Si tratta di un stranissima coincidenza, ma sembra che quando descrivevo nei minimi particolari la degenza in un tubercolosario di Rita, la protagonista del mio romanzo Le Cicatrici d’oro, io avessi dentro di me un infinitesimale Mycrobacterium tubercolosis, chiamato comunemente bacillo di Koch. Non ho sviluppato la malattia e non sono contagiosa, ma probabilmente lui vive nel mio corpo da anni, forse decenni, forse da sempre, creando quella che tecnicamente viene chiamata tubercolosi latente.
Me ne sono accorta con il test quantiferon che invero ha dato una positività bassa, un test che le persone normali non hanno bisogno di fare, perché dice solamente che un terzo della popolazione convive col bacillo di Koch, che però attiva la tubercolosi solo nel 5-15% dei casi e non richiede profilassi, a meno non si sia come me, immuno-depressa e bisognosa di una specifica terapia biologica per l’artrite reumatoide che molto probabilmente attiverebbe la tubercolosi.
“Ha mai avuto contatti con persone ammalate di tubercolosi?”
“No, so solo che mio padre stette in sanatorio prima che io nascessi, ma ne guarì completamente.”
“Potrebbe venire da lui.”
Ecco che ritornano le montagne della Valtellina, non quelle di Rita personaggio immaginario, ma quelle del mio papà a cui ho voluto ispirarmi per il suo soggiorno in sanatorio.
In realtà so praticamente nulla della vicenda che lo ha riguardato, perché dopo la guarigione lui la nascose in un angolo talmente remoto della memoria da non saltare fuori neanche quando la demenza senile lo convinse di avere l’età giovanile in cui s’era ammalato.
Ne parlò brevemente a mia madre quando le chiese di sposarlo, giusto per mettere le cose in chiaro, in un’epoca e in un contesto in cui tale malattia significava pericolo e stigma sociale. A quanto pare visse nel terrore di poter trasmettere il bacillo a me e mio fratello, cosa che con le certezze mediche seguite alla scoperta della penicillina sembrava impossibile.
S’era ammalato alla fine degli anni quaranta quando ancora la penicillina non era arrivata in Italia, tanto che la cura che gli imposero in sanatorio fu quella dello pneumotorace artificiale, tecnica dolorosissima che ho studiato a fondo per poterla descrivere ne “Le Cicatrici d’oro”. So quindi che soffrì molto e, da quello che mi riferì mia madre, mise a punto una tecnica per sopportare il dolore che consisteva nel silenzio e nell’immobilità.

Non so come scoprì di essere ammalato e probabilmente i suoi genitori lo diedero per spacciato, ma è comprensibile dal momento che mio nonno aveva perso parte dei suoi 17 fratelli a causa della tubercolosi.
Dai pochi dettagli raccontati da mia madre so che, poco più che ventenne, papà partì da solo per un sanatorio della Valtellina (forse il Villaggio Morelli a Sondalo) dove restò per più di un anno, lasciando a Palermo la sua giovinezza, il suo impegno nel partito Comunista, l’imminenza di aprire uno studio legale, il suo amore di allora, i suoi amici. Solo Gianni e Orietta Guaita lo sostennero a distanza e poi passarono con lui la convalescenza in una casetta nella pineta di Linguaglossa, sull’Etna, superando la paura del contagio per il loro piccolo Enrico.

Da quando mia madre ha raccontato in segreto questa storia, confesso di essere stata attratta da tutta la letteratura che riguarda la tubercolosi: dalla Montagna magica di Thomas Mann a La Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, passando per Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, La Signora delle Camelie di Dumas e per pellicole come Una breve vacanza di Vittorio De Sica (ambientato nel Villaggio Morelli) o un film turco, bellissimo, di cui non ricordo il titolo e che narra di due giovani poeti che muoiono chiusi in una stanza riempiendo le pareti di poesie vergate a carboncino.
