
E’ stata anche trovata una copia di un ordine di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una delle fabbriche del Rana Plaza.
“Life, Liberty, and the pursuit of Happiness” (“Vita, libertà e ricerca della Felicità”) è una frase contenuta nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti D’America (1776), è un bellissimo enunciato e quella era l’America di Thomas Jefferson. Allora si aprivano frontiere economiche e porte del pensiero, la rivoluzione industriale era da venire e non si prevedeva che un capitalismo basato sul libero scambio, la libertà d’impresa, la misurazione del benessere in PIL e l’esportazione della democrazia, ci avrebbe portato a questa fotografia, che invece dimostra che questo modello economico è precipitato in una “non crescita” che provoca morte, privazione della libertà e oceani di infelicità.
La decrescita felice
In questi ultimi anni si parla molto di decrescita felice, spesso per accantonarla come eccesso ideologico e senza capirne lo spirito, in realtà è una teoria economica da studiare attentamente e che parte dal pensiero di economisti come Nicholas Georgescu-Roegen e Serge Latouche. In sintesi possiamo dire che essa parte dalla constatazione di una progressiva e inevitabile decrescita economica e suggerisce di affrontarla in modo consapevole anziché subirla passivamente. Si spinge poi a intravedere una nuova “ricerca della felicità”, basata sul rispetto delle condizioni di lavoro e dell’ambiente, avvicinando la produzione al consumo e imparando a scegliere i propri acquisti.
Decrescita felice non è quindi un paradosso ma la constatazione del fallimento di una teoria economica, quella capitalistica. Si evidenzia che la maggior parte dei prodotti industriali coinvolgono un giro sproporzionato di risorse, che vanno a incidere non solo sul prezzo al consumo, ma ancora di più sull’intero sistema, con enormi costi sociali e ambientali rappresentati dal consumo di carburante per i trasporti della merce, costi di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti, conseguenti costi sanitari ed ambientali.
Serve a qualcosa il senso di colpa?
La soluzione ovviamente non è un ritorno in toto all’artigianato manuale o all’agricoltura con zappa e vomero, cosi come ingenerare il senso di colpa nei consumatori occidentali non aiuta a ridurre l’infelicità dei lavoratori del terzo mondo, soprattutto se non si forniscono delle reali ricette alternative. Non ha senso dire “non compriamo più da Benetton” o “dai cinesi” piuttosto che da H&M, Zara e Promod (anche se considero salutare il disonore sulle marche che per evidenza dei fatti traggono profitto dalla delocalizzazione selvaggia). Per un verso è vero che certi capi devono il loro basso prezzo all’infelicità di lavoratori sparsi per il mondo, che comprare una moltitudine di capi di scarsa qualità non porta alla soddisfazione dell’acquirente, che dopo pochi mesi li getta nelle discariche (con un inquinamento ambientale che si aggiunge a quello derivante dalla produzione degli stessi capi). Per un altro verso è anche vero che la soluzione non è sempre comprare pochi capi che costino di più, almeno fino a che non si avrà contezza dell’intera filiera di produzione di ogni marchio; attualmente la delocalizzazione avviene anche e soprattutto per i costosissimi capi di alta moda, con una sperequazione ancora maggiore fra costo di produzione e prezzo di vendita.
Cosa fare allora?
Abbiamo bisogno di valide alternative sul mercato, marchi di cui potersi fidare. Esistono brand di moda etica, pochi e poco conosciuti, al momento destinati a una utenza di nicchia. Dobbiamo lavorare perché l’etichetta “etico” diventi diffusa, entri a fare parte dei nostri consumi e sia disponibile capillarmente. Io credo che la decrescita felice debba andare avanti per tentativi, innanzitutto evidenziando cosa non va nel sistema capitalistico e poi suggerendo nuovi scenari sulla base delle proprie competenze. Io mi occupo di progettazione di capi di abbigliamento e vorrei dire la mia in questo settore, altre persone stanno formulando scenari in altri campi, soprattutto in quello dell’agricoltura.
Abbigliamento felice
Il settore dell’abbigliamento ha un posto di tutto rispetto nella scala dei consumi del mondo occidentale, appena al di sotto a quello dell’alimentazione. Modificare atteggiamento in questo settore darebbe un grande contributo alla ricerca della felicità.
Un tempo, quando i capi di abbigliamento si producevano nelle sartorie, c’era una scala di competenze ben precise che assegnava la confezione di pantaloni (già tagliati dal capo-sarto) alla “pantalonaia”. Questo era un primo esempio di lavoro a cottimo, perché la pantalonaia eseguiva il suo lavoro a casa fra i fornelli e i pupi da accudire, riceveva un tanto a capo e se era brava e svelta riusciva a cucire due pantaloni al giorno, difficilmente riusciva a produrne di più. Considerando che attualmente un salario equo in occidente non scende al di sotto degli 80 euro a giornata, ne risulta che la confezione di un paio di pantaloni dovrebbe costare almeno 40 euro, aggiungiamo poi i costi di materiale e distribuzione e arriviamo al prezzo al dettaglio, questo nel mondo della felicità. Nel mondo reale ci si chiede accoratamente come si può mai arrivare ai 20 euro al dettaglio di un paio di pantaloni low cost. La risposta è semplice: con l’infelicità della pantalonaia, che in tempi moderni, piuttosto che lavorare nel suo catoio, vive da schiava in un “Rana Plaza”. Probabilmente per inseguire questo sogno di felicità ha dovuto abbandonare la sua famiglia in un posto sperduto in campagna, probabilmente di pantaloni ne confeziona almeno dieci al giorno e non ha tempo per dormire e per mangiare. Qualcuno ci verrà a dire che senza il “Rana Plaza” questa lavoratrice morirebbe di fame, io continuo a sostenere che questa non è vita e che non c’è una crescita economica in questo sistema.
