Quando ero ragazza, negli anni settanta, fui colpita da due femminicidi commessi in città. Furono efferati e senza un apparente perché, se ne parò per mesi, il giornale L’Ora dedicò loro intere pagine e mandò una inviata a seguire le fasi dei processi, erano fatti rari. Da un solo decennio le donne erano entrate in magistratura mentre ancora erano in vigore leggi come quelle sul delitto d’onore e il matrimonio riparatore, il diritto di famiglia assegnava la moglie al marito come sua proprietà e se questa scappava di casa rischiava il carcere.
La domanda che mi pongo oggi, considerando la cronaca quotidiana, con in mezzo quarant’anni di lotte e conquiste considerevoli, è la seguente: è stata dichiarata guerra al genere femminile senza che io me ne accorgessi?
Adesso i femminicidi sono talmente tanti da non meritare molto spazio su giornali o TV, semmai si contano, 130 dall’inizio dell’anno, i dettagli sono truculenti, le motivazioni incomprensibili, spesso vengono coinvolti familiari e testimoni occasionali mentre la prole viene privata d’un colpo di entrambe i genitori. Una tale emergenza sociale trattata come numero, accumulo, tipologia della dinamica. E poi si aggiungono le mutilazioni con l’acido (di importazione asiatica), gli stupri, il bullismo digitale, lo stalking, le molestie sul posto di lavoro. Probabilmente l’emulazione dei fatti di cronaca gioca la sua parte, di sicuro la rete facilita l’approvvigionamento delle armi e fornisce istruzioni, ma il fatto è che c’è un plotone di uomini sparso nel pianeta, trasversale a ceti sociali, religioni, etnie e livelli culturali, che ha deciso di prendere di mira il genere femminile in un abbraccio mortale che distruggerà vittime e carnefici. Una organizzazione del terrore che meriterebbe corpi speciali di polizia. Un impazzimento del genere maschile che mi spinge a ricercare, da profana, una matrice comune, un qualsiasi indizio che possa aiutarmi a capire cosa sia successo.
La violenza degli uomini sulle donne è sempre stata un’orrenda abitudine tollerata dalla società, considerata un modo per mettere ordine in famiglia o ristabilire il buon costume, se ci scappava il decesso era un fatto incidentale e la percentuale era maggiore lì dove c’era arretratezza culturale. Quello che succede oggi mi sembra diverso, come un’evoluzione di quella stortura: intanto pare che sia più diffusa nei paesi nordici ad alta evoluzione sociale, poi il carnefice è conscio di una generale censura, spesso è lo stesso che poi si consegna alle forze dell’ordine, infine non considera il futuro di eventuali figli e sa che non conquisterà così l’oggetto del desiderio, se di questo si tratta. Sembra il gesto estremo di chi non ha più nulla da perdere, di chi desidera trascinare il mondo intero nel proprio inferno.
Mi vengono in mente tutte le nostre conquiste degli ultimi decenni, per poi vederle travolte da questo bollettino di guerra, come fosse un colpo di coda che nessuno aveva previsto.
Non si piò infatti negare che più o meno dalla metà del secolo scorso è in corso una mutazione di specie, una lenta trasformazione dell’intero genere femminile che magari procede random, con pochi modelli di riferimento, ma è inarrestabile e possiede ormai una sua inerzia.
Il voto alle donne ha portato ad una rappresentanza parlamentare femminile, se pur minima, che poi lentamente ha lottato per l’uguaglianza in famiglia, nei posti di lavoro e in politica. Il cammino è tortuoso e ancora in corso ma ci sono campi in cui è bastato modificare una regola per assistere ad un processo in motu proprio. Pigliamo l’esempio italiano dell’ingresso delle donne in magistratura nel 1963, che gli oppositori ritenevano inopportuna a causa di presunti difetti fisiologici.
Quell’anno solo otto donne su 200 vinsero il concorso mentre oggi la percentuale di donne vincitrici è del 50,7% con una stabilizzazione alla crescita. Altri campi hanno raggiunto l’uguaglianza legale trovando poi degli ostacoli alla sua attuazione, ma non in questo caso, perché il concorso per la magistratura è anonimo (con un complicato sistema di buste che rende assai difficile arrivare all’identità del candidato) quindi vince il merito, la determinazione, la costanza, la concretezza; doti che le donne mostrano di avere. Nel 1963 né le donne che avevano lottato per quella conquista, né gli uomini che le consideravano inadatte, immaginavano che dopo soli 55 anni, un uomo che delinque rischia al 50% di essere giudicato e condannato da una donna, e poi in carcere ha molte probabilità di essere sorvegliato, analizzato psicologicamente, curato e gestito da donne. Inizia a profilarsi quel potere paritario per cui tanto si è lottato. E’ questo che arma gli uomini contro le donne? Se la risposta fosse così ovvia qualcuno ci avrebbe già pensato.
