Si inizia dalla sigla di apertura (un delitto saltarne certune e questa ne è un caso) in cui come nel finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni esplodono uno ad uno tutti i simboli del capitalismo, e quelli odierni sono rappresentati da laptop, TV con immagini di Trump e Putin, calici di costoso vino francese, Kelly Bags, scrivanie intarsiate; sul sottofondo una melodia da Mistero liturgico, prima assordantemente ritmata sulle esplosioni, poi tornata calma e rassicurante, per poi ricominciare.
E’ il Medioevo che incombe sul presente.
Sto descrivendo The Good Fight, una serie TV in tre stagioni (con una quarta in arrivo) nata come spin-off di una consimile, che sarebbe The Good Wife (prodotto decente e ben fatto, stancamente conclusosi nella sua settima stagione), insomma tutti gli ingredienti per impegnare per qualche sera i bulimici di serie TV, come me.
Invece no, c’è qualcos’altro: ci sono due autori, Robert e Michelle King, che hanno deciso di dar sfogo al proprio disagio, determinato dall’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti D’America, e hanno sfruttato questa strana occasione per abbandonarsi a un flusso di pensiero, intermezzatao dalla rabbia, dal desiderio di vendetta, soprattutto chiedendosi continuamente come siamo arrivati a tutto questo?
Da liberal le risposte le trovano da soli, giungendo a dolorose e lucide critiche sull’operato del Partito Democratico, ma guardando anche dentro sé stessi. La protagonista Diane Lockhart, interpretata da una bravissima Christine Baranski , sembra infatti un loro alter ego: avvocatessa WASP, benestante, formatasi in una Top University, che porta addosso i simboli della raffinatezza della sua classe, dalla cotonatura dei capelli, ai tacchi, ai tailleur; matura, non bellissima ma di grande fascino. La serie inizia sulla sua smorfia di fronte alle immagini TV dell’insediamento di Trump, e non è un banale riferimento storico, ma la nanarrazione dell’evoluzione di una ossessione.
Come tanti Democratici benestanti, Diane Lockhart sventola i propri principi, non volendo ammettere quanto le sue sicurezze derivino dal sistema economico capitalistico di stampo Repubblicano (ad esempio in una puntata scopre con piacere che il suo patrimonio è rifiorito grazie al sistema fiscale di Trump), prova nostalgia per un sistema che le si sta sgretolando sotto i piedi, quando poi inizia a sospettare che quel sistema conteneva già i virus della contemporaneità Trumpiana.
In fondo i democratici americani erano consapevoli di quanto l’opponente di Trump, Hilary Clinton, provenisse dal suo stesso background, però si nutrivano della favola di un capitalismo gestibile, garantito da quegli anticorpi personificati dalla costituzione e dal meccanismo di rinnovamento della classe dirigente offerto dai Top Colleges.
Invece Trump è stato eletto cogliendoli impreparati, e chi è impreparato reagisce goffamente, imprecando come Robert De Niro, oppure (sembra un vero sport) lanciando accette contro una parete come Diane Lockhart, che poi combina disastri cercando di combattere il nemico con le sue stesse armi. Tutto è vano e si sa che la fine stia arrivando, come in Babylon Berlin, ed è tardi , e si è troppo disorganizzati.
Così le tre stagioni viste finora sono un caos di stili e intenti, con siparietti retorici che ci delucidano sulle nuove strategie di manipolazione e sul miserrimo sistema corruttivo repubblicano, col racconto di verosimili effetti nefasti della politica Trumpiana, dalla guerra all’immigrazione alla violenza della polizia. Una narrazione patinata, che inizia con la rassicurante miscela di drama and humor, come fanno le altre serie TV di alto livello, ma che poi diventa grottesca e improbabile, immergendoti in un’angoscia cosmica che dovrebbe indurre lo spettatore a un voto consapevole nel 2020. Più che la qualità della serie TV mi ha incuriosito l’audacia con cui affronta certe tematiche dirimenti del mondo Trumpiano e globale, e anche il fatto che sia riuscita ad andare in onda senza (troppe) censure), probabilmente perché lo staff presidenziale si è solo soffermato a guardare i trailer.
Non si sono mai fatte rivoluzioni per mezzo di serie TV, però la gente passa molto tempo in loro compagnia, più che leggendo (purtroppo) o andando al cinema e a teatro.
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