
Questo capitolo è letto da Lorenzo Davì:
Venerdì 14 maggio 2004, un appartamento al secondo piano di un palazzo degli anni trenta in via XX Settembre.
Tanti anni di letture femministe non erano riusciti a consegnare a Elda una stanza tutta per sé. Ora sedeva alla scrivania dello studio di Pietro, stanza in cui lui non stava mai. Da quando aveva smesso di lavorare al giornale del pomeriggio, Elda si compiaceva di quella commistione di antichi codici civili e timidissimi tocchi di delicatezza femminile di cui era stata capace soltanto in tarda età. I nipotini tanto fotografati e i loro colorati disegni, guadagnavano posto nelle pesanti librerie stile quattrocento fiorentino, ricche degli antichi prodotti di raffinate botteghe di legatoria e stridevano con i pesanti intagli del legno, ricordando a Elda che non è mai troppo tardi per lasciarsi andare ai sentimenti. La stanza era essenzialmente un’enorme biblioteca ma lo stesso non riusciva a contenere tutti i volumi presenti in casa. Poggiato su di un anonimo tavolino stava un computer, che da qualche anno aveva imparato a usare con l’aiuto del figlio Dario. C’era poi, orfana della sua vecchia Olivetti, una grande scrivania molto utile per stendere per intero i quotidiani e leggerli in tutta comodità, come era stata sua abitudine quando lavorava al giornale.
Quella mattina Pietro aveva letto i quotidiani molto presto mentre prendeva il the, nel tempo in cui lei stava tagliando i pomidoro da mettere sul fuoco. Avrebbero continuato la loro cottura lentamente, consentendo a lei di leggere i giornali, ordinare il pesce per telefono e mettere in ordine la casa. Nonostante i numerosi impegni della giornata non avrebbe mai rinunziato alla lettura dei quotidiani, in casa se ne compravano almeno quattro e la loro consultazione impiegava un tempo considerevole: ancora gli orrori del carcere di Abu Ghraib!
Elda non condivideva l’ostinazione di Pietro nell’inserire nel gruppo un certo giornale locale, antagonista storico di quello in cui loro avevano lavorato tanti anni, ma trovandoselo ogni mattina fra le mani finiva col dargli una rapida scorsa. Ora poi aveva l’impressione che quella testata del mattino stesse tornando a diventare l’organo ufficiale di una provinciale Italietta, insopportabile e tremendamente simile a com’era stato prima dell’ultima guerra. Le pagine politiche sembravano riportate da giornali nazionali filo-governativi. La cronaca nera narrava di banali misfatti, dando per scontato che con la mafia si dovesse convivere, per il resto il giornale dipingeva una felice società di gaudenti, quando alla fine ci si scatenava nella cronaca mondana dove campeggiava una rubrica di largo gradimento. Elda scorreva tutti i fogli leggendo appena i titoli e arrivava rapidamente all’unica pagina che offriva un servizio alla comunità: quella dei necrologi. Come sempre in alcuni casi, “la città che conta” stava stringendosi attorno alla famiglia di un suo illustre rappresentante, un aristocratico, o un massone, o un aristocratico massone. Lo si capiva dal gruppetto centrale di nomenclatura in grassetto, all’interno di ogni necrologio, che si ripeteva uguale per due intere pagine. Gli occhi di Elda scivolarono sui caratteri solenni con la consueta dose di indifferenza, quando mettendo a fuoco lo sguardo comparve un nome che le ferì il cuore: era morto Augusto.
Provò vergogna per il distacco con cui un momento prima aveva accolto tanto cordoglio, considerando che quei titoli nobiliari avrebbero potuto seguire il suo esotico nome di battesimo. Quella morte la tirava indietro di sessant’anni, supplicandola almeno di prenderla in considerazione, questo lei lo doveva, dopo tutto quello che era successo, dopo avere imposto a quella persona delle scelte per lui incomprensibili. Adesso non c’era più nessuno al mondo che le avrebbe potuto ricordare quel soggiorno sulle Madonie, la vita pigra e pavida di allora e l’assurdo fidanzamento. Aveva l’occasione di porre un macigno su una vicenda della sua vita che non le piaceva, che l’aveva insidiata ogni volta che un piccolo indizio era saltato fuori all’improvviso, invece ebbe desiderio di ricordare, finalmente.
Gli avvenimenti erano incalzati nel travagliato 1943, l’anno che aveva cambiato la sua vita come quella di un’intera regione. Adesso che era anziana Elda poteva affermare senza sospetto d’immodestia che nel ‘43 lei era una graziosa ragazza di diciotto anni.

Di quel periodo non aveva nessuna fotografia, non se ne facevano volentieri in tempo di guerra, ce ne era invece una di quattro anni prima e da quella era facile intuire perché il giovane rampollo di una famiglia aristocratica si fosse innamorato di lei. Elda aveva avuto una nonna veneta che aveva introdotto in famiglia colori inusuali in Sicilia. In una regione dove predomina il ceppo arabo ispanico, una ragazza bionda e con gli occhi azzurri è considerata in ogni caso una rarità esotica.

Elda si girò verso lo scaffale e prese in mano quella fotografia, ingrandendo con lo sguardo la sua grana grigia e liberando il sorriso della ragazza dalla sua cornice. Quel giorno compiva quindici anni ed era sulla spiaggia di Mondello, si ricordava del verde della sua gonna anche se la fotografia non la mostrava, si ricordava della camicetta bianca con le maniche a palloncino, si ricordava dei suoi capelli biondi e dei piccoli pettini che li trattenevano dietro le orecchie per far ricadere i riccioli sulle spalle. C’era voluta una guerra e tante sferzate di vento sulla sua coscienza, perché la ragazza mettesse a frutto la propria intelligenza, iniziando a capire il mondo intorno a sé.
Elda si era trovata molte volte a riflettere sullo stile di vita anteguerra dei suoi genitori, e aveva dovuto concludere che essi potevano riassumere letteralmente la parola snob: sine nobiltate, medio borghesi che col proprio aplomb cercavano di confondersi in ambienti aristocratici cui non appartenevano, usando bellezza ed eleganza e suggerendo tacitamente a Elda di fare lo stesso. Nell’uno e nell’altro caso, invece, la bellezza era stata la condanna che aveva creato stupidi equivoci, mettendo in ombra qualità migliori in ognuno di loro.
Alle soglie dei suoi ottant’anni era invece giunto il momento di capire le fasi alterne della sua vita, i suoi cambiamenti improvvisi e le sue prese di posizione estreme, senza pudori e con la giusta dose di autocritica. Poteva riabilitare la ragazza di quella fotografia così come la guerra era riuscita a riabilitare i suoi genitori e un’intera nazione, creando uno spartiacque fra un prima e un dopo in cui ognuno si era trovato diverso e non sempre in peggio.
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