La mafia e lo sbarco degli alleati

Il 10 luglio 2023 si sono celebrati gli ottant’anni di quella che in gergo militare fu chiamata “Operazione Husky”, che portò alla liberazione della Sicilia da parte delle truppe angloamericane e costituì il primo approdo in territorio europeo delle forze armate alleate. Per sconfiggere l’asse italo-tedesco si decise per un attacco nel mediterraneo scegliendo come destinazione le coste siciliane e, all’alba del 10 luglio 1943, la Sicilia fu aggredita su due fronti nella parte orientale e meridionale: la VII armata statunitense al comando del generale George Smith Patton sbarcò nel settore compreso tra Scoglitti, Gela e Licata col proposito di raggiungere rapidamente Palermo, capitale della regione; l’VIII  armata britannica, invece, al comando del generaleBernard Law Montgomery, sbarcò nella zona tra Siracusa e Pachino per raggiungere Messina e risalire poi la penisola.

Per la ricorrenza, nella sede dell’Assemblea Regionale Siciliana a Palermo, alla presenza di autorità politiche ed accademiche, è stato presentato il saggio del professore Salvatore Lupo, il mito del grande complotto, pubblicato il 31 maggio scorso dalla casa editrice Donzelli, nella collana Saggine.

Ciò che ha spinto il professore Salvatore Lupo, ex docente di Storia Contemporanea alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo a scrivere questo breve saggio (102 pagine in formato ridotto), non è tanto il desiderio di introdurre una nuova teoria storica, quanto quello di demolirne una precedente; lo si evince dal titolo, dall’enunciato della fascetta, dalla quarta di copertina così come più ampiamente nella premessa. Il proposito viene intercalato ripetutamente nel corso della trattazione come ad esempio a pagina 16, dove l’autore identifica nettamente gli ideatori di quella che ora in avanti definirò come “teoria dell’accordo mafia-alleati”:

“…il mito del Grande complotto tra mafia e americani, nato nel ’43-44 – in un biennio che nel resto del mondo era ancora guerra ma che in Sicilia era già dopoguerra – venne poi formalizzato nel tempo della guerra fredda e dell’incrudirsi della minaccia mafiosa, nelle pagine de “L’Ora” e nei libri dell’editore Einaudi, insomma nell’area di opinione della sinistra socialcomunista. Vennero allora sovrapposte due “minacce”: da un lato, quella rappresentata dall’egemonismo statunitense, e dall’inserimento dell’Italia nella sua orbita; dall’altro, quella del riprodursi/rafforzarsi del potere mafioso nel nuovo tempo, pur attraverso grandi discontinuità storico-politiche (il sistema repubblicano) e storico-sociali (il dispiegarsi della modernizzazione).”

A questo punto riassumo in poche parole la teoria dell’“accordo mafia-alleati” contestata dal professore Salvatore Lupo:

Essa vuole che in aiuto delle truppe americane sia intervenuta l’organizzazione criminale chiamata mafia o cosa nostra, che aveva in Calogero Vizzini (chiamato Don Calò) di Villalba, in provincia di Caltanissetta, il suo capo supremo, un uomo che aveva sulla coscienza trentanove omicidi e sei tentati omicidi.

All’inizio della guerra, l’intelligence navale americana si era avvalsa dell’aiuto di un detenuto eccellente come Lucky Luciano per difendere il porto di New York da possibili attacchi tedeschi, si trattò della spregiudicata Operazione Underworld (Operazione malavita) che vedeva la mediazione di personaggi della criminalità organizzata in aiuto nella Naval intelligence. La teoria ipotizza che la stessa intelligence abbia deciso nel ‘43 di riprendere questa collaborazione per ottenere informazioni volte a ricostruire nel dettaglio le coste siciliane in previsione dello sbarco.

Lucky Luciano, che aveva ancora da scontare una quarantina di anni di galera, avrebbe posto come condizione il suo rilascio, mettendo a disposizione dell’intelligence un dispiegamento di amici italo-americani, principalmente appartenenti alla malavita organizzata, che di recente si erano recati in sicilia e avevano uno stretto collegamento con la mafia di origine, cioè quella siciliana, che negli anni venti aveva subito dal governo fascista una feroce repressione ad opera del prefetto Mori. I mafiosi siciliani si dichiaravano quindi antifascisti, e per ragioni molto lontane dalla politica. Gli amici italo-americani si resero molto preziosi per stilare, oltre alle mappe, anche una dettagliata analisi che potremmo definire sociologica, sugli usi, i costumi e anche i rapporti di potere fra amministratori in carica, esponenti religiosi ed esponenti della mafia organizzata.