In altri settori manifatturieri l’innovazione tecnologica ha portato a una notevole velocizzazione della produzione ma questo non è successo nel campo della produzione di capi di abbigliamento, almeno non del tutto. Si è velocizzato il momento del taglio delle varie parti di un indumento, con una centralina di taglio collegata a dei software di progettazione a CAD e piazzamento. Poi i kit già tagliati vanno smistati ai laboratori di confezione. In genere ogni marchio rinomato ha un finto laboratorio, pulito e con impianti a norma, quello ufficiale, dove operano pochi lavoranti messi in regola. Il grosso della manifattura avviene invece altrove, attraverso una fitta rete di intermediari che fingono di non conoscersi fra loro, fino ad arrivare ai “Rana Plaza”. Tutto questo perché malgrado vi siano macchine da cucire industriali certamente più veloci di quelle artigianali, le varie fasi di manifattura di una capo sono rimaste le stesse dai tempi della prima rivoluzione industriale. Le taglie sono più approssimate, le sagomature meno raffinate, ma una giacca, un paio di pantaloni, una gonna, un abito, necessitano degli stessi passaggi di un tempo. C’è poco da velocizzare, quindi l’unico modo per essere competitivi è togliere, vita, libertà e felicità ai lavoratori.
Ritorno all’artigianato?
Il dilemma si risolve in una semplice domanda: abbiamo mai abbandonato l’artigianato nel settore dell’abbigliamento? La risposta è no, la confezione di capi di abbigliamento resta sempre un processo molto complesso. In pratica chi cuce è un lavoratore altamente specializzato, che nel corso della manifattura prende continuamente delle decisioni volte a ottimizzare i tempi e la qualità del proprio lavoro. Quando poi questo lavoratore riesce ad avere la visione intera della produzione e non sua una frammentazione, si avrà un capo ben fatto, soprattutto si avrà la felicità, quella prodotta dalla creazione.
La mia risposta è quindi il ritorno l’artigianato, quello che nella realtà dei fatti non si è mai abbandonato.
Una nuova forma di artigianato però, in cui la tecnologia entra a far parte solo dove serve. Ad esempio ci sono nuovi tentativi di progettazione che viaggiano in rete: CAD (a mio avviso ormai superato) o nuovi software più efficienti che consentono la produzione “on demand”. Questa fase sarà molto importante per garantire la fattibilità e l’ottimizzazione dei tempi di produzione e potrà dare lavoro a tanti giovani designers di moda. A proposito di questi ultimi, il mondo attende degni eredi di Coco Chanel, capaci di progettare un abito come si fa con un oggetto di design. Studiare cioè strutture di semplice taglio ed esecuzione, materiali pratici e di qualità. Questo migliorerebbe sicuramente il processo manifatturiero e abbasserebbe i costi così come è avvenuto con i mobili Ikea. Ma un abito non è un mobile e la semplificazione non può avvenire in tutti i capi di vestiario. Per i capi più complessi come giacche e pantaloni si potrebbero semmai offrire kit a chi è capace di cucire, cioè tutti i pezzi di un capo complesso già tagliati con una spiegazione sull’assemblaggio e la manifattura. La tecnologia e la rete inoltre potrebbero intervenire per coordinare i vari livelli di scambio e distribuzione della merce.
Una velocità di produzione umana e sostenibile potrebbe essere compensata dall’abbattimento di rese e scarti, dai risparmi dei costi ambientali.
A questo punto la produzione e la vendita potrebbero avvenire a chilometro zero, con punti vendita piccoli e con pochi capi di prova vicini ai laboratori artigianali. In questi ultimi i lavoratori, socializzando esperienza e umanità, avrebbero la possibilità di seguire l’intera manifattura di una capo. Questo è già nel mio manifesto di Moda Etica.
Certificazione etica
Così come pretendiamo il marchio di certificazione per i prodotti biologici, potremmo pretenderne uno per la moda etica, non è una battuta ma la realtà del futuro. Un marchio che certifichi l’intera filiera di produzione, le condizioni di ogni lavoratore e l’utilizzo di materiali ecologicamente sostenibili. A questo punto inizieremo a imparare a consumare meno e meglio, a spendere il giusto per un paio di pantaloni per poi indossarlo anni interi. I capi potrebbero avere le nostre proprie misure, i tagli potrebbero essere più elaborati e capaci di nascondere i nostri difetti. Forse i designers impareranno a disegnare sui corpi veri e non su quelli delle modelle anoressiche. Forse bulimia e anoressia smetteranno di essere una piaga sociale.
bell’articolo e incontestabile, ma prima ancora della decrescita felice (concetto che capiamo e condividiamo, ma credo in pochi) andrebbe studiato il perché la maggior parte delle persone soffre se non può cambiare abito (e oggetti in genere, pentole comprese) quasi ogni giorno. E come si può tornare indietro, anche solo a 50, 60 anni fa. Eliminando la maledetta pubblicità? impossibile.
Tentando di convincere a far riscoprire l’artigianato? hmm
E come voler mangiare una mela nel deserto.
tuonano gli himmam contro la nostra società dei consumi, in cui vedono la fonte di tutti i mali e credo sia per questo che hanno seguaci.
Forse ci vogliono nuovi messia autorevoli il cui messaggio sia chiaro ma subliminale; che riescano ad entrare in contatto con le parti più profonde dell’identità delle persone.