E’ stato proprio un caso che nella giornata della protesta “24 ore senza di noi” io e Narayan siamo stati convocati in Prefettura per stipulare il contratto di lavoro che permetterà lui di avere il primo permesso di soggiorno e uscire dalla clandestinità. Si era annunciata quindi come una giornata di festa e di emozione, purtroppo conclusa con un nulla di fatto perché l’ultima lettera del mio codice fiscale era stata trascritta in modo errato. “Festeggeremo la prossima volta” ho detto a Narayan cercando di lenire la sua delusione, ma anche la preoccupazione che qualcosa possa andare storto dopo tutte le trafile che il poveretto ha dovuto fare, sbattuto da un ufficio all’altro. Ciò non toglie che anche stamattina, come le altre volte che ho avuto a che fare con pratiche che riguardavano gli uffici immigrazione (anche Jesse, mio marito, è extracomunitario), la mia vita schiva e abitudinaria è stata attraversata da una folata di prorompente umanità. La cosa più emozionante questa volta è stato familiarizzare con le tante coppiette di collaboratore+datore di lavoro, ognuna come noi per la prima volta insieme oltre le mura di casa, una chiacchierata lungo la strada, abiti formali, la carpetta dei documenti nuova di cartoleria stretta da mani scure ed emozionate, c’erano anche degli anziani accompagnati da signore provenienti dai paesi dell’est. Ogni collaboratore aveva speso l’ultima settimana raccogliendo documenti, senza avere sufficienti indizi riguardo a compiti difficilissimi come ad esempio dimostrare di avere un regolare contratto di affitto quando stai giusto per uscire dalla clandestinità e magari anche l’affittuario per ragioni fiscali non ha molta voglia di uscire allo scoperto. Durante l’attesa i collaboratori riguardavano frementi i propri certificati, quasi facendo a gara a chi fosse più ordinato, si scambiavano informazioni l’un l’altro mentre era palese che noi datori di lavoro non avevamo molto collaborato alla raccolta della documentazione. Narayan poi era molto felice di presentarmi uno degli amici che abitano con lui, che era lì con la sua datrice di lavoro e le figlie, così abbiamo fatto le presentazioni e mi sembrava di essere ad una recita scolastica delle mie figlie. In effetti in ognuno di noi si è insinuato a poco a poco un sentimento genitoriale, per la prima volta vedevamo i loro passaporti, magari scoprendo che per cinque anni avevamo storpiato involontariamente il loro nome senza che questi ci correggessero. Si sentivano frasi dolci e affettuose, “siedi quì che stai più comoda signora” “si ma siediti anche tu” poi i datori di lavoro fra di loro tessevano le lodi del loro Samuel o Paul o Daniel, lì presente e felice di ricevere quell’affetto estemporaneo: “quanto è stato bravo ad imparare la lingua in così poco tempo” “senza di lui non potrei vivere” “quanto è gentile”. Anch’io non posso dire altro che bene di Narayan: gentile, discreto, affidabile, fin troppo affettuoso, anche quando non ce lo meritiamo. Siamo stati la sua prima famiglia in Italia e ci adora, segue simpateticamente le nostre vicende, vigile e silenzioso. Ogni tanto mi vede camminare col bastone e si incupisce, ma se la volta dopo sono più agile gli si illumina il viso “oggi stai meglio finalmente”. Quando preparavamo la festa di diciott’anni di Vittoria il suo pensiero era a Valentina “è brutto vivere lontani quando c’è una festa in casa”. La mia odiosa invalidità è servita almeno a favorire la sua regolarizzazione, perché dimostra che senza il suo aiuto non potrei vivere, che è la pura verità. All’uscita dalla prefettura ho dovuto insistere perché si prendesse un giorno di riposo “oggi ti spetta una pausa, c’è lo sciopero degli extracomunitari e ti pagherò lo stesso la giornata”, non è stato facile, voleva venire lo stesso a lavorare.

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