Vivi Villa Trabia 2

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Compra Vivi Villa Trabia, una battaglia civile nella nuova versione illustrata

Seconda Parte

Ma adesso torniamo a quel primo pomeriggio d’aprile. Il nostro articolo su «Mezzocielo» iniziava: «Un pomeriggio di un giorno d’aprile, rubato alla pesantezza dei nostri giorni di allora». Sì la «pesantezza dei nostri giorni»: non che adesso sia tanto meglio, ma in quella primavera del 1993 la nostra vita era appesantita da problemi personali, problemi politici e problemi economici. Le nostre storie non sono poi tanto diverse: in quel momento eravamo sulla quarantina, chi ci stava arrivando come me ed Anna, chi l’aveva già superata come Francesca, quel momento in cui, uscendo dal tunnel dei bambini piccoli, ti accorgi che nel frattempo il mondo ha continuato a girare e tu sei rimasta indietro. In più, un momento di catarsi politica per noi siciliani: quasi un anno prima c’era stata la strage di Capaci, avevamo pianto tutti come quando muore il proprio padre e ci si sente soli e senza protezione.

Funerali delle vittime della strage di Capaci

Nella disperazione sincera e angosciata di quel funerale umido di lacrime, sudore e pioggia, avevamo finalmente capito che non dovevamo più delegare ad altri la nostra storia. Le prime marce silenziose, le «catene umane» del dopo Falcone, erano per noi un po’ patetiche, a malapena si riesce ad accettare il proprio invecchiamento, ma quello dei tuoi coetanei, non so perché, ti fa più male. Certe persone mi chiedevo da dove sbucassero fuori, dove erano state tutti quegli anni? Certamente anche loro pensavano la stessa cosa di me. Ognuno con i propri figli, bambini o adolescenti, era un po’ come la presentazione al tempio. Per noi adulti: capelli bianchi, rughe incipienti, il corpo più appesantito. Era una primavera anche quella, le grandi rivoluzioni si fanno a primavera. Dopo l’imbarazzo dei primi incontri e gli scambi d’indirizzi, le promesse del tipo: «ora non dobbiamo più perderci di vista» in realtà furono mantenute; incominciarono a sorgere una quantità di comitati antimafia, associazioni, movimenti di volontariato, tanti che alla manifestazione dei centocinquantamila ad un anno dalla morte di Falcone, la lettura dell’elenco di tutte queste sigle impiegò quasi mezz’ora.

Una delle catene umane che seguirono alla strage di Capaci

A questa primavera del 1992, quella in cui accadde la strage di Capaci, era seguita un’estate di fuoco, con la strage di via D’Amelio e la nostra furia che aumentava, e ancora sit-in, digiuni, catene umane e momenti di scoraggiamento in cui ci si contava e ci si rendeva conto che in realtà eravamo quasi tutti ex sessantottini. Così l’inverno del 1993 era passato nella speranza che Tangentopoli arrivasse anche in Sicilia a scoperchiare le nostre pentole bollenti.

Giulio Andreotti nel 1993

L’annuncio dell’avviso di garanzia a Giulio Andreotti per collusioni mafiose era stato salutato come il segno divino che qualcosa stesse veramente cambiando; molti, come me e Maurizio, appresero questa notizia mentre si preparavano a recarsi in Cattedrale per assistere alla prima mondiale di un requiem per i morti di mafia, composto da quattro giovani musicisti emergenti nel panorama contemporaneo. Chi è sici­liano sa come sono andate veramente le cose. Gli altri possono ridere sul bacio fra Andreotti e Riina, ma chi conosce usi e costumi della nostra terra sa interpretare il significato di un abbraccio o di un bacio. Quell’affettuosa irruenza a cui non riusciamo a sottrarci in certi matrimoni o situazioni conviviali, quell’obbligo di consumare dolci zuccheratissimi anche quando siamo a dieta: più che un’attenzione gentile è una affermazione di potere o di parità: sei a casa mia e devi accettare il mio cibo e i miei baci. Quindi Andreotti, se veramente è andato a quell’incontro, avrà dovuto attenersi, anche suo malgrado, a quel cerimoniale; che nel caso specifico poteva servire a suggellare un accordo fra il potere dello stato e quello di cosa nostra. Poi non è soltanto una questione di baci: ci sono decenni di sottomissione dell’isola alla corrente limiana che ognuno di noi ha dovuto subire, non foss’altro che all’interno del proprio posto di lavoro. Ne sapevo bene qualcosa anch’io che ero stata costretta a licenziarmi, perdendo uno stipendio sicuro, da un importante teatro della città…

Il luogo: la Cattedrale, chiesa madre della città.

