Una questione di genere

Dagli anni sessanta del secolo scorso, le donne si sono progressivamente imposte nel mondo del lavoro, misurandosi anche in mestieri e professioni in precedenza considerati non consoni alla presunta “fragilità” femminile. Tranne che in alcune facoltà, adesso sono le ragazze ad affollare in maggioranza le aule universitarie e terminare con profitto gli studi.

Un processo che agli inizi sembrava destinato a non incontrare ostacoli, ma che a cinquant’anni di distanza registra nuove e vecchie resistenze, sia nella sfera privata che in quella pubblica, oltre a un cambio di strategia del sistema capitalistico, che dal considerare le donne delle consumatrici, è passato a sfruttarle come forza lavoro a basso costo. Sarà che le donne hanno meno forza contrattuale, però succede che non appena si impongano in una professione, addirittura strappandone il monopolio, di conseguenza l’autorevolezza di quel mestiere viene sminuita, tanto che da ben remunerato diventa malpagato: ne sono esempi il lavoro operaio come l’insegnamento. E come se non bastasse, resta latente la tendenza a relegare le donne al proprio ruolo di cura anche quando riescono ad accedere a professioni molto prestigiose: il tribunale dei minori per le donne magistrato, la pediatria o la ginecologia per le donne medico.

In questo contesto si inserisce il dibattito sull’opportunità di coniugare al femminile i nomi di tutte le professioni che io, devo confessarlo, ritengo fuorviante. È già triste constatare come, nel trasformare il nome della stessa professione dal maschile al femminile, si verifichi una differenza di significato, un “cuoco” lo immaginiamo dirigere un ristorante stellato, una “cuoca” fra i fornelli di casa o al massimo di una mensa scolastica; e così il “maestro” è un pittore, un regista o un grande attore, mentre la “maestra” ci ricorda la scuola elementare, per “sarto” vediamo Dior o Shubert, per “sarta” immaginiamo una lavorante di sartoria, e così via.

Quindi comprendo la ritrosia di chi, avendo faticato a conquistare una professione prestigiosa, abbia il timore che declinandone al femminile il nome, possa essere percepita come meno autorevole. I rischi ci sono tutti, e lo si vede quotidinamente nella denigrazione cui sono soggette le donne nell’esercizio del proprio ruolo di potere. Come se “Commissario”, “Ministro”, “Magistrato” o “Prefetto”, siano delle parole d’ordine per zittire lo scetticismo dei sottoposti. Non è affatto consolante che le donne necessitino di queste conferme, ma piuttosto che arenarci sul dettaglio linguistico mi sembra prioritario combattere i pregiudizi che stanno a monte.

Forse l’errore sta nella nostra lingua, che ha coniato al maschile i nomi delle professioni per poi proporre la variazione di desinenza man mano che le donne ne avevano accesso. Forse bisognerebbe seguire il corso delle cose prima di imporre su tutti le desinenze a, trice o essa; anche perché esistono professioni che non terminano nell’o maschile, come artista, pilota, anestesita o astronauta, dovremmo cambiarli in astronautessa e così via? In realtà basterebbe considerare i nomi delle professioni come neutri, una desinenza o l’altra poco importa, anche perché sappiamo che i generi sono più di due e non vogliamo lasciare nessuno escluso.

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