Mara

Punta Ferla: Sabato 29 giugno 2002

Con la sua scassata “Due Cavalli” carica di vasi di germogli di soia, lattughine, pomodorini e vari prodotti dell’orto, tentava ancora una volta (non c’era mai riuscita) di aggredire quella curva in salita evitando che la macchina si fermasse. Arrancava, quel cimelio degli anni ‘70 ereditato dal fratello, lamentandosi come un mulo che si rifiuta di inerpicarsi per le montagne, e ragliando e lamentandosi ancora una volta si fermò in mezzo alla curva, affondando una ruota fra quelle due pietre che da secoli delimitavano un fosso. Riaccese il motore ingranando la prima e il mulo riprese la salita slittando la ruota fra le due pietre, nitrendo fumo di frizione bruciata, e annunciandosi al cancello nero che si scorgeva in lontananza. Questi era chiuso con una catena attorcigliata agli estremi dei due battenti. Mara, arrivata lì davanti, scese dall’automobile fiera del fatto che quell’anno, per la prima volta, avrebbe sorpreso tutti riuscendo ad arrivare fornita di un mazzo di chiavi, riesumate dall’anno precedente. Tentò di aprire, ma il catenaccio era assolutamente incompatibile con la chiave che si era portata dietro. Ecco una delle classiche cose che succedevano in quella famiglia: si cambiava un lucchetto senza avvertirla!

Al di là del cancello, oltre la trazzera giungevano echi di presenze intente a affrontare la seconda fase di un trasloco, cioè espellere da bagagliai stracarichi: valigie, ceste, casse piene di cibo, sporte di libri, piccoli elettrodomestici. Mara cercò di chiamare qualcuno che le potesse aprire ma nel momento stesso in cui le uscì la voce di bocca, un’orda di cani dalla villetta vicina iniziò ad abbaiare. Mara si rintanò dentro l’abitacolo atterrita, benché i cani stessero dall’altra parte di un recinto. Si affidò allora al clacson dell’automobile che fra i latrati dei cani risuonò violento. Accorse Alberto estremamente infastidito, nel tradizionale abbigliamento che, immutato nel tempo, annunciava l’inizio della stagione, cioè braghe corte e sdrucite, una Lacoste lisa nel collo con coccodrillo cascante, delle espradrillas con baffi sfilacciati in punta, calzati come pianelle:

– “Ma che succede? Ah sei tu Mara, ma perché hai preso da qui, tutti da anni prendiamo dall’altro lato, dove c’è il cancello col telecomando.” –

Mara non sopportava di aver ricordato qualsiasi modernizzazione di quel luogo, così rispose pungente:

– “Io ho sempre preferito la strada vecchia” –

Alberto guardò stupito dentro l’abitacolo della due cavalli:

– “Ma perché stai chiusa in macchina?” –

– “Ci sono i cani” –

Rispose lei innervosita da quell’ovvietà.

– “Ma i cani sono al di là di un recinto – cercò di spiegare lui in tono incoraggiante – non c’è pericolo! Comunque aspetta che vado a prendere le chiavi, devono essere appese vicino alla porta di casa di Elda perché credo che Pietro le abbia fatte rifare.” –

– “Infatti – disse Mara in tono di rivendicazione – quelle che avevo non aprono.” –

Alberto impiegò un tempo infinito a ritornare con le chiavi e nel frattempo Mara restava consegnata dentro l’abitacolo controllata a vista delle fiere. Quando finalmente lui ritornò con le chiavi giuste, lei riuscì ad oltrepassare il cancello e a raggiungere quel punto da sempre preferito per il posteggio della propria automobile, che però era occupato da due valigie abbandonate per terra, così arrestò leggermente prima, aspettando che suo fratello tornasse a piedi dal cancello e glielo liberasse. Nel frattempo scese a scaricare i primi bagagli e aprì la porta di quelle due stanzette che si era ritagliata nella casa di suo padre, in modo che nessuno potesse minacciare la sua autonomia. La casa era stata pulita dalla nipote di Santina consegnataria della ricetta per preservarla, mediante un’igiene meticolosa, da ospiti indesiderati quali scarafaggi e rettili. Ritornando indietro a prendere le altre cose trovò Alberto che si lamentava per la posizione della sua due cavalli:

– “La prossima volta posteggiala meglio per cortesia, perché altrimenti non si può passare.” –

– “Se non avessi trovato quelle due valigie – rispose Mara acidamente – l’avrei parcheggiata nel “mio” posto!” –

Finito di scaricare il resto dei bagagli, Mara richiuse tutti gli infissi che la riguardavano ed iniziò a scendere le scale quasi meccanicamente.

Considerava questa come una grande dote: quando la situazione diventava disagevole veniva come guidata da un istinto, intraprendeva qualcosa e poi capiva che quello era un segnale, un’indicazione. Scese le scale fino al cancello che immetteva nella strada che giungeva al Faro, ma dovette fermarsi perché neanche di quel lucchetto aveva la chiave. Doveva risalire a prenderla, ma per fortuna c’era qualcuno fra le siepi, era Ignazino, il figlio di Ninuzzo, che la chiamò con un affettuoso:

– “Ehi Marietta, come stai? Quanto tempo…” –

– “Ciao Ignazino – disse Mara rincuorata dal primo incontro piacevole di quella faticosa giornata – sì, in effetti è un sacco di tempo che non ci vediamo, come mai sei qui?” –

– “Da quando mio padre si è ammalato vengo ad aiutare tuo zio Pietro per il giardino, anzi ci diamo il cambio con mio fratello perché lavorando in fabbrica non abbiamo tanto tempo.” –

Mara lo guardava accorgendosi come anche per lui fossero passati gli anni:

– “Come ti va la vita?” –

– “Grazie alla Sicilfiat non ci possiamo lamentare, sai… adesso anche mio figlio maggiore lavora in fabbrica con me e mio fratello, si è sposato presto ed ha già a un bambino, il più piccolo invece ha voluto continuare a studiare e sta facendo l’università.” –

– ”Quindi già sei nonno? Ma come passa il tempo!” –

– “Tu invece sembri sempre la stessa, fai sempre la pittrice?”