Locandina del Requiem per le vittime della mafia

Il momento solenne: un’estasi di suoni e voci che ci fece tutti riappacificare con la musica contemporanea. Fu il modo per noi palermitani di celebrare uno dei momenti più alti della nostra storia. Una chiesa gremita fino all’inverosimile, una concentrazione altissima, momenti di gioia e commozione. E non per una cinica caccia al colpevole, ma perché l’individuazione di un responsabile che tutti abbondantemente già sospettavamo tale, era il modo migliore per rendere giustizia a chi per queste convinzioni aveva perso la vita.

Io mi ero stancata di piangere, piangere i morti di mafia e piangere la mia situazione economica che mai era stata florida, ma che adesso era precipitata. La sartoria teatrale che avevo messo su quattro anni prima, quando avevo deciso di licenziarmi dal Teatro Stabile, riceveva poche commesse, il mondo degli appalti era bloccato e anche quello della produzione teatrale; anche Maurizio, attore e organizzatore di spettacoli, risentiva di questa crisi. Avevamo dovuto fare a meno di un aiuto domestico e mi ero adattata al pesante ruolo di casalinga disoccupata, avvilita dai letti da rifare e dai conti che non tornavano.

Leoluca Orlando negli anni ottanta

Quel giorno avevo letto sul giornale locale che Villa Trabia, già di proprietà del comune di Palermo, con procedure avviate dalla prima amministrazione del sindaco Orlando, veniva finalmente restituita ai citta­dini da un alacre quanto fugace assessore alle ville e giardini che con questo annuncio, evidentemente, in­tendeva fissare il proprio nome nella mente dei palermitani, salvandolo dalla tracimazione della propria giunta di governo che di lì a poco si sarebbe dimessa. E così, complice quel primo sole di primavera che per noi palermitani è come la coca per i boliviani (quel bene che ti penetra nelle ossa, ti carezza, ti fa dimenti­care le sofferenze dell’inverno, ti trasporta in una dimensione onirica in cui tutto ti sembra più buono…), passai un pomeriggio nella foresta della mia infanzia osservando le mie figlie arrampicarsi fra le radici dei ficus: non si lamentavano, non chiedevano niente, si divertivano gratis… e io stavo distesa per terra. Non c’era neanche una panchina, veramente non c’era nessuno, né sorveglianti, né giardinieri, né cartelli che informassero che la villa era pubblica, non ero neanche sicura che fossero state rimosse le numerose sirin­ghe che si nascondevano minacciose sotto l’humus di foglie di ficus: ma che razza di villa era stata restituita ai cittadini? Così quando mi accorsi di essere sola con le bambine, insieme dei ragazzini che accanto a noi si stavano picchiando per contendersi una moto rubata, capii che l’incantesimo era finito ed era giunto il momento di tornare alla nostra pesantezza quotidiana.

Uno dei ficus di Villa Trabia

Valentina quell’anno aveva cominciato la prima elementare nella scuola pubblica del quartiere, che è poi il quartiere centrale di Palermo, sottinteso erroneamente come quartiere «bene». Quella scuola l’avevo frequentata anch’io da bambina. Ancora ricordavo episodi di intolleranza legati alla mia infanzia, come quando la figlia del salumiere di via Catania venne diffidata dal consumare il suo pane e cacio perché faceva «cattivo odore», mentre noi figlie di professionisti mangiavamo il più nobile «mottino»; il gelo che si creava quando la bidella portava in classe i grembiulini per le bambine «povere» (aggettivo sottolineato pesantemente dalla maestra) e le compagne dell’ultimo banco, posizionate lì non per la loro statura ma per la loro condizione sociale, lottavano tra l’imbarazzo di dover ammettere il loro status e la necessità di assicurarsi un bene gratuito. La scuola «Mario Rapisardi» è la più ambita dalle maestre palermitane che la considerano un traguardo quando, giunte alle soglie dell’età pensionabile, possono finalmente rivolgersi ad una categoria sociale di bambini che per censo ed educazione dovrebbe essere meno turbolenta di quella di altri quartieri della città (dove le insegnanti, più che far lezione, cercano di terminare la giornata senza bambini feriti e suppellettili distrutte).

