La memoria in quello sguardo

Era un pomeriggio di primavera del 1980, io avevo 23 anni e lui 56, dieci di meno della mia attuale età; tornavo dal mare e da una giornata piacevole quando, alzando gli occhi da un marciapiede di viale Lazio incontrai il suo sguardo, quello di una persona cara che stava appoggiata al balcone della sua casa di Viale Campania, rivolgendosi al vuoto. Eravamo molto lontani, ma lo stesso riuscì a percepirne la tristezza, rara in un uomo che sapeva farci ridere a crepapelle. Era uno sguardo di cui conoscevo il motivo, anzi il progetto, predisposto nei minimi dettagli con la complicità di mia madre, quello di beffare la morte anticipandola, solo che non ne conoscevo la tempistica, e forse neanche lui. Non sapevo se l’avrei rivisto ancora e in effetti quello fu il suo ultimo sguardo, che dal vuoto si poggiava casualmente su di me, che per questo piansi una perdita la cui notizia arrivò, non inaspettata, qualche giorno dopo.

“Messieurs Calogerò, viale Campania, Palermo“ fu l’intestazione di una lettera che, grazie all’intuizione di uno zelante postino, era stata recapitata all’indirizzo di Calogero Roxas, che effettivamente abitava in viale Campania a Palermo; ma Calogero era il nome e non il cognome.

San Calogero in Sicilia è un santo controverso, innanzitutto nero e per questo trattato alla pari dai suoi fedeli, con riti singolari come quello di tirare sulla statua pezzi di pane duro, o immergere la sua effige lignea in una gebbia per mettere fine a un periodo di siccità. E quando neanche questo funzionava lo si canzonava intonando “si contenta i guncià basta d’un chiove” (si contenta di gonfiare d’acqua pur di non darci la pioggia) così come circolavano su di lui altre filastrocche: “San Calogero di Naro grazie un migliaro, San Calogero di Girgenti grazie picca e nenti”.

E i nostri due eroi ebbero la disgrazia di chiamarsi Calogero: l’uno, mio padre, di fronte a un cimitero pieno di lapidi intestate ad altrettanti Calogeri vietò a me e mio fratello di perpetrare il suo nome, l’altro era lui. A mio padre il nome venne ingentilito da un “Gino” che non c’entrava nulla, a lui l’offesa continuò col nomignolo Lillo. Gino era la spalla ma Lillo era il mattatore, e riuscirono a ridere insieme persino durante le sue sedute di chemioterapia, in una clinica svizzera. Amavano il mare, andavano da soli a vela, sapevano alternare le risate a momenti di silenzio, sapevano trovare le battute quando agli altri seccava la lingua. Ebbero un incidente nei loro vent’anni in una jeep trafugata dal partito comunista alle forze alleate: stavano andando a cercare compagni fra i contadini, guidava Lillo e l’auto di rovesciò più volte sui loro nasi, storcendoli irrimediabilmente e lasciando mio padre senza olfatto. Furono inseparabili fino a quella primavera del 1980.

In una delle loro escursioni al Salone Nautico di Genova presero contatti con un costruttore francese di barche a vela che, osservando il loro cameratismo e vedendo due nomi uguali, pensò che fossero due fratelli dal cognome Calogero, e così fu spedita quella lettera su cui ridemmo per anni.

Quel pomeriggio del 1980 capì che tutto questo sarebbe finito a breve, che non avrei più riso delle sue battute, che non avremmo più ricevuto le casse di vino e di whisky JOHNNIE WALKER che la ditta Di Martino recapitava a casa nostra “per il signor Roxas”; noi in famiglia eravamo astemi e lui si assicurava la fornitura alcolica durante le regolari cene al nostro tavolo. Ancora conservo un bottiglione da cinque litri della JOHNNIE WALKER.

Non c’è avvenimento culturale o politico per cui non mi chieda come avrebbe reagito Lillo, quale intuizione avrebbe colto fra quelle che agli altri erano sfuggite, quale lato grottesco sarebbe stato sottolineato dalla sua mimica sferzante.

Mi manca, mi manca la sua intelligenza, la sua guida, mi manca il cordoglio che non ha seguito la sua morte, mi indigna la dimenticanza della sua figura politica, e ringrazio Giuliana (Saladino) per quel meraviglioso saggio sull’amicizia che è “Romanzo civile”.

Per questo il personaggio di Giulio nel mio romanzo “Elda, vite di magnifici perdenti” è ispirato a lui. E l’ho anche fatto rivivere in carne ed ossa nel terzo romanzo non ancora pubblicato, nel quale ci saranno due illustrazioni che lo riguardano, una delle quali dipinge lo sguardo del pomeriggio assolato del 1980.

Sono felice di averlo colto così come lo vidi allora.

Calogero Roxas (Lillo) è stato un editore (Edizioni Guida e Il Punto), un compagno, un intellettuale, un amante del bello, un “nisseno pazzo” come lui amava definirsi.

Anteprima da un romanzo ancora da pubblicare

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