La teoria dell’accordo mafia-alleati si spinge a ipotizzare anche un aiuto più concreto da parte di un’organizzazione verticistica e capillarmente diffusa a rete, come era la mafia di allora (molto simile a quelle della seconda metà del novecento), che si attuò veicolando messaggi fra i capomafia dei vari comuni siciliani fuori dal controllo dei militari dell’asse italo-tedesco, ma anche intimidendo a suon di lupara i i militari italiani sparsi nei presidi di difesa del territorio, convincendoli ad abbandonare le postazioni, spogliarsi della divisa e nascondersi nelle montagne o presso le proprie famiglie.

Il primo sostenitore della teoria dell’accordo mafia-alleati è stato lo scrittore, giornalista e uomo politico siciliano (deputato all’Assemblea Regionale Siciliana dal 1967 al 1971 come indipendente nelle liste del PCI) Michele Pantaleone, nativo di Villalba in provincia di Caltanissetta, dapprima in alcuni articoli sulla mafia pubblicati sul quotidiano L’Ora di Palermo a partire dal 1958 (durante la direzione di Vittorio Nisticò) poi nel suo saggio Mafia e Politica 1943-1962, edito da Einaudi con la prefazione di Carlo Levi. Il saggio ebbe un grosso successo editoriale, fu ristampato più volte e da esso fu tratto il film Il sasso in bocca, con la regia di Giuseppe Ferrara e la collaborazione alla sceneggiatura dello stesso Pantaleone.

Nel suo saggio Pantaleone racconta che nella mattina del 14 luglio, quattro giorni dopo lo sbarco, fu paracadutato un plico nelle vicinanze del piccolo comune di Villalba, precisamente in contrada Cozzo di Garbo, proprio di fronte alla casa della famiglia Vizzini.

La busta, che recava la scritta “zu Calò”, fu raccolta da Carmelo Bartolomeo, cameriere di casa Vizzini, e consegnata al destinatario. Secondo il racconto di Pantaleone la sera stessa un contadino soprannominato Mangiapane partì a cavallo da Villalba verso Mussomeli per consegnare all’uomo d’onore Giuseppe Genco Russo un messaggio caratterizzato da un linguaggio in codice e uno stretto dialetto dell’entroterra, che nella sua traduzione mandava a dire che il giorno 20 un certo Turi pezzo da novanta della zona di Polizzi Generosa avrebbe accompagnato le divisioni motorizzate fino a Cerda, mentre lui stesso sarebbe partito lo stesso giorno con il grosso delle truppe, i carri armati e il comandante in capo. Gli amici avrebbero dovuto preparare i focolai di lotta e gli eventuali rifugi per le truppe (alleate). La mattina dopo, Mangiapane tornò da Don Calò con la risposta di Genco Russo, il quale lo rassicurava di aver provveduto a preparare le armi.

Le istruzioni furono poi diffuse ai tanti capomafia sparsi nel territorio, che quindi prepararono le popolazioni dei piccoli e grandi comuni all’accoglienza festosa dei liberatori, ma soprattutto fecero irruzione armata in varie postazione di difesa dell’esercito italiano, costringendo i militari ad abbandonare i presidi.

Pantaleone raccontò anche ciò che vide di persona (insieme a circa trecento compaesani) il pomeriggio del 20 luglio 1943 (dieci giorno dopo lo sbarco), quando tre carri armati americani si recarono nella cittadina di Villalba, suo paese natale, per prelevare Calogero Vizzini. Uno dei carri armati sventolava una bandiera gialla che recava in nero l’iniziale “L” di Lucky Luciano mentre uno dei militari chiedeva espressamente che fosse avvertito Don Calò Vizzini, che arrivò subito dopo per essere prelevato e portato via da uno dei carri armati; sarebbe tornato alcuni giorni dopo per essere proclamato sindaco del paese dagli stessi militari che lo accompagnavano. Pantaleone racconta poi che a Mussomeli Giuseppe Genco Russo catturò il comandante delle truppe italiane e lo rinchiuse nel circolo sociale, in seguito anche lui fu nominato dagli americani sindaco del paese, così come numerosi altri capomafia furono nominati sindaci dei comuni in cui esercitavano il loro potere mafioso.

Nonostante sia di piccole dimensioni il saggio del professore Lupo si legge a fatica perché non ha un andamento storico lineare, direi piuttosto che somiglia a un’arringa di difesa di un ipotetico processo che vede il socio-comunismo nel ruolo di pubblico ministero e sé medesimo nel ruolo dell’avvocato di difesa della VII armata statunitense. Ho faticato quindi a trovare una pistola fumante nel mezzo di tante interpretazioni, ragionamenti bizantini, opinioni personali e irrisioni della controparte.

