Elda cap.45, Le botte

Una sera di febbraio del 1971 Davide, accompagnato a casa in automobile dai compagni dopo una riunione in federazione, vide suo fratello Emanuele posteggiare all’angolo il maggiolino di famiglia, lo aspettò per alcuni minuti e fu un errore e lo fu ancora di più perdere altri istanti nell’afferrare dal pacchetto la sigaretta che Emanuele gli aveva offerto: la direttiva fra i gruppi di giovani di sinistra era quella di non sostare mai da soli per strada la sera, per evitare i raid fascisti. Quando videro due automobili appena parcheggiate da cui fuoriuscivano dodici energumeni armati di spranghe di ferro, purtroppo non fecero in tempo ad aprire il portone.

Non era certo a chi dei due fosse indirizzato il pestaggio ma di sicuro il caso di essere insieme riuscì a evitare il peggio, anche se lo spettacolo che si offrì alla vista della loro madre dalla finestra fu straziante: Davide aveva la testa fracassata e giaceva in un lago di sangue, mentre Emanuele urlava a perdifiato reggendo un braccio disarticolato e senza riuscire a rialzarsi in piedi. Le urla di Ottavia fecero aprire altre finestre e misero in fuga gli aggressori, lei poi si fiondò per strada dove poco dopo accorsero Pietro ed Elda, che nel frattempo avevano telefonato alla polizia e al servizio ambulanze. Al pronto soccorso Davide stentava a riprendere conoscenza, mentre i medici comunicavano che Emanuele doveva essere operato per l’asportazione della milza.

Pietro cercava disperatamente di avvertire suo fratello dal telefono a gettoni dell’ospedale mentre Elda, nei corridoi del pronto soccorso, si occupava di Ottavia in preda a uno stato di  shock, assolutamente comprensibile. Emma non era potuta entrare e stava in macchina, impietrita, con Dario e Ruggero che non sapevano come consolarla. Per fortuna la nonna, già un po’ sorda, non aveva sentito niente e aveva continuato a dormire nel suo letto.

Ignazio non riuscì ad arrivare in tempo per l’operazione di Emanuele, che si dovette eseguire di urgenza durante la notte. Fuori dalla camera operatoria stavano Ottavia ed Elda mentre Pietro divideva la sua assistenza fra Emma e Davide, che riprendeva conoscenza e chiedeva notizie di suo fratello.

“Era il momento di andare a Roma…” – diceva Ottavia

“Ma che dici? Ma quando mai s’è posto il caso di un vostro trasferimento?”

“Ma non lo capisci? I ragazzi sono sbandati, non si danno materie all’università, io non riesco a occuparmene.”

“Ma che credi? A Roma avrebbero fatto comunque politica. Ti sembra che il clima lì sia più calmo?”

“Sì, ma lì c’è loro padre, avrei dovuto riunire la famiglia da tanto tempo, iscriverli lì all’università.”

“Ottavia sei ti vuoi flagellare fai pure, ti sembra questo il modo affrontare il momento? I medici dicono che comunque Emanuele avrà una vita normale, cerchiamo di fare quadrato attorno ai ragazzi, dargli serenità, siamo una famiglia per questo.”

Ottavia continuava a piangere fissando il vuoto.

“Io devo cambiare, questo è un segno, io devo portare i ragazzi a Roma, devo riunire la famiglia”

L’arrivo di Ignazio al mattino fu una benedizione, Ottavia gli si abbandonò fra le braccia singhiozzando e si unì anche Emma, che solo alla vista di suo padre riuscì a sciogliersi.

Le luci dell’alba avevano comunque portato una certa normalizzazione, l’operazione di Emanuele era andata bene, Davide aveva la faccia tumefatta e la testa fasciata come un bozzolo, però era cosciente.

Era arrivato il giudice che aveva aperto un’inchiesta per tentato omicidio contro ignoti, il loro giornale aveva già coperto la notizia e si apprestava a una edizione straordinaria, erano arrivati anche i redattori del giornale del mattino e quelli della sede regionale della RAI. Nei corridoi dell’ospedale iniziavano ad affollarsi compagni di partito, della FGCI, del gruppo di Emanuele che ora si definiva Marxista-Leninista e del gruppo del Manifesto, c’erano poi amici e compagni di scuola e una ragazza alta con i capelli lunghi neri che chiedeva di vedere Davide e non si arrendeva di fronte alle proibizioni dei medici, Ottavia le si avvicinò mentre guardava fuori da una finestra.

“Sono la mamma di Davide, vedrò se in giornata sarà possibile accompagnarti da lui, nel frattempo gli dico che sei qui, come ti chiami?”

“Maddalena”

  Davanti alle scuole e alle facoltà si formarono cortei spontanei in reazione all’aggressione e nel pomeriggio si svolse un attivo inter-studentesco straordinario alla facoltà di Fisica, a cui parteciparono anche Dario ed Emma, ormai liceali; attorno a  quest’ultima si affollarono molti studenti che le chiedevano notizie dei suoi fratelli, dandole pacche sulle spalle in segno di solidarietà.

