Quant’è bella la campagna, ma…

Una tragedia sfiorata, un bimbo salvato, e subito ci si introduce nell’intimità di uno stile di vita, si indagano gli aspetti di una genitorialità controcorrente, aleggiano i giudizi. Ormai ci siamo abituati, è quasi un modo per dire “a me non potrebbe succedere” ed è facile con famiglie di diverse etnie e condizioni sociali, è facile mandare i servizi sociali in un campo Rom, allo Zen o a Scampia. Ma quì si tratta di genitori laureati e di una scelta fatta dall’alto. Quindi scatta la controreazione alla difesa, che in fondo è di noi stessi. Che genitori siamo o siamo stati? La porta di casa l’abbiamo sempre chiusa bene? Ci è mai capitato di mettere a letto i bambini con le scarpine?

Quindi è sopraggiunto il motto: “non giudichiamo”.

Invece a me piuttosto che giudicare viene da pensare. Così come ho molto riflettuto quando ho visto il film “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher. La situazione è molto somigliante, e li si trattava di un racconto quasi autobiografico. Perché scelte “intellettuali” di questo tipo, sono ricorrenti nella storia, dal gruppo di Bloomsbury a situazioni di cui sono stata testimone nel dopoguerra, poi negli anni settanta, e adesso ai giorni nostri. Io per prima sono una sopravvissuta, avendo passato quattro mesi l’anno isolata, senza luce e telefono e con una madre che non sapeva guidare, e i miei genitori erano laureati e illuminati. Di tragedie ne abbiamo sfiorate e immagino cosa avrebbe detto di noi la stampa in quegli ipotetici casi.

Il fatto è che se prima si trattava di scelte elitarie, adesso si tratta di necessità, “necessità della società moderna che molti giovani ritornino all’agricoltura non intensiva”, il che dovrebbe portare a non scontrarsi coi problemi che avevano le famiglie contadine fino al dopoguerra, con gli animali da governare che hanno più esigenze dei propri figli, con la mancanza però di quel welfare familiare costituito da nonne e anziane zie che c’erano un tempo. Sono scelte affidate al caso senza che da parte delle istituzioni ci sia una mano tesa. Perché non tutti coloro che scelgono la campagna partono con le spalle coperte da proprietà familiari o cooperative finanziate dallo stato.

Chi fa questa scelta andrebbe quindi incoraggiato con un welfare istituzionale: asili e ambulatori di campagna, sussidi, accesso a reti di vendita e condivisione dei macchinari… e se qualcuno in questa occasione ha invocato i servizi sociali, questa istituzione dovrebbe tornare ai suoi scopi iniziali, che sono quelli di aiutare e coadiuvare le famiglie sopraffatte dal lavoro e dalle difficoltà economiche, piuttosto che censurare e punire, come troppo spesso avviene.

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