericoli a cui i ragazzi andavano incontro. Le prese di posizione erano estreme e ai confini della legalità, a cominciare dall’occupazione abusiva di edifici pubblici. La notte gli occupanti erano soggetti alle irruzioni della polizia o, peggio ancora, ai raid fascisti. Così a Palermo era tornata protagonista la contrapposizione violenta come nel dopoguerra e, alle provocazioni fasciste, qualche ragazzo di sinistra aveva risposto nella maniera sbagliata. Altri poi avevano iniziato a conoscere il carcere o la privazione del passaporto per dei pretesti ingiustificati. Dopo aver corso pericoli ben peggiori nella loro giovinezza, adesso che Elda, Pietro, Ottavia e Ignazio si trovavano dalla parte dei genitori, la loro preoccupazione era giustificata quanto inconfessabile.

Qualche mese più tardi, con la fuoriuscita dal PCI del gruppo “il Manifesto”[3],  l’atmosfera dei pranzi domestici iniziò a diventare critica.

All’interno del partito la vicenda fu vissuta come una lacerazione familiare che ebbe nella famiglia Santelia una personificazione esemplare. Il fatto che Ignazio non condividesse le ragioni di persone colte e intelligenti, che dicevano il vero e con cui avevano passato piacevolissimi momenti in campagna, rendeva Ottavia astiosa nei confronti del marito.

“Come fai a essere così duro verso le persone con cui eri più in accordo dentro il partito?”

“Non dico che su Praga hanno torto, ma stanno sbagliano i modi.”

Pietro ed Elda, sempre fedelmente tesserati del PCI, cercavano di trovare giustificazioni alla presa di posizione di partito alla quale si era allineato Ignazio, ma nell’intimità di un pranzo familiare non potevano tacere a quest’ultimo il disagio per come era stata condotta la vicenda.

Nel frattempo i ragazzi avevano iniziato ad allocarsi nel variegato mondo della sinistra estraparlamentare: Emanuele aderiva a un gruppo maoista e alternava i silenzi a cui aveva abituato la famiglia a esternazioni estreme del suo odio di classe. L’unico a cadere in queste provocazioni era suo fratello Davide.

A Palermo poi si stava formando una cellula molto nutrita che faceva capo ai dissidenti del Manifesto, organizzata da un vecchio compagno di lotte e di liceo dei fratelli Santelia. Questo movimento attraeva intellettuali come Ottavia e Giulio e faceva proseliti fra alcuni giovani del liceo classico Garibaldi, fra cui Ruggero. Emma e Dario invece avevano creato con i loro amici il “circolo dell’amicizia”, un gruppo di ragazzini che aspettavano il compimento dei 14 anni per potere entrare nella FGCI e che si riunivano in un soppalco della federazione centrale, occupandosi principalmente di stampare volantini col ciclostile e raccogliere fondi per le feste dell’Unità.

Un occhio esterno come quello della signora Rosa sarebbe stato indotto a pensare che ogni sabato in quella stanza da pranzo si combattesse una faida. In realtà si trattava di una famiglia in cui tutti si volevano bene e, incredibile a dirsi, ognuno di loro era convinto di trarre ispirazione dallo stesso documento prodotto nel 1848 da Karl Marx.

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.


[1] Un terremoto di magnitudo 6.1 colpì la valle del Belice, fra le province di Palermo, Agrigento e Trapani la notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968.

[2][2] Il bilancio definitivo della tragedia sarà di quasi 400 morti, un migliaio di feriti, circa 98.000 persone rimaste senza tetto.

[3] La rivista “Il Manifesto” nacque come pubblicazione autonoma all’interno del Partito Comunista Italiano nell’estate del 1968, per mano di Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Valentino Parlato. Assunse presto posizioni in contrasto con la linea maggioritaria del PCI (in particolar modo rispetto all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, con l’editoriale uscito nel secondo numero intitolato “Praga è sola”) che ne chiese la sospensione delle pubblicazioni. Il Comitato centrale del PCI del 24 novembre 1969 deliberò poi la radiazione per Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli con l’accusa di “frazionismo”. Successivamente venne adottato un provvedimento amministrativo per Lucio Magri e non vennero rinnovate le iscrizioni per Massimo Caprara (dal 1944, per 20 anni, segretario personale di Togliatti), Valentino Parlato e Luciana Castellina.

Il manifesto si sarebbe costituito in seguito come formazione politica con una piccola rappresentanza parlamentare (Natoli, Pintor, Rossanda ai quali si aggiunsero Massimo Caprara e Liberato Bronzuto).

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