L’avevo deciso una mattina del 1986 quando, incinta della mia prima figlia, avevo fatto delle analisi cliniche al mattino presto. Poi ero andata a sedermi al bar Ciros, in via Notarbartolo, a fare colazione, erano circa le otto e mezza. Era il mese di settembre e si stava seduti nei tavolini posti fuori. Ad un tratto notai che la gente guardava tutta dallo stesso lato, anche i camerieri, che continuavano il loro servizio occhieggiando verso un punto del marciapiede dell’isolato seguente, attendevano qualcosa che io non conoscevo. Finalmente davanti al portone del palazzo, al lato del bar, vidi degli agenti armati vestiti in borghese, e un via vai fra il portone e una guardiola in cemento che era stata costruita sul marciapiede. Gli agenti armati erano muniti di radiotelefono e iniziarono a parlare concitatamente fra di loro, fino a quando una volante della polizia posteggiò di traverso nel bel mezzo della strada, bloccando il passaggio alle automobili all’altezza dell’incrocio con via Sciuti. La stessa cosa aveva fatto un’altra volante, all’altezza dell’incrocio tra via Notarbartolo e Viale della Libertà.
Adesso la strada era completamente vuota, soltanto gli uomini armati erano padroni di tanto spazio e vi si muovevano a piedi scambiandosi gesti concitati. Dopo un po’ arrivò un’auto blindata scortata da due volanti della polizia, una davanti e una dietro, l’auto blindata si fermò all’altezza del portone, ne scesero tre agenti armati e lasciarono le porte aperte controllandole a breve distanza con i loro mitra. Altri agenti entravano ed uscivano dal portone parlando concitatamente al radiotelefono (strano non esistevano telefonini allora), altri tre uomini armati entrarono nell’androne del palazzo e salirono in fretta le scale. Nel bar il tempo era rimasto sospeso: solo i più famelici continuavano a fare colazione con la tazza in aria e il cornetto nell’altra mano, ma sempre con lo sguardo diretto a quella scena da guerra; i camerieri invece fermi per non perdere la scena, col vassoio da un lato e il tovagliolo adagiato a cavallo dell’avambraccio dall’altro.
Era strana l’accondiscendenza degli automobilisti bloccati ai due lati della strada, evidentemente chi a quell’ora percorreva quell’itinerario sapeva esattamente che per una mezz’ora sarebbe stato bloccato: ci si affrettava ad andare prima, chi poteva partiva da casa mezz’ora dopo, altri prendevano una strada alternativa, ma se si capitava lì a quell’ora ci si rassegnava ad aspettare. Lo spettacolo aveva guadagnato altri spettatori: ormai molti pedoni si erano fermati anche se a debita distanza, e dai balconi si sporgevano donne che sbattevano tappeti giusto a quell’ora, pensionati che non volevano perdersi la scena, quasi che fosse una processione religiosa. L’azione stava raggiungendo il culmine della sua suspence… si erano intensificate le entrate e le uscite degli agenti armati… quando finalmente da quel portone uscì, protetto da due barriere di uomini armati, un piccolo uomo ancora assonnato che stringeva la sua valigetta portadocumenti… un uomo che in questo modo quotidianamente si recava ad adempiere al diritto-dovere sancito dal primo articolo della nostra costituzione: svolgere il proprio lavoro.
Sarà stato perché quando si aspetta un figlio si è più fragili e ci si lascia prendere più facilmente dalla commozione, ma quella mattina piansi. E giurai a me stessa che se quella barriera di protezione un giorno non avesse funzionato, se non fosse stata sufficiente a salvare la vita a quel piccolo uomo, perlomeno sarei dovuta andare ai suoi funerali.
Così quella umida mattina di fine maggio, insolitamente piovosa per la media stagionale siciliana, io e Maurizio decidemmo di prenderci una pausa dal lavoro, convinti di essere fra i pochi a partecipare ad un funerale a cui non si era costretti da obblighi di parentela o di amicizia personale. Ci eravamo portati due ombrelli e camminavano in silenzio per viale della Libertà senza renderci conto che la gente andava tutta in un’unica direzione, ognuna di queste persone aveva un ombrello in mano e la stessa nostra faccia, abbattuta e sconfitta. Neanche di questo facemmo caso. Girammo per via Emerico Amari solitamente trafficata di auto… questa volta la gente era tanta… a piedi… non c’era posto per tutti sul marciapiede e la folla continuava sull’asfalto stranamente povero di automobili.
Fu quando svoltammo per via Roma, che mi resi conto che tutti ci recavamo alla stessa funzione. Perché un centinaio di metri oltre, la barriera umana diventava impenetrabile e si era ancora molto, ma molto lontani dalla piazza della Chiesa di San Domenico, e piansi di nuovo come quella mattina al bar…
La nostra preoccupazione fu quella di trovare un pezzetto di spazio abbastanza vicino alla chiesa, per poter sentire qualcosa dell’omelia senza dovere essere strizzati dalla folla. Non fu possibile! Mancava ancora un po’ di tempo all’ora della funzione e mi chiedevo a che ora fossero giunti lì, tutti quelli che erano riusciti a sedersi nei gradini laterali della chiesa, o quelli che stavano aggrappati alla scultura al centro della piazza. Girammo da via Gagini ma neanche da lì si riusciva a penetrare, riuscimmo a sbucare di nuovo nella piazza, ci mettemmo sui gradini del marciapiede laterale di fronte la Vucciria. Salutavamo tanta gente che conoscevamo, ma non c’era nessuna voglia di scambiarsi convenevoli.
