Il mio manifesto per una Moda Etica
Maria Adele Cipolla, costumista e designer
I dieci punti cardine:
1) Garantire un equo profitto ad ogni lavoratore coinvolto nel ciclo di produzione: disegnatore, tagliatore, sarto e altro
2) Recuperare l’aspetto socializzante e gratificante del lavoro manifatturiero
3) Conferire giusto riconoscimento al ruolo creativo della progettazione
4) Privilegiare materie prime provenienti da aree in via di sviluppo, pagandole in modo equo
5) Evitare materie prime che utilizzino processi industriali inquinanti
6) Bandire materie prime che costano la sofferenza o la soppressione di animali (es: pellicce, avorio)
7) Rifiutare un modello femminile che offende la donna o che la spinge all’anoressia
9) Includere bacini di utenza dimenticati dalla moda da passerella
10) Evitare capi economici usa e getta perché costano lo sfruttamento della manodopera e affollano le discariche dopo poco tempo dall’acquisto.
Da cosa nasce questo Manifesto:
Il tramonto del Made in Italy
La recente crisi economica mondiale ha messo a nudo le contraddizioni di interi settori di commercio già da tempo scivolati in comportamenti cinici e disumani, nel frattempo la rapida ed incontrollata diffusione del web 2.0 e la immissione sul mercato di nuovi ausili tecnologici, stanno decretando il tramonto delle tradizionali forme di comunicazione. In questo quadro si inserisce la crisi del mondo della moda e in special modo del Made in Italy.
A torto imputata alla concorrenza sleale operata dal mercato cinese, il tramonto del Made in Italy affonda le sue origini al momento in cui il termine “creativo” ha cessato di descrivere lo “stilista” e le sue maestranze per posarsi su tutta una schiera di figure nate attorno al settore della produzione quali: esperti delle pubbliche relazioni, pubblicitari, direttori e redattori delle riviste di moda. Quando infatti la moda non è stata più un atto “creativo e artistico” ed è diventata un “evento” è nata l’esigenza stornare fette sempre più considerevoli di budget al settore marketing. Tutto questo a detrimento dei compensi destinati a chi materialmente creava l’oggetto di tanta attenzione, cioè le maestranze manifatturiere quali tagliatori e sarti. L’abito ha così perso importanza a scapito di una “atmosfera”; tanto è vero che ciò che ormai resta in mente dopo una sfilata di moda sono colori, musiche, nudità, acconciature, effetti speciali, mentre a fatica si ricorda il taglio di ogni capo. Da non sottovalutare poi la tendenza a mostrare modelle sempre più magre (se non addirittura anoressiche) la cui assenza di forme armoniche e femminili rende il taglio sartoriale più semplice.
Quello che comunque mi preme sottolineare in questa sede è l’estrema scorrettezza che ha caratterizzato l’organizzazione della produzione manifatturiera negli ultimi 30 anni.
Non esiste più la tradizionale fabbrica nella quale tutto avviene in sede, come invece ci piacerebbe immaginare. Nella realtà il grosso della produzione è esternalizzato, cioè dato in subappalto al di fuori della fabbrica, ad imprese sempre più piccole. Il sistema è quello del cottimo (un tanto al capo) in cui il prezzo patteggiato dalla ditta madre è talmente basso, che l’unico modo in cui le ditte esterne possono rientrare nelle spese è quello di azzerare ogni diritto del lavoratore. Di tutto questo la griffe madre finge di non sapere nulla, l’esternalizzazione è infatti una comoda fuga dalle regole, in cui il lavoro sporco viene scaricato alle organizzazioni di caporalato, adesso gestite da clan cinesi ma in passato dalla malavita del sud d’Italia.