– “Beh sì, diciamo di sì… ” –

Ignazino continuò a chiederle di lei che non era sposata, né aveva dei figli, tornò allora sul suo lavoro, col tono di chi non capiva ma si adeguava, astenendosi dai commenti. Mara stranamente non era infastidita da tale intrusione perché Ignazino faceva parte del nucleo storico di quel posto, della sua infanzia, quella più antica…

… I primi anni, quando le case dei Santelia erano le uniche di quel golfo, quella era tutta una zona da pascolo, senza neanche la luce elettrica. Loro, che erano bambini, la sera si coricavano al tramonto e la mattina si svegliavano all’alba, verso le sei, e trovavano già Ninuzzo che era arrivato dal paese con la sua bicicletta Bianchi, una di quelle nere col manubrio da passeggio e i freni a bacchetta. Spesso portava Ignazino in canna, e con lui si passava subito ad una serie di giochi da maschi di cui lei in realtà aveva ribrezzo, ma ai quali si doveva adeguare, essendo in quei primi anni l’unica femmina: giochi di caccia in cui le vittime erano lucertole che poi selvaggiamente venivano sezionate e scientificamente analizzate, battaglie con le canne…

Quell’isolamento per loro bambini era affascinante perché segnava una completa simbiosi con la natura: non c’era luce elettrica, e quindi niente televisione. La sera ci si faceva luce con i lampioni a petrolio e addirittura a casa di Elda e Pietro c’era il famoso Petromax, che aveva un rito di accensione molto ameno mediante una specie di calzino imbevuto. Per le donne di casa quest’eremitaggio poteva costituire un elemento di apprensione ma Ninuzzo per non lasciarle sole, non tornava in paese fino a quando rientrava Pietro dalla città. E in queste attese serali, dal momento che il suo lavoro era finito, si metteva a raccontare un sacco di storie ai bambini che restavano con lui distesi sul terrazzo davanti casa, con la testa in su guardando le stelle, perché il narratore si infervorava in tante leggende popolari nelle quali anche gli astri avevano il proprio ruolo. Mara non aveva esattamente presente nella memoria come fossero queste storie, le riaffiorava soltanto in mente il fascino emanato da quella saggezza contadina.

Si ricordava di una volta che erano appena arrivati dalla città, ancora con tutti i bagagli da scaricare dalla macchina, e le donne già al lavoro per sistemare le due case. Ignazino, appena smontato dalla canna della bicicletta di Ninuzzo chiese:

– “Siete trasferiti?” –

– “Sì, ci siamo trasferiti!” –

Era il traguardo di tutto l’inverno! Trasferirsi ed iniziare l’avventura dell’estate, senza compiti da fare, senza confini, senza molte delimitazioni, con vestiti essenziali, quasi mai scarpe, con la sensazione di dominare lo spazio ed il tempo.

Scendere al mare era un’avventura impegnativa perché allora non c’erano tutte queste scale costruite in seguito, era un’escursione fra rocce lisce e scoscese, l’unica cosa che già allora esisteva era la strada del Faro, ecco dove voleva andare!

Il Faro sembrava essere lì da sempre, si diceva secondo una leggenda, da quando dei marinai in pericolo in mare durante una tempesta avevano visto una luce su Punta Ferla. Questi era un cocuzzolo come un piccolo pan di zucchero, distanziato da una sella (quella dove vi erano le loro case ormai coperte dal verde) dalla punta estrema del Golfo. I marinai vedendo la luce si salvarono e fu costruito il Faro.

In realtà il Faro (come tutti i fari) fu costruito da una capitaneria di porto, mentre i marinai che facevano parte della comunità del vicino paese di pescatori, elessero come patrona del paese la “Madonna della Luce”, perché si disse, lei aveva acceso la luce per salvarli. Fu costruito da loro, quello sì, un piccolo santuario da allora meta di pellegrinaggio annuale, ogni seconda domenica di ottobre. In quei primi anni una delle avventure più eccitanti era andare a trovare la famiglia dei guardiani del Faro… avendo finalmente chiaro quale fosse la meta di quel pomeriggio disse ad Ignazino:

– “Volevo andare al Faro.” –

– “Da sola vai? Stai attenta! E’ mal frequentato.” – Un vecchio compagno di giochi riesce in ogni modo a capire l’animo di chi ha bisogno di restare in solitudine, probabilmente. Di certo non la ostacolò:

– “Hai la chiave?” –

Le chiese in tono paterno.

– “No – rispose lei sprovveduta– l’ho dimenticata.” –

– “Ti apro io – disse Ignazino, prendendo dalla tasca il proprio mazzo di chiavi – ma poi devo andare via perché ho finito di lavorare adesso. Ti lascio comunque il catenaccio finto-chiuso e poi lo chiudi tu.” –

– ” Va bene – disse Mara impaziente – grazie.” –

Adesso era libera di andare, senza vincoli o raccomandazioni. La strada in realtà era più che altro frequentata da qualche isolata coppietta che approfittava dello stato di abbandono del vecchio Faro per imboscarsi, ma purtroppo anche da qualche guardone attirato dalle stesse o da incaute bagnanti isolate. Evidentemente era questo il pericolo paventato da Ignazino, ma lei si incamminò verso la sua meta incurante di questa prospettiva. Dopo qualche passo, svoltato il primo costone, la strada immetteva in un’altra atmosfera e tutto in quel paesaggio rimandava indietro nel tempo: quella stradina stretta e tortuosa, la natura selvaggia, esempio ormai raro di “macchia mediterranea” formata da palmette nane, pitosfori, capperi e appunto, ferle. Più si andava verso il Faro e più si abbandonava la civiltà, come ai tempi dei primi anni, quando le sembrava che il microcosmo dei guardiani del Faro costituisse un’alternativa alla civiltà cittadina…

… era una piccola comunità autosufficiente composta dai membri delle famiglie dei due fratelli che si avvicendavano sei mesi l’anno. Già ai primi degli anni sessanta, quando Mara poteva averne ricordo, l’avvicendamento avveniva in macchina: una piccola giardinetta. In tempi precedenti invece si percorreva la stradina col carretto, del resto solo un carretto quella stradina era capace di contenere. Anche adesso il pericolo di arrivare fino a lì con una automobile era di incrociarne un’altra, a quel punto una delle due avrebbe dovuto fare retromarcia fino al punto in cui prima c’era un cancello. Il cancello, ubicato subito dopo la spiaggetta che si trovava al punto in cui la strada arrivava al livello del mare, era controllato dalla capitaneria di porto e stava chiuso a chiave. Da quel punto in poi, la strada era appunto riservata soltanto ai guardiani del Faro, per i loro approvvigionamenti. Poi la corsa verso il mare aveva impedito questo divieto e il cancello era stato più volte violato, fino a quando ci si era arresi a lasciarlo aperto. Del resto poi, negli anni settanta, il Faro era stato automatizzato, e non c’era più stato bisogno di ospitare un guardiano, e come per tanti Fari sparsi per il mondo era iniziato il degrado.

