il Gran Lombardo proseguì:
– Sempre sperando qualcosa d’altro, di meglio, e sempre disperando di poterla avere… Sempre sconfortati. Sempre abbattuti… E sempre con la tentazione in corpo di toglierci la vita.
– Sì, è vero, – disse il catanese con serietà
E si mise a considerarsi le punte delle enormi scarpe. E io, senza distogliere lo sguardo dal faccino del vecchio, dissi: – Può darsi che sia vero… Ma che c’entra questo con l’andare a fare quel mestiere?
E il Gran Lombardo disse: – Credo che c’entri per qualche ragione… Credo che c’entri. Non so come spiegarlo, ma credo che c’entri. Che fa uno quando si abbandona? Quando si butta via per perduto? Fa la cosa che più odia di fare… Credo che sia questo… Credo che è comprensibile se sono quasi tutti siciliani.
Poi il Gran Lombardo raccontò di sé, veniva da Messina dove si era fatto visitare da uno specialista per una sua speciale malattia dei reni, e tornava a casa, a Leonforte, era di Leonforte, su nel Val Demone tra Enna e Nicosia, era un padrone di terre con tre belle figlie femmine, così disse, tre belle figlie femmine, e aveva un cavallo sul quale andava per le sue terre, e allora credeva, tanto quel cavallo era alto e fiero, allora credeva di essere un re, ma non gli pareva che tutto fosse lì, credersi un re quando montava a cavallo, e avrebbe voluto acquistare un’altra cognizione, così disse, acquistare un’altra cognizione, e sentirsi diverso, con qualcosa di nuovo nell’anima, avrebbe dato tutto quello che possedeva, e il cavallo anche, le terre, pur di sentirsi più in pace con gli uomini come uno, così disse, come uno che non ha nulla da rimproverarsi.
– Non perché io abbia qualcosa di particolare da rimproverarmi, disse. – Nient’affatto. E nemmeno parlo in senso di sacrestia… Ma non mi sembra di essere in pace con gli uomini.
Avrebbe voluto avere una coscienza fresca, così disse, fresca, e che gli chiedesse di compiere altri doveri, non i soliti, altri, dei nuovi doveri, e più alti, verso gli uomini, perché a compiere i soliti non c’era soddisfazione e si restava come se non si fosse fatto nulla, scontenti di sé, delusi.
Quel paese arrampicato sui Nebrodi e adesso squarciato in due è il misero emblema di una tracimazione di identità che sta sconvolgendo il sud d’Italia, insieme a quell’altro paese Calabro (Maierato, in provincia di Vibo Valentia) il cui mare di terra che precipita a valle oscurerà nella mia memoria la storica immagine di due torri che si accasciano sulle fondamenta. Purtroppo tutto avviene in un superaffollamento di tragedie umane che rende dubbiosa l’assegnazione degli ultimi posti. Si può essere più ultimi di chi perde il proprio lavoro e non riesce a sfamare i propri figli? Si può essere più ultimi di chi è ammalato e non riceve cure? Si può essere più ultimi di chi ha perso tutto in un terremoto? Si può essere più ultimi delle donne costrette a vendere il proprio corpo? A quanto pare non c’è fine, perché alle miserie si somma l’insulto, di chi su queste ride e specula, magari proprio colui che per ruolo dovrebbe aiutarti. Infatti nelle tragedie di San Fratello e Maierato i calamitati neanche sperano l’aiuto di quei vertici della protezione civile che in altre occasioni erano arrivati sul posto con tanto scruscio, perché adesso occupati a difendere disperatamente il proprio nome. Queste tragedie ci svelano la fine di quella res publica costituita da pubblici soldi e amministratori, condivisione di beni e problemi da risolvere, leggi, norme e regole; quella cittadinanza, stato, società, che distingue un insieme di individui da un branco. In questo si salvi chi può, in cui pochissimi primi sputano su una maggioranza di ultimi, risollevare il senso dello stato sarà più difficile che restituire una casa ai Sanfratellani, perché la casa comune è un concetto, un sentimento, una identità che si costruisce in millenni di civilizzazione.