Finché c’è pane c’è speranza

Il contagio è stato veloce e globale, dalla Sicilia ove la quarantena non ha mai impedito tre panificazioni tre al giorno, agli stati americani in cui il pane è un optional, ordinato a parte nei ristoranti: un messaggio subliminale ha pervaso il pianeta affondando mani di adulti e bambini in impasti più o meno appiccicosi, secondo la riuscita della ricetta, provocando alla prima settimana di reclusione la sparizione del lievito di birra dagli scaffali dei supermercati.

Vabbè… abbiamo esagerato, ma la smania non è passata e piuttosto che scoraggiarsi qualcuno si è ricordato che in casa si può anche produrre il lievito madre, termine arcaico e solenne che risponde all’improvviso bisogno di autosufficienza. Del resto stiamo tutti in casa e dodici ore di fermentazione fra un rinfresco e l’altro non ci spaventano.

I risultati sono magnifici, testimoniati da fotografie appetitose postate sui social network. Confesso di aver pubblicato le mie proprio ieri, notandovi anche un approfondito dibattito sui vari procedimenti di lievitazione.

Ma perché il pane fatto in casa è diventato uno dei simboli della tragedia Covid 19? Qual è stato il processo mentale che ha collegato l’emergenza con l’approvviggionamento del pane? Il desiderio di coccole, il rimando a un familismo affettuoso, un ritorno alle origini?

In realtà il pane simboleggia il cibo, tanto che molte sono state le proteste di piazza che invocavano il pane, al punto che Maria Antonietta se ne uscì con l’infelice battuta “che mangino brioche!”.

A Palermo nel dopoguerra ci fu la strage del pane, in cui le milizie Sabaude spararono su una popolazione inerme che chiedeva il pane, cioè il cibo, cioè il livello minimo di sussistenza, un popolo che aveva passato anni di guerra con un pane nero, elastico e ammuffito e per il quale lo sbarco degli americani aveva significato la distribuzione di pane bianco.

Di solo pane si potrebbe sopravvivere, anche se “non si vive di solo pane”, e nelle preghiere si invoca “il nostro pane quotidiano”, e a questo riguardo noto che il pane è soggetto di innumerevoli proverbi e modi di dire. Sarà per questo che il pane fatto in casa acquista un’aura di romanticismo, personificando il concetto di autosufficienza.

Io stessa, da bambina, ho artefatto la narrazione sulla vita autarchica dei guardiani del faro di Capo Zafferano, attribuendo loro una panificazione settimanale che in realtà non rispondeva a verità, questo l’ho saputo giorni fa quando ho finalmente conosciuto la figlia del farista.

Ma vedo che non sono la sola a dare un significato epico alla panificazione casalinga, dato che la sparizione del lievito di birra è un fatto quasi globale, addirittura tale comportamento ha creato due fronti di reazione all’emergenza coronavirus; da un lato romantici panificatori al motto “il virus ci renderà migliori”, dall’altro coloro che come Lucariello in “Natale in casa Cupiello” buttano all’aria il presepe urlando: “col cazzo che andrà tutto bene, io il pane non lo voglio fare, e non voglio cucire mascherine o lavorare coperte all’uncinetto, e non riesco neanche leggere un libro e a concentrarmi su qualcosa che non sia la vita che rivoglio indietro!”

Li comprendo e li rispetto, e quasi mi sento in colpa per le foto del mio pane.

In realtà dovrei sentirmi in colpa col panettiere sotto casa, il cui sguardo incrocio ogni pomeriggio uscendo in terrazza a prendere un pò d’aria. Comprendo dai suoi occhi la domanda: – “perchè mi fai questo? Io ho dovuto tenere la bottega aperta continuando a pagare i miei dipendenti, in fondo il pane ero disposto a portartelo a casa anche due volte al giorno.”

E io, cosa dovrei rispondere… – “scusa Riccardo, stavo solo cercando di dimostrare a me stessa che ce la posso fare.”

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