Mara si ricordava bene del periodo in cui c’erano ancora i guardiani, perché si andava lì con Pietro, che inseriva la tradizionale visita di “inizio stagione” fra gli adempimenti necessari per mantenere buoni rapporti umani; mentre in realtà, da vecchio appassionato del mare e della navigazione, aspettava con trepidazione il momento in cui gli sarebbero state mostrate tutte le strumentazioni per il funzionamento del grosso bruciatore ad acetilene. Venivano accolti come ospiti di riguardo, considerato anche che, nel loro forzato isolamento, i guardiani non vedevano mai nessuno.

Girato l’ultimo costone della strada a strapiombo sul mare, si vedeva in discesa, attraverso il secondo cancello, il cortile del Faro che alla piccola Mara era sembrato una piazza d’armi. Il ricordo più nitido che aveva di quelle visite era la pulizia del tutto, stridente adesso con l’attuale stato di abbandono. Un po’ sotto il cancello, a destra, in declivio verso il mare, c’era il pollaio. Entrando invece nel cortile, c’era a sinistra il forno, dove si panificava una volta la settimana e la cucina, entrambi a legna: stavano in un corpo staccato dal resto del fabbricato, con accanto una stanza per la dispensa. Entrando nel cortile a destra invece, c’era una stanza di avvistamento con una grande finestra sul mare: un mare azzurro era incorniciato! Non aveva mai visto una cosa tanto spettacolare!

Al centro del cortile c’era un pozzo, di quelli tipici col secchiello legato alla corda. Per riempirlo arrivava periodicamente una nave della Marina Militare Italiana, che si fermava al largo della Punta ed eseguiva l’operazione mediante un grosso bocchettone volante. Non c’era un collegamento d’acqua via terra anche se in quel periodo l’acqua del Comune nella zona non scarseggiasse, come se portare l’acqua in quel modo costasse meno! Forse faceva parte della filosofia di autosufficienza militare di allora… il pavimento del cortile aveva comunque la pendenza verso il centro per raccogliere l’acqua piovana ed economizzare su quella risorsa. Poi c’era il corpo centrale con l’abitazione per la famiglia e, inglobata, la Torre del Faro. Dopo una frettolosa visita alla casa, mentre loro bambini scorrazzavano nel cortile con i figli dei guardiani, il clou della visita consisteva nell’assistere alla cerimonia dell’accensione del Faro, al tramonto. Si saliva su per la scala della torre e si accedeva alla stanza delle manovre o camera di guardia, ai bambini fu permesso assistere una sola volta a turno e il ricordo più suggestivo era la meraviglia di tutte quelle maniglie di ottone brillantissime, tenute come gli argenti di una famiglia aristocratica… e poi tutte le lenti rifrangenti… e il meccanismo ad orologeria che faceva ruotare la lanterna… il guardiano, che teneva sempre in mano una pezzuola, non faceva che lucidare ogni manopola o chiavistello ogni volta che ne veniva in contatto.

Il procedimento di accensione delle lampade al gas di acetilene era loro già conosciuto, perché avveniva anche nelle imbarcazioni che praticavano la pesca notturna: con quelle grosse lampare il cui funzionamento creava insieme ai versi di civette e barbagianni, il sottofondo acustico delle loro notti.

Quello che comunque colpiva nel guardiano era l’amore che trasmetteva alle sue macchine, quasi fossero mucche da accarezzare per rendere più felice la mungitura; e poi la consapevolezza della responsabilità del proprio compito perché, come un capostazione, anche lui aveva in carico la vita di centinaia di persone ogni giorno.

I guardiani dovevano tuttavia sentirsi portati a questo genere di vita che, notava ancora con una certa invidia, conservava in sé un alone romantico. Ma c’era un altro aspetto che affascinava particolarmente Mara, veniva dalla caratteristica di quella costruzione solitaria ed eremitica, selvaggia ed affascinante nello stesso tempo, capace di favorire il raccoglimento e la meditazione, un luogo aggrappato ad un lembo di roccia fra cielo e mare, che consentiva la possibilità di alienarsi, di perdersi nella culla del silenzio …

…quella strada verso il Faro era stretta, solcata come un graffito fra lo strapiombo che precipitava a mare e l’inerpicarsi verso la sommità della Punta. Quel monte! Un giorno si era organizzata una gita per arrivarvi in cima e lei, che era bambina, aveva partecipato agli eccitanti preparativi. Ma la mattina seguente nessuno l’aveva svegliata, dissero poi che l’avevano considerata troppo piccola per una salita tanto impegnativa. Ne era rimasta profondamente offesa, anche perché sarebbe stata una delle poche volte che avrebbe potuto partecipare ad una avventura con suo padre. Alberto, che essendo più grande era stato ammesso all’escursione, tornò trionfante con un elmetto sulla testa, raccontando che avevano trovato lì una postazione militare, probabilmente dell’ultima guerra.

In quella stradina c’era ancora quel passaggio che la inquietava tanto, una sorta di piccolo ponte che collegava le due sponde di un grotta a cielo aperto, con un parapetto talmente sottodimensionato da farle venire le vertigini. Quelle vertigini che invece non le vennero mai quando andavano tutti di nascosto all'”Archetto Naturale”. Era un singolare esempio di erosione della roccia che stava esattamente all’altro versante della Punta. Adesso era diventato inaccessibile, perché si sarebbe dovuto passare attraverso alcune villette costruite con furia verso gli anni settanta. Da bambini, in quella totale anarchia di spazio e tempo, facevano delle imprese a dir poco spericolate, perfino facevano a gara per chi resistesse più a lungo sopra quell’archetto, a pensarci adesso le venivano i brividi!

