Il diritto alla gioia di scrivere, e pubblicare

Da un po’ di giorni gira in rete una classifica nomisma che rivela che il 30 percento dei libri pubblicati non vende neanche una copia e il pensiero di tanti inspiegabilmente si posa su quello che viene definito self-vanity, cioè il fenomeno per cui una massa sempre più crescente di scriventi sceglie l’auto-pubblicazione che, vorrei precisare, non comporta alcuno spreco di carta, in quanto si basa sul printing on demand (stampare solo le copie già vendute) e l’e-Book.

Allora, a chi nuoce questo fenomeno? Perché autori, recensori e case editrici ne hanno tanta paura?

Nel self publishing trovi di tutto, da robaccia mal scritta e per nulla editata a prodotti degni di una importante casa editrice, in prevalenza si tratta di generi letterari che io non leggo ma non stigmatizzo, come romance, fantasy, young adult e horror, ma c’è anche dell’altro.

Quello che invece ho constatato di persona, nella mia recente partecipazione alla libreria self del Salone del libro di Torino, è un fenomeno che raramente trovi nell’editoria mainstream: c’è gente che scrive come unico mestiere raggiungendo il sogno di ogni autore, chi addirittura ci campa tre figli e rifiuta offerte da parte di grandi gruppi editoriali, perché economicamente meno vantaggiose. E il rifiuto di una casa editrice può anche avere altre implicazioni, come voler scegliere la tempistica della pubblicazione o la volontà di non andare fuori catalogo dopo solo un anno dal lancio. Di sicuro gli autopubblicati sfatano un tabù radicato nel tempo: svelare il numero di copie vendute (e non si tratta di tre copie, perché le 10000 l’anno si superano spesso) mentre è difficile sapere quanto vendono certi titoli molto recensiti.

Io resto dell’avviso che un buon editore sia il giusto completamento di un talento letterario, ma attenzione a stigmatizzare comportamenti che non si conoscono o non si capiscono.

Ognuno a questo mondo ha diritto al perseguimento della propria felicità.

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