I pochi indizi lasciati da mio padre riguardano invece alcune fotografie di vette alpine innevate, ma ne sviluppò solo i negativi senza mai stamparle su carta, chissà qualcuno potesse capire. E quando negli anni novanta andammo sulle Alpi con le bambine, e io e lui ci inerpicavamo in lunghe passeggiate, neanche in quel caso si tradì raccontando le sue escursioni giovanili.
Anche del soggiorno nella pineta di Lingaglossa vi sono testimonianze in negativi fotografici: una casa di legno, la lunga sequenza della creazione di una carbonaia, Gianni e Orietta col loro figlioletto in tante pose, anche quelle mai stampate su carta.
L’unica cosa che adesso collego a quella vicenda è il suo amore per le pinete, probabilmente provenienti dall’effetto salvifico di quelle di Sortenna e Linguaglossa, al punto che nei suoi trent’anni, appena acquistato il terreno di Capo Zafferano, si accordò con le guardie Forestali per piantumare un’infinità di pini d’Aleppo, una varietà nostrana molto rustica e dissimile da quella alpina, che i miei familiari odiano per l’infestazione di aghi secchi e l’invasività delle radici.
Ma io capisco il significato di quei pini storti e informi, che gravano sulle costruzioni costringendoci ad abbatterli a poco a poco, penso all’odore di pino bagnato delle prime piogge d’agosto, che dovevano riportarlo con dolcezza a quell’esperienza che non poteva raccontare.
E rifletto su come deve aver passato quell’anno e mezzo, quali amicizie sincere passeggiando in pineta, quali paure, quali condivisioni della sofferenza, quale cambiamento del suo carattere giovanile, quante tristissime perdite. E penso che la letteratura del sanatorio sia solo una piccola parte di ciò che si sarebbe potuto scrivere, se solo la maggior parte degli ammalati avesse avuto il coraggio di confessare.
Ho inserito la vicenda della tubercolosi nel mio romanzo perché era la cicatrice migliore da raccontare, quella che avrebbe giustificato una sentenza di annullamento di matrimonio, ma poi ho capito che quella storia mi cercava e io volevo raccontarla, per empatia con il mio papà, per capire quanto avesse sofferto.
Del resto quella vicenda mi accompagnava da anni nel suo atteggiamento stoico nei confronti di una qualsiasi malattia, comportamento che aveva trasmesso anche a me e mio fratello; perché mentre i nonnulla di mia madre venivano vissuti col pathos della tragedia greca, con visite di amici e parenti e telefonate a mezza città; mio padre, io e mio fratello da malati disdegnavamo il letto, ci vestivamo di tutto punto con trentotto di febbre e al più chiudevamo gli occhi in silenzio mentre stavamo rigidi in poltrona.
E quando mi sono ammalata di artrite reumatoide è stato quello stesso stoicismo ad aiutarmi, chiudendomi in me stessa fra paura e tremendi dolori, che tanto nessuno avrebbe mai capito come stavo. Neanche lì, vedendomi soffrire, mio padre ebbe il coraggio di tradirsi, magari per dirmi che sapeva cosa provassi, che anche lui alla mia età aveva tanto sofferto.
Sono stati gli effetti di uno stigma che con comprendevo, non condividevo e ritenevo legato a un passato oscurantista quando poi, giusto dopo aver scritto Le Cicatrici d’oro, ho dovuto constatare il suo ritorno a gamba tesa ai tempi della pandemia da covid 19, altra strana coincidenza.
Ed eccomi quì adesso, in procinto di iniziare una chemioterapia preventiva antitubercolare che durerà nove mesi, che mi sposserà e forse mi porterà sul punto di abbandonare la cura, ma che devo assolutamente sopportare, altrimenti non potrò trattare col farmaco biologico l’artrite reumatoide che diventa sempre più severa.
Ce la farò, papà, ce la farò perché tu hai affrontato di peggio nei tuoi vent’anni.