Giunta quasi fino al Faro, superato l’ultimo costone, ebbe quella visione che le montò sul petto, e dentro il cuore, inumidendole gli occhi: un’onda d’emozione indicibile. Si trovava nel punto più alto della stradina con davanti a sé, in discesa, il Faro col suo cortile e i suoi edifici intorno così come lei li ricordava, incorniciati nel blu del mare che faceva da sfondo tutt’intorno. Per fortuna da quella provvidenziale distanza le era possibile ignorare l’attuale stato di degrado e lordura cui era ridotto quel posto. Da lontano poteva ancora ammirare quegli essenziali elementi architettonici: torre del Faro, casetta, pozzo, cucina, dispensa, casotto di avvistamento, come pezzi di una costruzione di legno dipinto, posati in buon ordine da un bambino.

Sulla destra, giù nel mare, come appena scagliati da Polifemo, c’erano due Faraglioni: uno grande a forma di scarpone ed uno più piccolo. In prossimità di questi, resisteva ancora la vecchia discesa verso il mare, costruita per permettere ai guardiani di prendere qualche bagno; a differenza di quella costruita in tempi meno remoti da Pietro e “Ninuzzo”, quella ancora era intatta. C’era invero in quel momento qualcuno che prendeva il sole, adesso si era alzato per cercare un punto propizio da cui tuffarsi, Mara posava pigramente gli occhi su di lui, da una tale distanza che non vi era pericolo d’essere scorta.

Sapeva benissimo che la visita dentro il complesso del Faro serbava soltanto spiacevoli e deludenti sorprese. Meglio riportare a casa l’immagine appena colta, plagiata dalla patinatura della nostalgia.

Tornò indietro, questa volta con il mare tutto davanti a sé. Man mano che avanzava, doppiando i vari costoni dello strapiombo, iniziava a dominare tutto il Golfo da una angolatura massima, fino a scorgere quello successivo.

Si affacciò al parapetto, quello per fortuna era stato restaurato di recente e quindi portato ad un’altezza accettabile, sotto di sé aveva lo strapiombo e quello era il punto, chiamato da loro quando erano ragazzi, con scarsa fantasia: “Acapulco”. Ogni anno dei temerari, fra cui naturalmente Francesco, scavalcando il parapetto, si tuffavano da lì a volo d’Angelo: era un’altezza di circa venti metri. Ed ogni anno, nel momento in cui si tuffava Francesco, Mara veniva assalita dal terrore e si girava verso la montagna coprendosi il volto per non guardare. Soltanto quando qualcuno la rassicurava che lui fosse riemerso sano e salvo, allora si affacciava a scrutare giù per accertarsene, tormentata dalle vertigini. Era sempre stata terrorizzata dall’idea di perdere Francesco, almeno da quando era morta sua madre. Erano cresciuti insieme perché erano quasi coetanei, stessa scuola, quasi stessa abitazione, divisa da un pianerottolo su cui si affacciavano, quasi sempre aperte, le rispettive porte di casa.

Si ricordava di un pomeriggio in cui era rientrata e aveva trovato sua madre, vestita, seduta in salotto con Elda. Quest’ultima le aveva gettato trionfante:

– “Hai visto che la mamma si è alzata?” –

Fu l’ultima volta.

Da quel momento Mara staccò la spina e si incamminò insieme a Francesco nell’adolescenza, appoggiandosi a lui per cavarsela a scuola e nelle relazioni sociali. I tempi del liceo erano passati fra varie avventure amorose dell’uno e dell’altra che non avevano assolutamente compromesso il loro legame. Francesco rappresentava il suo punto di riferimento perché, pur sedotto da tutto quello che offriva ai giovani il panorama di quegli anni, riusciva a mantenere una dose di distacco tale da potersi sottrarre quando avvertiva l’approssimarsi di qualche pericolo. Lei invece tendeva a buttarsi anima e corpo, alla ricerca di tutto quello che potesse darle evasione…

Dopo, quando lui aveva deciso di frequentare l’università a Roma lei, sentendosi tradita, aveva seguito il suo desiderio di andare a studiare all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Se per un verso aveva iniziato a sentirsi libera da vincoli e controlli, dall’altro aveva constatato la privazione di quel filtro fra lei e il mondo esterno. Mara aveva accolto l’erba così come avevano fatto tanti, un fatto nuovo, qualcosa che la potesse tirare su, farle passare quel senso di vuoto. Ma gli spinelli erano diventati un’abitudine, poi una ragione di vita… aveva anche voluto provare altro, e poi aveva iniziato a spararsi qualsiasi cosa le desse sollievo… ma poi l’effetto passava.

E poi sempre Francesco che le faceva le paternali e lei lo supplicava di non dire niente a nessuno, certe volte lo odiava… perché lui riusciva a farcela e lei no… alla fine non si ricordava bene quanti anni era rimasta in quella situazione, ma poi con quel medico che lui le aveva consigliato, era riuscita a riprendere i fili di una vita normale… apparentemente normale…

Anni dopo, morendo improvvisamente Francesco, si era sentita precipitare un’altra volta… era lei che meritava di morire… alla fine faticosamente aveva tentato di tornare a galleggiare nella vita e non sprofondare oltre… imponendo a se stessa tutta una serie di dettami da seguire… doveva farcela da sola, tracciare una linea dritta davanti a sé, e cercare di seguirla senza più scantonare: trovare la sua strada, dipingere, scolpire, fare quello che sua madre non aveva portato a termine. Ma ora erano passati un’enorme quantità di anni, era ancora in tempo?

Facendosi trascinare senza molto trasporto, aveva avuto tante storie, ma l’intimità vera, il riuscire a raggiungere una confidenza che le permettesse di fidarsi del prossimo, questo no. Nessuna delle persone che inizialmente la desiderava tanto, aveva poi mostrato di voler veramente impiegare del tempo per cercare di capirla. Non si faceva più illusioni, meglio decidere di restare da sola, condurre una vita mediando con le proprie paure, le manie, le fobie. Ultimamente qualcuno le aveva suggerito di prendersi un cane o un gatto, ma non le andava, soprattutto per la dotazione di parassiti e sporcizie varie che questi avrebbero portato seco.