Se volessi controbattere punto per punto le ragioni del professore Lupo mi troverei a scrivere più pagine di quelle contenute nel suo saggio, quindi vorrei focalizzare la mia replica su quelli che ritengo i tre principali argomenti trattati: il primo è il racconto di Michele Pantaleone, il secondo è il ruolo di Lucky Luciano, il terzo è relativo a un documento ufficiale (finalmente!): il memoriale Scotten.

1) Riguardo alla narrazione di Michele Pantaleone, per dovere di cronaca devo aggiungere che lo stesso racconto è stato più volte confermato da mio padre, Gino Cipolla, che nell’estate del 1943 aveva diciannove anni e si trovava sfollato insieme alla famiglia a Villalba, suo paese di origine. I fatti con tutti i loro dettagli sono stati raccontati più volte fra la parentela perché probabilmente salvarono la vita al mio genitore e il racconto familiare aggiunge un dettaglio non riferito da Michele Pantaleone, che era anche un nostro lontano congiunto: in paese si era sparsa la voce che Don Calò sapesse con certezza in quale giorno sarebbero giunti in paese gli americani e addirittura raccomandava ai picciotti che avevano ricevuto il precetto alla leva di nascondersi, tanto che mio padre, che aveva già ricevuto la cartolina che lo destinava sul fronte dell’est europa, per giorni si nascose in una casina di campagna, dove peraltro nessuno andò a cercarlo.

Intanto Don Calò aggiornava in paese le notizie sull’avanzamento delle truppe alleate, tanto che il 20 di luglio mio padre circolava di nuovo liberamente per le strade del paese e assistette alla stessa scena raccontata da Michele Pantaleone. Nel mio romanzo Elda, vite di magnifici perdenti, nel capitolo 24 https://mariaadelecipolla.com/2020/07/29/elda-cap-24-i-fratelli-santelia/ i fratelli Santelia (personaggi ispirati a mio padre e mio zio) raccontano la scena nella versione di mio padre. Il fatto che Don Calò sapesse in anticipo la data dell’arrivo in paese dei carri armati, e che le sue previsioni siano poi state confermate, mi dimostra l’esistenza di un accordo fra costui e le forze armate americane sbarcate a Licata.

Illustrazione tratta dal romanzo “Elda, vite di magnifici perdenti” che riguarda l’incontro fra Don Calò Vizzini e i carri armati americani

Si tratta del racconto paterno e della mia memoria della sua narrazione, dal punto di vista storiografico equivale a zero, ma c’è anche da considerare l’intera popolazione del comune di Villalba presente quel pomeriggio, a cui si aggiungevano numerosi sfollati dalle città, e se in questi ottant’anni nessuno si è preoccupato di interrogarli su un fatto così eclatante, mi fa pensare che fosse talmente noto da non sollevare dubbi. Così mi chiedo perché tanta diffidenza arrivi giusto adesso che i testimoni sono tutti morti, persino mio zio (l’ex senatore comunista Nicola Cipolla) che ci ha lasciati in piena lucidità sei anni fa a 96 anni, continuando a confermare questa tesi.

L’unica voce che potrebbe in parte smentire questa narrazione, levata dal paese di Villalba, deriva dallo storico e politico locale Luigi Lumia, che nelle sue memorie racconta di un paesano che a suo dire funse da interprete fra Don Calò e i militari americani e che viene riportata nel saggio dallo stesso Lupo:

“Gli americani chiesero ai paesani chi fosse il «capo del paese», questi indicarono Vizzini, e costui fu preso a bordo del loro mezzo insieme a un interprete locale, venne portato a un loro comando dove fu interrogato senza troppi complimenti sul posizionamento degli italo-tedeschi, per poi essere ancor più bruscamente congedato. Tornò non in paese, bensì in una sua casa di campagna che era già notte, stanco e provato, e raccomandò all’interprete di non far cenno ad alcuno di quanto era accaduto, si mise a letto e si addormentò.”

Si tratta un racconto di seconda mano, valido quindi quanto il mio, che inoltre non ha altri testimoni oculari oltre l’interprete; mentre il racconto di Pantaleone, oltre ad essere più dettagliato, chiama in causa circa trecento persone.