Si stava lì zitti e basta, aspettando che succedesse qualcosa. Gli accadimenti erano l’arrivo delle autorità con variabili di gradimento che si manifestavano in fischi o applausi. Ma ad un certo punto passarono dall’entrata principale, soltanto quelli che avevano condotto con buon esito il confronto con la propria coscienza, gli altri cercarono scorciatoie dal retro della chiesa. Non c’era neanche un presidente della Repubblica sulla cui identità si stava decidendo in quei giorni a camere unificate. La pioggia iniziò ad incalzare e divenne fitta, lenta ed inesorabile. Da quel momento infierì sulle nostre spalle, immergendoci in una umidità tropicale dove le lacrime non si vergognavano a scorrere come rigagnoli sui nostri volti.
… soffrivamo tutti in quella piazza… ma pagavamo il nostro tributo imbevendoci il corpo. Tutti stretti senza sentire un accidente di quello che succedeva dentro la chiesa, perché neanche gli altoparlanti avevano messo… pensavano che così ce ne saremmo tornati a casa. E invece noi siamo rimasti tutti lì, a sorbirci l’acqua, ad assuppare il corpo. C’era dietro di me Lina, l’anziana ex partigiana, sapevo che aveva il diabete e ad un punto della mattina vidi che mangiava dei crackers: era il suo orario di spuntino, non poteva farne a meno. Mi venne il terrore che potesse sentirsi male, in quel clima tanto torrido e umido da dare alla testa. Era la pioggia che in campagna, in Sicilia, si chiama assuppaviddano (la pioggia che imbeve il villano, che appunto intento a zappare non può difendersi da quei colpi che lo umiliano), e noi sopportavamo come il villano, che cos’era di più quella pioggia rispetto alla nostra rabbia?
Qualcuno iniziò ad aprire gli ombrelli, ma a quel punto ci si rese conto che questi ci avrebbero relegato in una condizione di maggiore isolamento, anche le bandiere furono ritirate… soprattutto per discrezione… gli orfani non portano bandiere! Neanche gli altoparlanti avevano messo, non si sentiva nulla… si stava zitti e ci si sentiva uniti. Eppure al funerale di Salvo Lima due mesi prima gli altoparlanti in quella stessa chiesa erano stati messi, anche se inutilmente, poiché i pochi accorsi avevano potuto accomodarsi tranquillamente sulle panche della chiesa.
E quando stavamo per tornare a casa, fradici, straziati… non ci volevamo più separare da quelle persone che avevano vissuto con noi quel momento di commozione, la cui maggior parte incontrate per la prima volta. Uscirono tutti dalla chiesa e si divisero i cortei funebri, tutte le autorità entrarono nelle loro auto blu e partirono accompagnati da scorte schiamazzanti, e quando nella piazza erano rimasti solo quelli disorientati come noi, scorsi il giudice Borsellino che riparava col suo ombrello una sorella del giudice Falcone… se li erano dimenticati lì…imboccammo la via Roma… la folla stentava a disperdersi, poi girammo da via Guardione e in via Wagner incrociammo la macchina funebre di uno degli agenti di scorta, con tutta la famiglia che mestamente camminava a passo d’uomo dietro quella bara. Accanto alla madre in nero, agli altri parenti… camminavano toccando l’automobile anche una mia amica con la figlia, probabilmente non conoscevano neanche quella gente… ma si erano mischiate a quel lutto… non certamente per invadenza… probabilmente si sentivano disperse e indugiavano a tornare a casa… non riuscivano a smettere di piangere, erano lì con loro, con i capelli bagnati di pioggia appiccicati addosso, completamente inzuppate…
Eravamo tutti orfani di quell’uomo, tutti figli di quella coppia sterile per prudenza, tutti padri, madri, fratelli, fidanzate, sorelle di quei giovani che erano morti.
Ero qui per scrivere di Elda. Mi sono fermata invece a leggere di Giovanni Falcone e di noi. La nostra è una terra strana. Spesso chi è in vita non è valorizzato, ci accorgiamo dell’unicità che abbiamo accanto solo quando non c’è più rimedio. Malgrado quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fossero morti annunciate già come ineluttabili, hanno toccato nel profondo ed aggregato noi gente comune. Ci si è riconosciuti, la lotta alla mafia è stata condivisa e abbiamo creduto che da ciascuno di noi dovesse nascere il cambiamento.
Ma la mia sensazione purtroppo è che a poco a poco ognuno sia tornato alle proprie faccende, gli sguardi si sono riabbassati, si è di nuovo miopi nell’osservare il nostro giardinetto senza più considerarci parte di una collettività.
La nostra città, ad esempio è uno sfacelo. Da tutti i punti di vista amministrativo, culturale, qualità della vita e in queste poche parole rientra tutto il disagio che ciascuno di noi affronta ogni giorno.
Vorrei accada ancora di riunirci in una piazza, invadendo le strade limitrofe per il desiderio di un cambiamento vero, di nuovo con l’entusiasmo e l’energia di mettersi in gioco in prima persona. Ma siamo spaesati, delusi, come tante monadi.
Che fare prima che, cinicamente, sia soltanto la commemorazione di un lutto così grave per tutti noi a farci incontrare?