Del resto neanche si rammaricava dell’assenza di figli. Le sue giornate erano scandite dalla cura delle piante e del suo piccolo orto, perché era rimasta terrorizzata dall’idea di ingerire ancora qualcosa: sostanze chimiche, medicine, che per un periodo aveva assunto in grande quantità, altra roba che avrebbe potuto far male al suo organismo. Era giunta a compiacersi del controllo che riusciva ad avere sul proprio corpo, della sua capacità di rinuncia alle seduzioni del cibo, e in quest’organizzazione conventuale che era diventata la sua vita, non c’era posto per nessun altro.

Si rallegrava anche in quel pomeriggio di riuscire ad affacciarsi da quel parapetto senza provare un senso di smarrimento. Anche la sua agorafobia, che era una delle cose che la terrorizzava maggiormente, in quel momento non l’aveva assalita, malgrado si trovasse di fronte ad un mare immenso. Ma quello era il suo mare… che pur nell’enorme vastità non le trasmetteva quel panico fatto di sudori freddi e tremori. Rammentava di quando in Toscana guardava quelle enormi distese di colline e campagne sentendo un senso di disorientamento, allora immaginava che le valli fossero allagate dal mare e subito si sentiva rassicurata, perché il mare era l’unica cosa fra le entità estese che le desse conforto.

Forse era proprio nel suo mare che era voluta tornare… perdendosi nella calma placida di quella distesa, si ricordava del suo professore di liceo: dopo una vita sana e serena riempita dal nuoto, dalla natura, dal suono del suo violino, dalla poesia, dal fascino della metrica greca, dall’affetto e dall’amore generosamente dispensato alla famiglia e alla scuola; quando aveva capito che la morte stava per sopraggiungerlo aveva voluto stabilire lui come arrivarci, si era voluto ricongiungere al suo mare, perché voleva che fosse lui a portarlo da lei. L’aveva cercato dopo giorni e giorni di lunghissime nuotate, parlando con lui e invocandolo così come aveva fatto il suo eroe Ulisse. E il mare finalmente aveva accolto il suo richiamo, l’aveva preso fra le sue braccia e aveva accettato di accompagnarlo, rendendogli quel viaggio meno gravoso.

Il mare talvolta temuto, ma tanto amato e desiderato come un abbraccio materno.

Aveva davanti a sé la seduzione del tuffo, per sempre… ma non era il momento… perché pensava che forse prima o poi sarebbe riuscita a sputare fuori da se stessa quel groppo di creazione… l’artista chiedeva un’altra possibilità… voleva tentare di girare l’angolo un’altra volta, non quello della stradina del Faro ma della sua esistenza, e vedere cosa ancora le poteva offrire la vita.

Non si rese conto di avere vagato fra questi flussi di coscienza tornando a guardare in direzione di quel ragazzo che si tuffava fra gli scogli, sicuramente molto meno temerario di Francesco, e neanche del fatto che di tanto in tanto questi si era assicurato che lei ancora stesse guardando verso di lui. Soltanto improvvisamente risvegliata da quei pensieri, si accorse di aver involontariamente, anche se da una notevole distanza, incrociato quello sguardo. Si sentì colta con le mani nel sacco, vergognandosi non poco. Così si girò di scatto, proseguendo nella direzione del ritorno, fino a raggiungere la curva successiva.

Era l’inizio della stagione, i pomeriggi erano già lunghi e in quello c’era ancora chi si attardava a mare… arrivavano delle voci da quello che avevano sempre chiamato l’Isolotto, ed erano tre ragazzini che sembrano divertirsi moltissimo forse con un piccolo canotto. Anzi era una tavoletta che sembrava grande come quelle da surf, si ricordava di averne già viste di questo tipo ultimamente, in giro fra le bancarelle grondanti canotti e sedie a sdraio, erano fatte di polistirolo rivestito da una guaina, con disegni di delfini o altre banali decorazioni marittime. I ragazzini ridevano e schiamazzavano in modo contagioso e anche lei si girò a guardarli ripensando a quante volte aveva fatto quel gioco: cercare di salire in tanti e poi cascare tutti insieme in un crescendo di risate, con acqua ingoiata mentre a bocca aperta non si riusciva a smettere di ridere, e poi metabolizzata da un gargarismo che sputava fuori bollicine frizzanti in un sottofondo acustico simile agli starnazzi da cortile.

Una volta con Alberto, Francesco e Ruggero avevano fatto un gioco simile con la vecchia “Alpha Tris”, che era una barchetta a vela in resina: farla scuffiare e poi salire sullo scivoloso scafo rovesciato come se fosse un’isola in mezzo al mare, afferrare la chiglia e rimettere in piedi tutta la barca, con la vela che sbucava dall’acqua come fosse la coda di una balena. In una di queste operazioni, più volte ripetuta in un crescendo di risa, Mara era rimasta sotto lo scafo e non riusciva più a riemergere. Si era alquanto spaventata ma non aveva voluto interrompere quel momento di sivo, come si dice in gergo siciliano. Lo stesso stato di ilarità contagiosa di cui erano preda quei tre, anzi erano tre ragazzine… ed erano proprio Stefania, Eugenia e Lucia… come avrebbe voluto essere al loro posto!…

Quanti anni erano passati da che non riusciva a ridere così? Cosa le era successo nella vita per perdere quella leggerezza? Certe volte, nelle sue notti di incubi a Firenze, in quei primi anni di smarrimento, si svegliava in preda al panico tutta sudata, e per ritornare alla normalità guardava le fotografie appese accanto al letto: ce n’era una di lei e Francesco, seduti sulla ringhiera della sua casa di Punta Ferla. Mara la guardava confrontandola allo stato in cui si era ridotta e già allora si chiedeva che cosa fosse successo da quella foto, ma da quando? Tornando indietro nel tempo soltanto la sua infanzia le appariva un momento felice e poi era arrivata la morte di sua madre.

Anche quella ragazzina lì sotto era rimasta orfana eppure sapeva ridere e divertirsi. Quando era morto Francesco lei aveva pensato a quella bambina che allora aveva tre anni, aveva pensato di starle accanto, perché lei sì che lo sapeva che cosa voleva dire restare perdere un genitore.

Ma non aveva saputo da dove cominciare, avrebbe dovuto anche avere a che fare, mediare, con gli altri, Elda, Pietro, Gabriella… ma la verità è che la morte non unisce chi resta, la morte divide… perché si rimane in pochi a contendersi i brandelli della memoria… a rivendicare le priorità di un lutto che alla fine ognuno vive a suo modo.