La scuola Elementare Mario Rapisardi

Accanto ad una quota di bambini bene, le insegnanti del «Mario Rapisardi» devono fare i conti con una quota minoritaria di bambini più disagiati che abitano nella zona storica del quartiere, oltre ad una sempre più considerevole schiera di bambini extracomunitari figli di colf a servizio nelle famiglie del rione. Questa scuola è una delle poche di Palermo a non avere doppi turni, gode di una palestra, di una sala musica e di una biblioteca. Queste strutture restano però sempre chiuse per mancanza di «personale preposto» o per «inagibilità dei locali». Così non è mai stato organizzato il tempo pieno con relativa mensa, l’insegnamento della lingua straniera, lo svolgimento di attività extra-didattiche e nemmeno la scuola materna (premesso che in questo quartiere manca anche l’asilo nido, io per le mie due bimbe ho dovuto per ben sette anni, pagare una scuola privata). I genitori dei bambini bene però non si lamentano, a loro basta il diritto per censo alla scuola meglio frequentata della città dove le maestre, data la loro età, possono permettersi quelle sgridate che loro, a casa, non riescono a dare. Hanno tutti i soldi sufficienti per pagare una baby sitter che all’una preleva i loro figli e li porta a casa a mangiare, una palestra o una scuola di lingua private per il pomeriggio. I genitori degli altri bambini, quelli non si lamentano, non sono abituati a rivendicare i propri diritti, forse per non mostrare la loro situazione di disagio economico; si affannano a comprare il materiale didattico che sarebbe compito della scuola fornire e non si fanno mai trovare impreparati quando bisogna fare il regalo alla maestra.

L’entusiasmo dei primi giorni di scuola si esaurì presto, Valentina capì che il tempo della libertà era finito; io dovetti concludere che gli anni passano invano e poco ci separava dal pane e cacio della mia compagnetta.

Fra le nuove compagne di Valentina ce n’era una, Mariacarla, la cui mamma, sotto un colto birignao, celava l’animo di una indomabile «Pasionaria»: un’unica divisa portata con qualsiasi tempo, jeans e giubbotto, e un’enorme voglia di commentare tutto quello che accadeva. Mi lanciò vari segnali dai quali riconobbi in lei un ex sessantottina, abboccò subito quando la informai di alcune manifestazioni antimafia e mi resi conto ben presto che era attraversata dalla stessa mia ansia di cambiamenti.

Pur essendo procuratore legale, Francesca aveva lavorato a periodi alterni fra un figlio e l’altro. Apparteneva ad una famiglia molto per bene di Caltagirone. Aveva fatto l’università a Catania dove aveva conosciuto suo marito il quale l’aveva traviata alla causa di sinistra, tanto che la sua brillante media di voti universitari, aveva subito qualche flessione. Subito dopo la laurea si erano sposati e trasferiti a Palermo, dove il marito aveva trovato lavoro. Avevano tirato su tre figli, Enzo, Roberto e Mariacarla (che ora avevano 13, 10 e 6 anni), frequentando quasi esclusivamente i colleghi di lavoro di lui e senza familiari che li aiutassero nel loro ménage. La loro era una famiglia molto solidale ed unita, il marito era una persona valida ed intelligente, i figli vivaci e simpatici, ma si capiva che per Francesca era arrivato il momento di occuparsi anche di qualcos’altro.

Un computer del 1993

Anche il computer fu il nostro complice. Una mattina Francesca venne a prendere a scuola i suoi figli distribuendo dei volantini (in opposizione al referendum sul maggioritario) che si era confezionata da sola, utilizzando il computer del marito; questo «fai da te casalingo» della politica mi fece pensare che l’in­tenzione che rimuginavo da qualche giorno potesse trovare in lei un’alleata.

Così le parlai del mio pomeriggio a Villa Trabia, le dissi che se non spingevamo subito altre persone a frequentarla, la villa sarebbe finita in mano ai vandali e subito richiusa, e poi magari sarebbe stata resa un tappeto di cemento come la vicina Villa Inglese. A Palermo tutti i disservizi si risolvono con le chiusure, chiusure al pubblico di beni della collettività e apertura di cantieri perenni: appalti che si rinnovano, lavoro per i raccomandati ai quali non preme affatto sbrigarsi e soldi a fiumi. Ne è un esempio lampante il Teatro Massimo, chiuso più di vent’anni fa per la perdita di un tubo del riscaldamento e mai restituito ai cittadini.

