L’umana pietà

Pubblicato su “Il manifesto” del 4 Dicembre 2009
Sin dalle prime forme di comunicazione, il corpo umano ha costituito la fonte di ispirazione principale; lo si vede nell’arte come nella letteratura, nella drammaturgia come nell’architettura, dove è perfino diventato canone di misura, perfetta armonia capace di stabilire le proporzioni di un edificio o una città. L’uomo ha sempre voluto rappresentare se stesso, per guardarsi in uno specchio, per salvaguardare l’integrità della sua materia, per definire i parametri della bellezza, per sancire l’inviolabilità della sua specie. Quando invece il corpo viene mostrato violato è per suscitare pietas, identificando la sofferenza altrui con quella propria. Una sofferenza che si accetta come ineluttabile quando a minare il corpo è una malattia. Se invece la sofferenza è inflitta da altri esseri umani la si condanna come una contraddizione di termini, malamente giustificata da quella legge della sopravvivenza che governa il genere animale. La sofferenza del corpo è infine inaccettabile quando inflitta da chi è preposto a tutelare i suoi simili, e costituisce il più vigliacco degli inganni. Per queste ragioni il corpo di un ragazzo di trentatré anni, morto duemila anni fa per le sevizie delle sue guardie, è diventato simbolo di pietas per i secoli a venire. Fra i colpevoli di quel massacro fu annoverato chi se ne lavò le mani, così come non c’è stato perdono per chi sessant’anni fa si è giustificato sostenendo di avere eseguito degli ordini.

Di quel patimento di membra l’arte ha poi descritto i dettagli più inquietanti, mentre la letteratura e la filosofia hanno scavato il profondo del male dell’anima. Un’attenzione capace di elaborare un lutto collettivo, un monito volto a bandire la sofferenza dalla storia del mondo. Ma i simboli spesso sopravvivono alle loro intenzioni e succede adesso che quel corpo piagato venga brandito come un vessillo, da chi emana leggi che contravvengono gli insegnamenti di rispetto umano che esso voleva significare, da chi respinge chi cerca una vita migliore, non perdona chi ha sbagliato, non aiuta chi si è perso, non consente la pietosa composizione di un corpo morto da tempo. Lo vorrei dappertutto quel simbolo, se servisse a fermare guerre e ingiustizie; vedo invece che tanta sovraesposizione provoca uno svuotamento di significato e inutili divisioni. Sarebbe meglio recuperare i principi etici che stanno alla sua base e difenderli in modi diversi. Succede così che in un mondo che sembra alla rovescia, il corpo martoriato di un ragazzo di oggigiorno, umiliato nel fisico da chi doveva tutelarlo, abbandonato da medici e infermieri che si sono girati dall’altra parte, emblema di sofferenza e di sopruso, riesca a risvegliare quel senso di pietas che una società senza bussola sembrava avere perduto. Ci riporta quel corpo ai sentimenti primordiali di difesa di noi stessi, della nostra integrità, ci avvisa che nel corso della storia rischiamo continuamente di perdere ciò che abbiamo appena conquistato, in un andamento ciclico che ripropone mostri antichi ingenuamente ritenuti sconfitti e dove i vigliacchi giocano il ruolo di sodali. Ancora una volta siamo chiamati a ricominciare daccapo, da principi semplici che mai devono essere dati per scontati: il rispetto, l’eguaglianza, la fratellanza, l’accoglienza, il pentimento, il perdono, la conoscenza, la curiosità intellettuale.
Chi scrive si ritiene laica,

Maria Adele Cipolla,

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