Mi conforta anche il fatto che la testimonianza di Michele Pantaleone ebbe a suo tempo molto credito e, oltre ad essere acquisita nella relazione della commissione parlamentare antimafia del 1976 presieduta dal senatore democristiano Luigi Carraro e in quella del 1993 presieduta da Luciano Violante, è stata alla base del pensiero di storici, scrittori, giornalisti, registi cinematografici, che nel tempo ne hanno acquisito riscontri, soprattutto a seguito della de-secretazione di alcuni archivi della CIA negli anni novanta del novecento.

2) Il ruolo di Lucky Luciano: di sicuro c’è che questi fu scarcerato nel gennaio del 1946 ed estradato in Sicilia a bordo del mercantile Laura Keene, ove la sera precedente alla partenza tenne un party alla presenza di Frank Costello e altri boss newyorkesi. Circa i motivi della scarcerazione Lupo ipotizza il riconoscimento di una sua collaborazione con la Naval Service Americana ma solo in merito all’operazione Underworld dei primi anni del conflitto. In questo caso non si spiega perché una prima richiesta di scarcerazione sia stata respinta nel ‘42, prima dell’operazione Husky e poi invece riproposta e accolta a guerra finita. Lupo fornisce anche una seconda spiegazione che riguarda la presa di coscienza dei giudici circa una pena troppo severa per il solo traffico della prostituzione, così che improvvisamente nel ‘46 decisero di scarcerarlo. Ora io ritengo che nel caso di una palese ingiustizia si riapra un processo, ma un rilascio così anomalo come quello di Lucky Luciano fa pensare piuttosto a un ordine partito molto dall’alto, ad esempio dalla Casa Bianca. C’è poi quel che fece Lucky Luciano al rientro vittorioso in Italia, dove avviò una collaborazione commerciale con Don Calò Vizzini per la produzione di confetti ripieni (di cosa?), diventando punto di riferimento delle famiglie mafiose che riuniva nei summit all’Hotel Delle Palme di Palermo. Il regista Francesco Rosi ci descrive questo contesto nel film Lucky Luciano, del 1973, insieme agli affari poco limpidi fra il reggente dell’AMGOT Charles Poletti e il boss Vito Genovese, pellicola in cui viene narrato l’avvio di un traffico di eroina fra Italia e USA che nessuno, in Italia come in America, ha realmente fermato. Forse perché Lucky Luciano sapeva troppi dettagli sull’operazione Husky? Forse perché alcune sue rivelazioni avrebbero incrinato l’immagine invincibile dell’esercito americano?

3) Il memoriale Scotten: Nel suo saggio il professore Lupo cita come prova della sua disamina un passo del memorandum del capitano statunitense William E. Scotten, vice console statunitense in Sicilia alla fine degli anni trenta, intitolato The Problem of Mafia in Sicily, del 29 ottobre 1943 (tre mesi dopo lo sbarco). In esso Scotten denuncia un rapido rafforzamento in corso della mafia e indica

Tre possibili strade per risolvere il problema:

Prima strada: “l’unica adeguata coerente con gli obiettivi dichiarati del governo militare”: promuovere una massiccia opera di repressione (to bring the Mafia under control). Controindicazione: richiederebbe un grande impiego di forze.

Seconda strada: negoziare una tregua con i leader della mafia.

Controindicazione: loro si dovrebbero impegnare a non promuovere il mercato nero, a non ingerirsi in altri settori considerati strategici dall’AMGOT, noi dovremmo fidarci della loro parola.

Terza strada: abbandonare ogni tentativo di contrastare la mafia e limitare un governo militare assoluto a piccole enclave superprotette.

Controindicazioni: dalla scelta di abbandonare l’isola a un potere criminale per lungo tempo a venire, gli Alleati uscirebbero squalificati di fronte al nemico, al resto d’Italia, agli altri paesi d’Europa.”

Lupo così commenta questo stralcio del memoriale: “sembra di capire che Scotten propendesse per una via intermediaria tra la prima e la seconda, escludendo la terza”.

Ora a me questo “sembra” appare opinabile, quantomeno poco motivato, e vorrei chiedere al professore Lupo di comprovarlo fornendo una documentazione sui boss perseguiti dall’AMGOT (alla maniera del prefetto Mori) così come indicherebbe la prima strada. Poi, andando personalmente ad approfondire il memorandum Scotten, trovo altri passi (da lui non citati) che potrebbero ulteriormente incrinare le certezze di Lupo:

“…ci fu una forte recrudescenza della mafia nell’occupazione della Sicilia, cosa che ha pesanti implicazioni nell’attuale e futura situazione politica dell’isola e dell’Italia, e che sia necessario affrontare il problema al più presto, opinione condivisa dall’inviato speciale del Dipartimento di Stato sig. Alfredo T. Nester dell’Office of Civil Affairs of Algeri, ex console americano a Palermo che sta attualmente svolgendo un giro di indagine in Sicilia…” e scorrendo le pagine si trova “…quel che è più inquietante è che esistono molti casi di nostri funzionari del Civil Affairs e di interpreti di origine o di ascendenza siciliana che già negli Stati Uniti sono stati collegati alle sfere mafiose tramite amici di famiglia o antenati. (Gli informatori) sono fermi nel sostenere che alti ufficiali hanno ceduto alle lusinghe dell’aristocrazia terriera che è in stretto rapporto con la mafia non soltanto per le ragioni tradizionali, ma anche per le comuni aspirazioni politiche. Affermano che i nostri stessi ufficiali siano stati fuorviati e accecati da interpreti e consiglieri o corrotti o influenzati al punto di correre il rischio di diventare strumenti inconsapevoli della mafia. Pertanto, anche se il nostro intento fosse quello di affrontare il problema della mafia, i siciliani starebbero rapidamente perdendo ogni fiducia nella nostra capacità. Informazioni provenienti dalla Political Intelligence Section e dagli operatori del Counter Intelligence Corps sfortunatamente tendono ad accreditare queste insinuazioni che gli stessi ufficiali della Public Safety Division non sono in grado di negare.”

Secondo l’opinione del professore Lupo, il memorandum Scotten rappresenta una fonte di prima mano capace di ribaltare una teoria che per sua ammissione “ha riscosso un permanente e crescente successo presso il pubblico” influenzando anche la sua stessa opinione (considerato quanto da lui sostenuto in opere precedenti). Tuttavia, secondo la mia lettura, questo memorandum va ascritto a supporto della teoria dell’accordo mafia-alleati, e non sono la sola a sostenerlo dato che a citarlo è stato anche Luciano Violante nella relazione finale della Commissione Parlamentare Antimafia del 1993 (per chi volesse approfondire, lo allego nella sua versione originale in formato PDF).

Non sono un professore di storia e il mio non è un trattato accademico, ma posso serenamente affermare che le motivazioni del professore Lupo esposte in questo saggio non mi convincono, perché non vedo elementi concreti per ribaltare la teoria dell’accordo mafia-alleati.

Ma vorrei aggiungere dell’altro, perché si tratta di un saggio che ha una precisa intenzione accusatoria, identificando “un’area di opinione della sinistra socialcomunista” come colpevole di una manipolazione delle fonti storiche in quanto contraria all’”egemonismo statunitense” all’interno della guerra fredda.

Allora vale la pena inquadrare il periodo storico che stiamo trattando: mentre l’operazione Husky fu messa in atto durante la presidenza americana di Franklin Delano Roosevelt, questi morì il 12 aprile del 1945, lasciando la presidenza al suo vice Harry S. Truman che, sebbene democratico, diede avvio alla cosiddetta dottrina Truman, in nome della quale gli Stati Uniti intrapresero una lotta globale contro il comunismo. Fu così che appena liberate dal nazifascismo, negli anni del primo dopoguerra le forze di sinistra siciliane (Il partito comunista, quello socialista e le varie organizzazioni sindacali) si trovarono sotto i fuochi incrociati di un’altra guerra, quella al comunismo attuata con l’eccidio di Portella delle Ginestre e l’uccisione di decine di sindacalisti. In assenza di adeguate indagini da parte delle forze dell’ordine, “l’area di opinione della sinistra socialcomunista” (come la chiama Lupo) fu costretta a indagare circa i mandanti, individuando un collegamento fra aristocratici-latifondisti e mafiosi affluiti nel partito separatista (col proprio braccio armato EVIS) e pezzi (deviati o non) dei servizi segreti sia italiani che americani; ad esempio furono trovate tracce di esplosivo di provenienza americana nella postazione da cui i soldati dell’EVIS spararono su Portella delle Ginestre. Si iniziò così ad ipotizzare che elementi dell’intelligence americana, che durante lo sbarco avevano tratto vantaggio da una collaborazione con la mafia, fossero rimasti in Sicilia durante i governi succeduti all’AMGOT, sfruttando la stessa alleanza in una repressione violenta e sistematica del socio-comunismo in nome della dottrina Truman.

Si può sostenere che queste speculazioni siano errate, come fece lo storico Francesco Renda a cui va tutta la mia stima, ma ipotizzare che un fronte politico sotto attacco abbia deliberatamente diffuso false informazioni in nome di un generico anti-americanismo mi sembra fuorviante, soprattutto appare pervaso da una prevenzione ideologica che non aiuta a dipanare le fisiologiche incertezze che avvolgono la ricerca storica.

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