Però è un fatto che pochi decenni di una storia umana millenaria stiano drasticamente riequilibrando una discriminazione le cui origini risiedono probabilmente nella preistoria, in un tempo in cui era la forza fisica a determinare il valore di un individuo, e di conseguenza il genere femminile accettò di adattarsi ad un ruolo subalterno, reprimendo istinti e velleità. Da allora, e si tratta di millenni, gli uomini hanno gestito i luoghi di potere come qualsiasi altro spazio sociale. Nel frattempo la capacità intellettiva è diventata più importante della forza fisica e le donne hanno iniziato a dimostrare di averla quanto gli uomini, lottando per la parità.
Questo ha determinato l’ingresso femminile, non solo nei luoghi di lavoro, ma anche in quelli considerati ricreativi: le piazze dei paesi, le università, i bar, le caserme, gli uffici, le fabbriche; spazi in cui si erano sviluppati linguaggi e comportamenti che miravano a tener lontane le donne, hanno visto un ingresso massiccio di queste ultime. Alcuni potrebbero averlo percepito come un accerchiamento, una privazione dell’aria che respiravano. Poi è successo che alcune donne hanno avuto accesso al potere, comandando anche sugli uomini, magari prendendo a prestito modelli maschili, sbagliando quanto loro. Sono cambiamenti epocali a cui si sono opposti rabbia, sarcasmo, vendette, muri di gomma, ma che col tempo sono riusciti ad essere accettati. Invece a me sembra che negli ultimi anni ci sia stata una accelerazione, una sorta di impazzimento del genere maschile che ha costituito il terreno di coltura di nuove forme di violenza contro le donne.
In effetti alzando lo sguardo non si può non percepire una generale crisi di sistema, che si è dapprima imposta come crisi economica per poi smembrarsi in una varietà di istanze che diventano emergenze prima ancora di manifestarsi. Almeno nella mia percezione sta finendo un mondo e, se ne saremo capaci, ne sopravvivrà un altro: precario, fragile, sperimentale.
Il mondo che sta finendo vede uomini che gestiscono il potere economico e irridono le istanze ambientaliste, che portano il reddito in famiglia, almeno quello più cospicuo. Su questo modello adesso emerge un mondo in cui il posto di lavoro è in via di estinzione, in cui il potere economico è gestito da entità invisibili a occhio nudo, in cui le tematiche ambientali si impongono con eventi drammatici. In parole povere un mondo in cui è necessario organizzarsi da soli, essere flessibili e intuitivi, privilegiare lo stile di vita piuttosto che la competizione, occuparsi dell’ambiente. Tutte vocazioni che vedono le donne a proprio agio.
Non è che io consideri le donne migliori degli uomini, ma vedo un problema che riguarda l’assegnazione dei ruoli.
Se torniamo a quel punto della storia in cui le donne dovettero comprimere istinti e velleità, è facile immaginare come gli uomini si siano trovati a comprimere la propria sensibilità, nascondere le lacrime, mostrarsi forti, assumere ruoli di capotribù e capofamiglia, competere, abituarsi a non chiedere aiuto. Un radicamento di abitudini e pregiudizi con cui, a volte inconsapevolmente, devono fare conti tutti gli uomini. Su certuni il peso di queste aspettative si è scontrato con un panorama contemporaneo in cui la sola sparizione del luogo fisico del lavoro determina un trauma identitario.
Non è che le donne non vivano questo dramma, ma la mancanza di aspettative che si è radicata su di loro le scarica dal peso del mantenimento di un ruolo. Così spesso sono le donne che si ritrovano a combattere piccole battaglie per la sopravvivenza o l’affermazione di stili di vita alternativi, manifestando quella resilienza che alcuni uomini faticano a scovare in sé stessi. La violenza di pochi uomini potrebbe quindi nascondere un quadro di sofferenza più generalizzata, di fronte ad emergenze che ingigantiscono giorno per giorno.
E’ salutare che a porre queste istanze abbiano cominciato proprio gli uomini, quella parte del genere maschile capace di lavorare su se stessa, porsi delle domande, andare al nocciolo della questione. Quella parte curabile, perché temo che chi si è macchiato di femminicidio non lo sia più.
Bisogna anche considerare che il lungo percorso per la cessione di pezzi di potere è più difficile e frustrante della battaglia per la sua conquista. Poi c’è da dire che le donne conducono le loro battaglie da un secolo e mezzo mentre gli uomini stanno iniziando adesso.
Ci sono dei timidi segnali di cambiamento e mentre scrivo ci sono masse di uomini che sfilano nelle principali città americane, insieme alle donne, contro la violenza sulle donne.
Voglio concludere con questo segno di speranza.
Articolo pubblicato sul numero 158 della rivista Mezzocielo col titolo La violenza sulle donne, un’orrenda abitudine
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