E quella bambina era inaccessibile… la sua unica tentazione era di raccontarle di suo padre e tutti temevano che potesse spaventarla. La natura impedendole di generare aveva difeso sé stessa, così aveva sempre compreso che anche nel caso di Lucia era meglio tenersi alla larga. Anche se ogni volta che la guardava aveva l’impulso di abbracciarla, e sentiva che pure lei istintivamente le andava incontro, come se ci fosse qualcosa di ancestrale… forse sarebbe arrivato il tempo in cui si sarebbero cercate e lei avrebbe potuto raccontare tante cose di Francesco, farle capire quanto lei somigliasse a suo padre. Anche adesso che la guardava, se non fosse stato per i capelli lunghi, le sarebbe sembrato lui a quella stessa età, che nuotava come un pesce con l’argento vivo addosso. Era struggente questa somiglianza e tante altre piccole coincidenze: come poteva Lucia riconoscere in quei luoghi le stesse cose che aveva fatto soltanto suo padre? Suo padre che era morto quando lei aveva solo tre anni, e non aveva avuto il tempo di raccontarle qual era il suo modo di tuffarsi, di nuotare, come si sedeva lui su un parapetto, come si arrampicava da bambino su di un albero… forse un giorno sarebbe stata Lucia a chiederle di lui… bisognava aspettare quel giorno.

Le ragazze stavano salendo la scaletta che portava su fino alla stradina, proseguendo con il loro lessico di complice ilarità, Lucia aveva la tavoletta sotto il braccio, l’asciugamano bagnato attorno al collo, i capelli che ancora colavano acqua di mare. Tutte e tre avevano un sacco di cose da raccontarsi perché erano in quel magico momento dell’inizio della stagione in cui trionfanti avrebbero potuto dire:

– “Ci siamo trasferiti.” –

Nell’attraversare la stradina per poi immettersi nella scaletta, che portava alle case più su, le ragazze scorsero Mara, diafana e spettrale come un fantasma, che le osservava trasognata. Istintivamente queste ebbero un arresto difensivo, il sivo passò di colpo e, fattesi improvvisamente serie, la salutarono educatamente.

Mara provò una fitta al cuore: non c’era mai verso di entrare in contatto con il prossimo. Ma Lucia istintivamente si staccò dal gruppo e le andò incontro su per la salita lievemente ripida. Mara così si illuminò e fece un gran sorriso, allora anche le altre due presero coraggio e le andarono incontro.

Sembrava che Mara avesse volutamente conservato, nel falsetto stridulo della sua voce, nei colori chiari del suo vestire, nella gracilità del suo fisico, nell’innocenza del suo sguardo, un carattere bamboleggiante, che strideva inevitabilmente con la reale età anagrafica: un po’ faceva tenerezza ma anche paura.

Le sue nipoti non avevano mai creduto che quell’aspetto forzatamente infantile, potesse agevolare una qualche familiarità con delle ragazzine della loro età, ma quel pomeriggio compresero che c’erano forse dei presupposti per iniziare una conversazione. Mara, sciogliendosi, chiese loro del gioco che stavano facendo all’isolotto con la tavoletta, e dopo un po’ di convenevoli riuscì a trasformare i ricordi appena ritornati alla mente, in un racconto dei suoi divertimenti alla stessa età. Nel frattempo giunse dalla direzione del Faro quel ragazzo che Mara aveva visto tuffarsi nella piazzola vicino ai Faraglioni, camminava spedito e rinfrancato dal mare con la tovaglia di spugna attorno ai fianchi. Un’aria di giovanile impertinenza che probabilmente traeva origine dai suoi pensieri concentrati su qualcosa, incrociando Lucia la salutò affettuosamente, al che lei rispose:

– “Ciao Luigi da dove vieni?”

– “Sono andato a farmi un bagno vicino al Faro, c’è qualcuno da Giorgio?”

– “Credo che siano andati tutti a fare una partita a pallavolo.”

– “Allora vado a farmi una doccia e li raggiungo, ciao ci vediamo dopo”.

Luigi salutò cordialmente anche Mara, Eugenia e Stefania, presentandosi loro, e proseguì lasciando la scia di una qualche emozione, tanto che fu difficile riprendere il discorso da dove era stato lasciato. Forse le ragazze non avevano mai visto, prima di allora, Mara tanto affabile, si sentirono rincuorate e leggermente in colpa per essersi precedentemente spaventate nel vederla. In una provvidenziale convergenza di componenti favorevoli, quel pomeriggio, le tre ragazze e la strana zia, riuscirono a dirsi alcune cose, così da consentire a Mara di riposizionarsi in assetto estivo; affrontando le incognite dell’insediamento in quell’alloggio, col cuore confortato.

Mentre sistemava i bagagli che aveva portato dalla città nelle due stanzette, mentre allineava ordinatamente nel fazzoletto di terra davanti alla porta, le piante indispensabili per la sua dieta, sentiva dalla finestra echi di voci stridule e allegre. Uscivano fuori dagli spruzzi d’acqua di una doccia, sotto la quale si alternavano spingendosi e ridendo le ragazze, nel tentativo di levarsi la salsedine del mare di dosso. Era un sottofondo che la rassicurava: il mondo non era popolato soltanto da nemici.

Trasferì, dal bagagliaio della sua automobile, il cavalletto e la valigetta dei colori: ogni anno quelle merci andavano avanti e indietro dalla villeggiatura senza mai essere disimballate. Come fare quest’anno per invertire tale tendenza? Cosa bisognava cambiare, nel suo ordine mentale, per riuscire ad aprire quella valigetta, allungare le gambe del cavalletto, metterci dentro una tela? Tanto valeva farlo subito. Le piante le avrebbe sistemate l’indomani. Riuscì a montare il cavalletto, aprì la valigetta di legno e notò che mancava l’olio di lino, non si perse d’animo e prese dalla cucina una vecchia bottiglia d’olio d’oliva dell’anno passato. Iniziò a spremere dei tubetti di colore in un piatto, perché non voleva neanche soffermarsi a ricordare dov’era finita la tavolozza.