A Emma sembrava di sognare, per la prima volta non si urlava in aula e non c’erano scherni e derisioni fra quelli della FGCI, quelli del Manifesto e quelli di Lotta Continua. Gli antagonisti di suo fratello Davide ora parlavano di lui con deferenza e quella tragedia stava provocando l’effimera magia di una concordia fra i vari gruppi.

Ignazio promise a Ottavia che sarebbe rimasto fino a che l’intera famiglia si fosse ripresa. I due fratelli ebbero l’esclusiva di una stanza doppia dell’ospedale che all’orario delle visite si riempiva di ragazzi; la compagnia li stonava, ma quando restavano da soli rivedevano sempre la stessa scena: Emanuele aveva sonni popolati da incubi, Davide si chiedeva come sarebbe riuscito a circolare da solo nelle strade buie. L’ispettore di polizia promise delle misure di sorveglianza ma quello che si notò fu l’infittirsi delle intercettazioni telefoniche, che già duravano da quando si era fatta richiesta di utenza nei due appartamenti del secondo piano. Tre giorni dopo l’incidente, Emma si arrabbiò nel sentire al ricevitore il fiatone dell’appuntato mentre raccontava a un’amica di essersi alzata mezza nuda quella notte alle grida di sua madre:

“Maniaco schifoso metti giù il telefono!”

Dopo il ricovero ospedaliero Emanuele aveva davanti a sé una convalescenza complicata, ci voleva tempo per abituarsi a vivere senza milza e nel frattempo era sempre stanco. Ignazio lo accompagnava nelle visite di controllo rendendosi conto delle barriere, dei rancori e dei vuoti che si erano accumulati fra di loro e si accorgeva anche del carattere singolare di suo figlio: intelligentissimo, geniale, ma capace di strane ingenuità, non soltanto per quanto riguardava la politica, ma anche nei rapporti con le persone. Le sue battute erano spesso di una freddezza disarmante, anche se spiritosissime; diceva quello che gli passava per la mente senza curarsi di ferire le persone che gli stavano accanto. Aveva una ragazza che sembrava trattare malissimo. Nelle anticamere del medico conduceva le loro conversazioni verso argomenti scientifici e astratti che lui padroneggiava con estrema facilità e in cui Ignazio faticava a dirimersi. A quest’ultimo sembrava di camminare sulle uova, perché capiva che in prospettiva di una vita da prendere con cautela (per via di una salute improvvisamente diventata delicata), il cervello di suo figlio sarebbe potuto andare a ramengo senza degli interlocutori che fossero alla sua altezza. Iniziò a chiedersi se fosse quello il motivo dell’improvvisa disaffezione di Emanuele agli studi universitari. Fu una di quelle intuizioni alle quali certe volte i genitori arrivano per istinto, magari guidati da inconfessabili sensi di colpa. Ignazio si lasciò guidare da queste conversazioni, fino a che fu naturale chiedere a suo figlio se avesse ambizioni diverse da quelle della facoltà di ingegneria dell’Università di Palermo. Emanuele ne fu sorpreso e iniziò fra di loro una complicità che guadagnava piccoli spazi nel monolitico rapporto che Ottavia aveva instaurato col figlio maggiore. La conclusione fu il trasferimento di quest’ultimo al Politecnico di Torino.

Inizialmente Ottavia non riusciva a farsi una ragione dell’allontanamento del suo principale sostegno affettivo, ma questo avveniva insieme a un progressivo radicamento fra le pareti domestiche di Ignazio, con cui ritrovava un’intesa e delle abitudini che aveva dimenticato da tempo. Così ripropose il suo progetto di trasferimento della famiglia a Roma, questa volta in modo sereno e articolato. Lei avrebbe potuto lavorare a Paese Sera, Davide poteva iscriversi alla Sapienza, Emma al liceo Tasso, bastava trovare una casa carina, magari in centro, affittare quella di Palermo e scendere d’estate direttamente in campagna.

Elda non ne fu molto contenta, certo era felice nel vedere i suoi cognati tanto uniti, ma le pesava separarsi da Ottavia e poi i ragazzi erano cresciuti insieme.

Ignazio accolse il programma di Ottavia come un regalo insperato, Emma come un’occasione che le avrebbe aperto gli orizzonti, Davide fu decisamente contrario.

Emanuele si trasferì a Torino nell’autunno successivo mentre i progetti della sua famiglia seguivano degli alti e bassi, Davide chiedeva di restare, anche a costo di andare a vivere con la nonna, Emma faceva tanti progetti che poi si scontravano con la paura di affrontare da sola un liceo sconosciuto, separarsi dai suoi amici e soprattutto da Dario, poi in estate era nato un amoretto con un ragazzo più grande di tre anni e questo rimetteva tutto in discussione.

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

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