Mi raccontò che un pomeriggio a Villa Trabia aveva incontrato Anna, la mamma di Turi, un bambino che fre­quentava lo stesso modulo scolastico di Valentina e Mariacarla. Si rividero e insieme prepararono dei me­ravigliosi volantini fuxia che a grandi lettere invitavano quanti volessero far rivivere Villa Trabia ad incon­trarsi un certo pomeriggio nel piazzale antistante la casena. Distribuimmo i volantini fra le mamme che a scuola aspettavano i bambini e ne attaccammo alcuni in punti strategici del quartiere.

Il pomeriggio fissato, insieme ai rispettivi figli, ci ritrovammo in tre: io, Francesca ed Anna. I bambini si riconobbero e si misero subito a giocare; vedendoli così allegri insieme, digerimmo il nostro iniziale sco­raggiamento per esserci trovate in così poche e iniziammo a parlare.

Anna è proprio un personaggio sui generis, tritura parole una dopo l’altra. Il suo linguaggio, un misto fra un volantino di rivendicazioni sindacali e una lettera commerciale, tradisce subito la sua storia precedente: anche lei ha avuto un passato politico e adesso è un’impiegata dell’azienda municipale del gas. Aveva un tono combattuto, capiva che se si buttava in questa battaglia non si sarebbe più tirata indietro, ma al tempo stesso temeva di non avere sufficiente tempo per aggiungere un altro impegno alla sua mole di incombenze quotidiane. Nel suo barcamenarsi fra impegni lavorativi e familiari era guidata da un’energia da virago, caricava di simpatia popolana e travolgente il marito rappresentante di commercio, i figli Nike di sette e Turi di sei e quanti le stavano attorno.

All’inizio mandammo una serie di missive a tutti gli assessorati competenti dove, ringraziando per la felice iniziativa di aver riaperto al pubblico la villa, avanzavamo una serie di puntualizzazioni cortesi circa le cose che secondo noi andavano ancora fatte per rendere la villa fruibile a tutti: la dotazione delle panchine, la di­sinfestazione e derattizzazione, la copertura di buche, la recinzione di burroni, la fortezzatura dei parapetti del ponte, il divieto d’accesso dei veicoli a motore, la sorveglianza e il ripristino botanico delle aree dismesse, il divieto di cementificazione delle aree calpestabili.

Un fax del 1993

Francesca a casa possedeva un fax che veniva usato per mandare le missive, tutto questo ci dava un senso di ebbrezza! Nel mezzo delle comodità domestiche giocavamo a fare le persone serie, le nostre lettere erano molto professionali. C’eravamo date un nome e una qualifica «Comitato Vivi Villa Trabia», fra i recapiti che davamo c’erano il numero di fax dello studio legale di mio padre (perché era in automatico), l’indirizzo di casa di Anna (l’unico con un portiere) e il numero di telefono di Francesca (quella fra di noi che stava di più in casa).

La cosa incredibile fu che ad un certo punto cominciarono a risponderci. Chissà cosa avranno pensato nei vari assessorati comunali, trovandosi a dialogare con un comitato fino ad allora sconosciuto; comunque ci presero sul serio.

Stilammo un documento programmatico nel quale formulavamo le nostre richieste, invitando quanti vo­lessero ad apporre in calce la propria firma e il contributo di mille lire per l’acquisto simbolico della prima panchina. Facemmo girare il documento all’uscita di scuola, lo lasciammo in alcuni negozi del quartiere dove eravamo conosciute e in poco tempo raccogliemmo circa duecentomila lire e le relative firme.

Nel frattempo ci vedevamo con i bambini a Villa Trabia. Sin dall’inizio il nostro fu un sodalizio culinario, Francesca ogni tanto portava un ciambellone fatto in casa e dai discorsi programmatici si scivolava presto agli scambi di ricette. Ben presto ci accorgemmo che le uniche panchine esistenti erano situate tutte in prossimità della casena, la costruzione settecentesca interna al parco.

Con l’approssimarsi dell’estate, verso le cinque del pomeriggio mentre i bambini erano nel pieno del gioco e noi delle nostre discussioni, si avvicinava il domestico del circolo privato che occupava la villa e ci invitava ad allontanarci perché stavano arrivando i soci per prendere posto ai tavoli da gioco posti all’esterno della casena. Noi eravamo un po’ riluttanti ad allontanarci perché altrove non vi erano più panchine, ma lui deciso ci ricordava che quella era proprietà privata e che noi non ci potevamo stare. Si chiudeva un occhio per alcune baby sitter al mattino, ma all’orario in cui arrivavano i soci, cioè alle cinque del pomeriggio, la nostra presenza e quella dei bambini vocianti era di disturbo per l’attività che essi dovevano svolgere.