Altro argomento rilevante è quello del marchio, o griffe o firma, termini spesso usati come sinonimi di una primogenitura, atto di proprietà, brevetto, tanto che chi copia in tutte le sue parti la borsetta di una famosa firma rischia la galera. In realtà, all’interno di una casa di produzione, l’atto creativo di disegnare un capo o un accessorio di moda è ormai frazionato e affidato a giovani precari e malpagati. Siamo molto lontani dalla storica moda parigina dominata da intelligenze creative quali Poiret, Chanel, Schiapparelli, personaggi a proprio agio nel mondo delle arti figurative, del teatro e della letteratura, che lì attingevano spunti e che impiegavano mesi e giorni a studiare il capo perfetto.
Infine vorrei ricordare che il made in Italy, rivolgendosi preferibilmente ad un mercato giovane e fisicamente in forma, ha totalmente ignorato le potenzialità economiche di un bacino di utenza che, con l’invecchiamento della popolazione mondiale, è in progressiva crescita; mi riferisco a chi ha più di quarant’anni e vorrebbe dei capi belli e pratici, cuciti con tessuti di qualità e magari desidererebbe un piccolo aiuto nel nascondere eventuali difetti fisici.
Cosa potrebbe emergere di buono nel vuoto creato dal tramonto del Made in Italy?
Il made i Italy attraversa una crisi profonda, purtroppo salvando i patrimoni prodotti dallo sfruttamento della manodopera e lasciando sul lastrico stuoli di maestranze specializzate. Il mio pensiero va infatti a chi per decenni ha tagliato e cucito, singolo lavorante o piccolo laboratorio di subappalto, che adesso si ritrova fuori dal mondo del lavoro, con un bagaglio di esperienza e conoscenza ancora da spendere; penso anche a tanti giovani designers spremuti dalle grandi griffe e poi buttati via o ai neo diplomati in cerca di un primo impiego. Il desiderio immediato è quello di favorire l’incontro di queste persone perché stiano nel mercato. Non si tratterebbe certo di entrare in concorrenza con la tradizionale moda da passerella quanto di rivolgersi a bacini di utenza dimenticati dalla moda, un mondo di nicchia identificato nel termine “coda lunga del mercato” (long tail), coloro che al momento non trovano capi che li soddisfano e per questo spendono meno di quanto desiderano, coloro che vivono isolati o che non amano affollare i centri commerciali.
In tutto il mondo si stanno sperimentando forme di commercio dei prodotti (alimentari e altro) che riescono a by-passare tutta quella rete di intermediari che fanno salire i prezzi a scapito del produttore e del consumatore. Esempi di questo tipo sono il consumo critico, le reti di acquisto equo e solidale, i gruppi di acquisto solidale (GAS), l’esperienza di addio-pizzo in Sicilia.
Esiste infatti una fascia di acquirenti, non particolarmente attratta dai loghi, che è disposta a qualche sacrificio organizzativo pur di poter eludere una serie di intermediazioni che, alzando i prezzi, soffocano produttori e consumatori. Gli stessi si sentono maggiormente motivati all’acquisto se hanno la consapevolezza che il loro atto sposa una causa umanitaria: dal risparmio energetico, al rispetto dei diritti dei lavoratori, alla lotta contro la criminalità organizzata, alla lotta contro le concentrazioni economiche, al rispetto dell’ambiente e degli animali ecc.
Analoga cosa potrebbe tentarsi nel settore dell’abbigliamento anche se questo presupporrebbe un’organizzazione più complessa.
Come infatti mettere in contatto progettisti di moda, tagliatori e sarti, soprattutto come fare in modo che i loro prodotti abbiano un mercato?
La mia proposta è quella di creare una rete che si inserisca nel concetto di “Web 2.0” e che secondo lo schema della “long tail” sia capace di sfruttare le sue potenzialità per inseguire utenti di nicchia, coinvolgendo fornitori di materia prima, designers, laboratori artigiani e acquirenti.
Si tratterebbe di mettere in rete questi ultimi (ottime le piattaforme di social network ning, ma vanno bene anche i blog) e farli interagire in modo da proporsi insieme sul mercato on line (a cui eventualmente affiancare cataloghi cartacei), avvalendosi dei social network di grande ascolto come twitter o facebook per la pubblicità dei prodotti.
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