Era un corpo che lei vedeva dentro la tela, un corpo di una donna, una donna segnata dalla vita, con delle eccedenze di carne qua e là, con una posa arrendevole. Impastava i colori fra di loro e ne usciva un incarnato giallastro pieno di contrasti, di sfumature: per ottenere quei seni, carezzare col pennello quelle cosce crescenti, quel ventre di donna. La tela era riempita di colore e questo scorreva incuneandosi nelle espressioni di quel corpo, creando dei sentieri di magma che si distendevano e disponevano secondo un’organizzazione che lei ancora non comprendeva, cosa doveva venirne fuori? Cos’era quella figura?

…corpi distesi come dei paesaggi, una terra fertile: ocra, terra di Siena, ocra, bianco di titanio, ocra, arancio, giallo, una punta di rosso, cosa nasceva da quel magma? …come da un sogno! Quante volte nei suoi sogni erano stati suggeriti degli accoppiamenti di colori, e lei avrebbe voluto svegliarsi all’improvviso, prendere un pennello per distenderli sulla tela così come li aveva in testa. Adesso erano tutti come memorizzati in un file salvato precedentemente, e uscivano fuori copiosi e inarrestabili, ma quante tele aveva portato da casa? Non bastavano, non c’erano più superfici…

…il primo quadro non era neanche finito e già aveva una traccia per quello che avrebbe voluto fare dopo. Aveva portato anche della creta? Plasmarli quei corpi o segnarli a rilievo col colore sulla tela? Si era fatto buio, quanto tempo era passato?

Non aveva neanche cenato…

…uno yogurt, dei cereali… c’era ancora posata per terra, in cucina, la sporta con le cibarie. Non aveva neanche messo in frigo le cose urgenti, ma che bello consumare un meritato pasto, dopo avere prodotto qualcosa! Non le importava molto di esaminare quel quadro, perché probabilmente non le sarebbe piaciuto, ma non aveva importanza, le era piaciuto dipingere. Questo era quello che contava e poteva finalmente addormentarsi, tranquillizzata dalla prospettiva che si sarebbe svegliata con qualcosa che l’attendeva.

Punta Ferla Sabato 13 Luglio 2002

– “Posso entrare?” –

– “Si, chi è?” –

Da quella sera Mara era andata avanti con le sue tele in modo sostenuto ed era sempre li, stavolta a dipingere il Faro: l’aveva ripreso da varie angolazioni; poi i faraglioni, il mare, le palme nane, il golfo. Come previsto, il primo quadro si era rivelato meno bello dei seguenti, ma aveva inaugurato un filone creativo che era come un fiume in piena e lei dipingeva tutto il giorno, neanche andando a prendere un bagno a mare.

– “Sono Lucia, mi ha mandato la nonna con dei limoni che hanno portato dal paese i figli di Ninuzzo, la nonna sostiene che sono buonissimi e… biologici.”

– “Grazie Lucia – fece Mara piacevolmente sorpresa, mentre continuava a lavorare di pennello – entra.” –

– “Che stai facendo? – chiese la ragazzina occhieggiando qua e là – Stai dipingendo? Posso stare a guardarti? …ecco perché non vieni mai a mare… stai sempre a dipingere… che bello! L’hai fatto tu?” –

– “Piace anche a te dipingere?” –

Chiese Mara scostando per un attimo il pennello dalla tela e rivolgendole così lo sguardo.

– “Sì ma non sono certo brava come te – rispose Lucia timidamente – e poi non so dipingere ad olio, faccio qualcosa a tempera o con i pastelli, però mi piace tantissimo”. –

Lucia osservava la disposizione degli arredi di quella stanza: le tappezzerie, i cuscini, le tende, tutto aveva colori chiari e ariosi. Alle pareti erano appesi dei disegni di fiori e uccelli dalle tinte acquose e delicate, firmati da Mara. C’erano tante cose volatili che pendevano dal soffitto, poi una specie di fontanella con acqua limpida che scorreva fra piccole rocce, creando un sottofondo rilassante che si sposava con quella musica nordica, come di arpa celtica, e candele e incensiere che emanavano un profumo rassicurante.

Mara era vestita con un camicione chiaro decorato a fiori leggeri, e anche tutto il resto era leggero e impalpabile.

Ma tutte queste cose contrastavano notevolmente con quei quadri chiaramente di recente fattura, perché ancora odoranti di trementina, e perché appoggiati per terra a caso qua e là: erano pieni di materia, di corpo, di movimento, anche i soggetti marini esprimevano un impeto e un carattere assente nel resto della stanza, e nella persona di Mara.

La stessa Lucia, nella sua innocenza giovanile, attratta da tutti quegli accessori new-age (di cui lei e le sue amiche andavano a caccia, in negozietti appositi tanto di moda), capiva il messaggio contrario della forza emanata da quei soggetti, la potenza di quel colore. Come se Mara fosse sdoppiata fra il desiderio di offrire un’immagine serena della propria persona, e il bisogno di esternare una creatività materica che prorompeva dalle sue viscere.

Nel tempo che Mara aveva impiegato per definire la spuma di alcune onde del mare, Lucia era rimasta ferma a guardarla.

– Allora – pensò Mara – non era venuta soltanto per scaricare la cesta di limoni e andare via… –

Forse era il caso di mostrarle un po’ di tecniche di accoglienza, quali Mara non sapeva, dal momento che non riceveva mai nessuno. Era estremamente emozionata dalla presenza e dalla permanenza di Lucia nella sua casa, e a questo punto voleva mostrarsi all’altezza della situazione, senza lasciare trasparire l’incontenibile voglia di esternare il suo affetto. Non era il caso di soffocarla con degli abbracci, meglio una carezza sulla testa e un grande sorriso.