La casena di Villa Trabia oggi

Le prime volte con un certo imbarazzo accogliemmo i suoi inviti ad andarcene, ma quando volemmo indagare dove finisse la loro proprietà privata e dove iniziasse quella nostra pubblica di cittadini, scoprimmo che anche la casena era stata acquistata dal Comune insieme all’ultimo lotto di terreno. Da allora inoltre era iniziato un contenzioso fra gli occupanti della casena, cioè il circolo Unione, e il Comune circa la ri­definizione del contratto di affitto.

Il circolo Unione aveva iniziato ad occupare da affittuario la casena quando ancora la proprietà era dei principi di Trabia, tutto era stato fatto tra amici, dato che il circolo era frequentato dalla migliore aristocrazia della città. Negli anni Sessanta però, gli eredi della famiglia Trabia prima ipotecarono e poi cedettero la casena con annesso parco al Banco di Sicilia, ma anche in questo caso restò un rapporto fra amici: si trattò soltanto di estendere le iscrizioni al circolo ad alcuni alti dirigenti della banca, che non anelavano ad altro che ad essere ammessi nella schiera delle persone più in vista della città.

Il tradimento avvenne quando, ai tempi della prima giunta Orlando, furono avviate, da parte del comune di Palermo, le procedure di acquisto per la villa e la casena. Il Banco di Sicilia, navigando in cattive acque, fu ben lieto di ricevere una boccata d’ossigeno alle proprie finanze e l’acquisto venne completato nell’89, utilizzando un finanziamento regionale atto alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico e trasferendo la competenza all’assessorato comunale ai beni culturali.

Certamente con un sospiro di sollievo i soci del circolo Unione videro di lì a poco cadere la giunta Orlando e fecero in modo che anche in questo caso il rapporto contrattuale restasse tra amici, adesso si trattava di ammettere fra i soci del circolo qualche assessore democristiano.

Ogni tanto qualche alacre funzionario del comune rompeva un po’ le scatole, ricordando ai soci con grande onta che il loro contratto prevedeva l’uso soltanto del pianterreno e non anche del primo piano. I soci si ritirarono sì dal primo piano, ma pretesero li dimezzamento del canone, già irrisorio dato il valore dell’immobile. Il contenzioso nacque su questo punto e da quel momento i soci versarono la quota d’affitto, a loro dire, presso lo studio di un notaio cittadino.

Beh! a nostro vedere i soci facevano un po’ di confusione fra proprietà pubblica e proprietà privata, e poi c’era quel vincolo circa le attività culturali da svolgere all’interno della casena e, comunque fosse finito il contenzioso con il circolo circa l’uso del pianterreno, c’era comunque il primo piano che già era in mano al comune, anzi alcuni operai stavano effettuandovi dei lavori.

Una mattina, spacciandoci per funzionari dell’assessorato comunale ai beni culturali, c’eravamo fatte aprire la porta del primo piano da questi operai i quali, sorpresi mentre giocavano a carte, non si presero mai la briga di verificare la nostra identità, anzi si trasformarono in cortesissimi ciceroni e ci mostrarono tutti i quattrocento metri quadri del piano.

Una storica panchina di Villa Trabia restaurata negli anni dieci del 2000

A Palermo, una città dove mancava tutto, succedeva anche questo! Che un bene immobile di proprietà pubblica venisse affittato a poco prezzo ad un gruppetto di nostalgici aristocratici e per il resto fosse pri­gioniero di un restauro stanco quanto interminabile. Cominciammo a sognare di vedere in quelle stanze una grande biblioteca di quartiere, vedere altri anziani riunirsi e anche i bambini svolgere delle loro attività all’interno della casena.

A questo riguardo pensai ad un servizio televisivo visto su Rai Tre qualche giorno prima, dove veniva portato ad esempio un asilo comunale di Reggio Emilia, nato tanti anni fa per la caparbietà di alcune mamme, e poi all’asilo dove andava mia figlia Vittoria abortito in struttura privata perché il comune di Palermo non aveva mai accordato alla cooperativa che lo gestiva un locale dove impiantare una ludoteca pubblica. Così, un giorno, andando a prendere Vittoria, parlai con le socie della cooperativa della possibilità di chiedere una parte della casena per impiantarvi la prima ludoteca della città. L’esperienza di quella scuola per Valentina e Vittoria aveva significato tanto ed era ingiusto non fare diventare la professionalità della cooperativa «Lo Scarabocchio» un patrimonio pubblico.

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