Propose di andare a sedersi nel giardinetto per offrirle della frutta e del Karkadè freddo. Lucia accolse l’invito, seguendo Mara nei preparativi di quel rinfresco e approfittando per sbirciare qui e là tutte le curiosità di tanti singolari oggetti. Mara pensò che doveva sforzasi di condurre una buona conversazione, così le chiese come mai non stava partecipando alla partita di pallavolo di cui si sentivano gli echi in lontananza. Lucia le spiegò che ogni tanto si sentiva intimidita dalla presenza di alcuni amici più grandi di Eugenia e Stefania. Quando le partite si facevano con Giorgio e i suoi amici, lei si sentiva più a casa propria, ma tutti quei maschi di sedici o diciotto anni la imbarazzavano. Mara si stupì perché aveva notato quanto Lucia fosse brava nel gioco della pallavolo e poi pensava che fosse molto affiatata con le sue cugine, Lucia rispose che era effettivamente così quando erano loro tre sole, ma quanto le altre due (che erano più grandi perché andavano già al liceo mentre lei andava ancora alle medie) erano con i loro amici, allora si sentiva la più piccola del gruppo. Anche Mara si ricordava di questa sensazione, nell’adolescenza certe volte due anni di differenza segnano il confine tra l’infanzia e l’età più adulta, Lucia aveva perfettamente ragione, ma cosa c’era da fare se non aspettare che crescesse un po’ anche lei? Mara, in fondo anche questo problema l’aveva superato con Francesco, mai da sola, comunque doveva stare attenta a non parlare di Francesco, finì per cambiare discorso.

Cercando di non palesare la sua curiosità, Mara scrutava quella ragazzina: continuava a somigliare in modo evidente a suo padre, ma adesso stava crescendo, raggiungendo inconsapevolmente le anelate cugine nella corsa verso l’adolescenza. Il suo corpo, da genere neutro diventava genere femminile e non soltanto per i capelli lunghi, stava diventando grande mostrando dei lati della propria personalità assolutamente autonomi. Evidentemente Gabriella era riuscita ad impostare una vita con la figlia trasmettendole sicurezza e un bel carattere, non c’era dubbio che la crescita con la sola madre, pur nella evidenza dello svantaggio di quella condizione, era andata avanti in modo sereno, tanto che la ragazzina mostrava di essere molto posata e matura per la sua età. Continuarono a parlare dei quadri, della pittura e di quello che stava facendo Mara. Lucia mentre precedentemente camminava sbocconcellando delle piccole pere, ne aveva inavvertitamente fatto cadere un pezzettino per terra, adesso che erano sedute nelle sedie a sdraio, quel residuo commestibile era stato aggredito da un mostro che da qualche giorno popolava gli incubi di Mara, lo rosicchiava producendo anche un rumore sinistro. Mara cominciò a sudare freddo terrorizzata all’idea di mostrarsi a Lucia in una delle sue crisi di panico, perché quell’incubo doveva venire a disturbarla proprio in quel momento, mentre cercava quel contatto per lei tanto benefico? Continuavano a parlare mentre lei faticava a mantenere il controllo di sé, con le parole che le morivano in bocca, quando finalmente Lucia si voltò e alla vista del rettile e urlò:

– “Che schifo ma quello è un Tiro ( grasso lucertolone lucido e viscido con testa a punta e minuscole zampette, scientificamente chiamato gongilo ), non ti fa paura?” – Mara cercando di smaltire, in uno sciogliersi di liquidi, il calo di tensione e ostentando una apparente normalità rispose:

– “Allora lo vedi anche tu.”

– “Certo che lo vedo, mica sono cecata?”

– “Neanche a te piacciono i rettili? A me fanno morire di paura, poi questo qui sembra un concentrato di orrore preistorico, non so come possa succedere ma il fatto è che da qualche giorno si aggira nel mio giardino. Prima questi animali stavano soltanto sotto le pietre assolate della discesa verso il mare e scappavano appena ti vedevano, invece questo qui ha deciso di gironzolare attorno alla mia casa senza paura e non so come fare a cacciarlo via” – disse Mara finalmente sollevata dall’aver trovato un’alleata –

– “Dobbiamo chiamare aiuto – consigliò Lucia – non possiamo stare come due sceme ad aspettare che entri anche in casa.”

– “No per favore non chiamare nessuno – disse supplichevole Mara, confessando così di colpo tutte le proprie insicurezze – altrimenti dicono che sono troppo paurosa.”

– “Allora ce ne occupiamo noi – disse Lucia con tono di chi voleva prendere in mano la situazione – un’estate, quando facevo un campo estivo vicino Roma, ci hanno insegnato a mettere delle trappole per dei lucertoloni simili a questo, se vuoi possiamo farlo anche noi e poi lo ammazziamo, oppure lo portiamo da qualche altra parte.”

Dalla casa di Giorgio arrivavano nel frattempo alcuni dei suoi amici che, in ritardo, si affrettavano al campo di pallavolo, vedendo Lucia in conversazione con Mara si fermarono a salutare, erano Giulia, Rodolfo e Luigi. Lucia fece segno di fare silenzio, e mostrò loro il piccolo prototipo di dinosauro che ancora stava lì fermo. Luigi riuscì in un attimo ad afferrare barattolo di vetro con dei residui di fertilizzante posato accanto ai vasi di geranio e ad accoppare con questo la bestia. Riuscirono poi tutti a trovare un coperchio, da perforare perché il Tiro potesse respirare. Gli astanti erano rimasti alquanto interdetti così che Luigi fu costretto a dare una spiegazione:

– “Se non vi dispiace lo porto al laboratorio della cooperativa, stiamo cercando di ripopolare un’area sopra Cefalù.” –

Mara, ancora indaffarata col disgelo della sua crisi di panico, riuscì a recuperare un qualche contegno e ad offrire agli ultimi arrivati altro Karkadè. Per fortuna la conversazione si era avviata da sola. Giulia e Rodolfo stavano canzonando Luigi per via di quelle che loro giudicavano ossessioni animaliste, e ciò stava restituendo un po’ di dignità a Mara che adesso si sentiva in buona compagnia nell’avversione verso quel tipo di animali. Era in ogni caso assolutamente grata a Luigi per averla liberata da quell’incubo, purché si portasse via rapidamente quell’insolente creatura che si arrampicava adesso nella parete liscia del vetro, allungando la sua testa famelica. Le proposero anche di unirsi a loro per la pallavolo, e mentre lei gentilmente tentava di sottrarsi, Lucia iniziò ad insistere:

– “Dai, se giochi tu allora vado anch’io.”

– “Sarà un secolo che non gioco a pallavolo.” – rispose Mara tentennante –

Giulia a questo punto precisò:

– “Non preoccuparti, ci divertiamo a non prenderci sul serio.” –

Lucia poi per rassicurarla:

– “Tanto guarda, non riusciresti mai a giocare peggio di Alberto.” –

Gli sport di squadra erano la cosa più lontana dalla personalità di Mara, ma inspiegabilmente si lasciò convincere.

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