Vivi Villa Trabia 3

Parte 3

Compra Vivi Villa Trabia, una battaglia civile nella nuova versione illustrata

Così cominciammo a rimuginare la nostra idea di fare della casena un centro culturale polifunzionale; Palermo aveva bisogno di poli aggregativi dove identificarsi con la cosa pubblica. Per me la biblioteca era stata fin dai tempi in cui studiavo a Firenze un rifugio sicuro, un posto dove rilassarsi e meditare, a Palermo la situazione delle biblioteche pubbliche è disastrosa! E poi sarebbe stato bello un luogo dove ognuno potesse avere una cosa da fare, una specie di casa comune: quindi l’emeroteca, la videoteca, la sala di ascolto per la musica, oltre alla biblioteca e alla ludoteca, e magari d’estate le orchestrine che suonano sotto i lampioni e le persone sedute a sorseggiare un tè.

Sognare è una cosa bella e non costa nulla, quante volte ci si ritrova a programmare nei minimi particolari un trasloco in una casa più bella o un viaggio tanto desiderato, poi si torna nella realtà, ma intanto è trascorsa una bella mezz’ora.

Leoluca Orlando, Emilio Arcuri, Letizia Battaglia e altri membri della giunta chiamata “Primavera di Palermo”

Per noi questa mezz’ora durava già da tanto; quando una volta esponemmo il nostro programma ad una riunione sulla vivibilità del quartiere al «Movimento per la democrazia La Rete», ci guardarono tutti perplessi come se fossimo un po’ toccate, allora Anna se ne uscì con un «coup de théatre» che resterà per noi memorabile: «Scusate questo non è il movimento fondato da Leoluca Orlando? E Orlando non dice sempre: «Io ho un sogno»? Un sogno di una città migliore? E allora perché non deve essere permesso anche a noi sognare? Anche noi stiamo parlando di rendere migliore la nostra città».

Orlando, ai tempi della sua prima esperienza di governo, aveva preso a prestito da Martin Luther King questa frase, per ridare speranza ad una città ripetutamente offesa e aveva aperto uno spiraglio. Quella prima «primavera di Palermo» dopo decenni di sudditanza al potere politico di Lima e Ciancimino costitui­va una vera e propria rivoluzione. Che la Democrazia Cristiana potesse partorire a Palermo un sindaco illuminato, colto, garbato e in lotta aperta col potere mafioso era un fatto senza precedenti. Era un po’ quello che era successo in Unione Sovietica ai tempi di Gorbaciov: una battaglia di normalizzazione combattuta all’interno del sistema. Non si poteva sperare in molto di più. E poi era iniziata la sfida: quella contro il tempo e contro la morte. Si aggiungevano mesi di resistenza senza che la giunta Orlando cadesse e senza che questi venisse ucciso dalla mafia. Addirittura avevamo visto i primi assessori comunisti, e la città si svegliava qua e là con iniziative comunali per noi sorprendenti: asili nido, primi esempi di ristrutturazione del centro storico, ripristino di aree verdi. Orlando sfidava la morte andando dovunque, il contatto con la gente lo rendeva un eroe immortale. Tutto veniva fatto in fretta, bisognava scrivere la storia di quel governo prima che cadesse, così gli si perdonava una programmazione fatta a braccio: non si sarebbe potuto fare altrimenti.

E giunse infine a Palermo Andreotti e lo fece fuori in due giorni.

Leoluca Orlando fonda “La Rete”

Il sogno era durato anche troppo, ma noi non volevamo risvegliarci. Acquistammo in tanti una pagina sul «Giornale di Sicilia» per manifestare la nostra protesta, e quando Orlando alle elezioni comunali che seguirono si ripresentò come candidato, ottenne settantunmila voti: anche quelli di chi, turandosi il naso, stava per la prima volta votando DC, e purtroppo fu inutile. Allora Orlando andò via dalla Democrazia Cristiana e fondò il «Movimento per la democrazia la Rete», vi aderirono in gran parte cattolici, ma anche alcuni fuoriusciti dal PCI. A quel punto la scommessa era di far risalire su quella poltrona di sindaco Leoluca Orlando, bisognava portare a compimento quell’esperienza bruscamente interrotta, dare la possibilità a lui e alla sinistra di governare con un programma preciso e senza la precarietà che li aveva accompagnati la prima volta. Quei settantunmila voti avevano fatto capire che se ci fosse stata l’elezione diretta del sindaco, Orlando ce l’avrebbe fatta. E adesso si andava verso questa direzione.

La nostra intenzione era quella di fare a breve a Villa Trabia una grande festa, durante la quale avremmo consegnato la simbolica panchina acquistata con i soldi dei cittadini.

Non è tanto facile donare qualcosa alla comunità: telefonammo all’assessorato alle ville e giardini del comune, chiedendo quale era la procedura in questi casi, e naturalmente scoprimmo che occorrevano una serie di adempimenti burocratici fra cui il parere della Soprintendenza Regionale ai Beni Culturali. Accanto­nammo allora l’idea con grande imbarazzo nei confronti di chi aveva contribuito con le proprie mille lire. La festa era il grande sogno mio e delle altre, ma ci trovammo a rimandarla da una festività ad un’altra per la paura inconfessata di ritrovarci di nuovo in tre.

Neanche il 23 maggio, nella imponente manifestazione per il primo anniversario della strage di Capaci, eravamo riuscite ad identificarci con uno striscione del nostro comitato, c’eravamo andate divise come semplici cittadine senza riuscire ad approfittare della situazione, era stato comunque un momento splendido: ci si perdeva tra la folla non riconoscendo nessuno. C’era anche un’altra Palermo, quella che fino ad adesso aveva stentato a scendere in campo.

Francesca finalmente mise il carro davanti ai buoi. Facendo un giro di perlustrazione per iscrivere suo fi­glio Roberto in prima media, si accordò con i presidi delle due scuole medie del quartiere che erano ambe­due situate al confine nord della villa (dalla parte di via Damiani Almejda) per una occupazione simbolica di Villa Trabia, la data era quella di sabato 5 giugno 1993 alle 10 del mattino e avevamo soltanto una setti­mana per organizzare tutto.

Pervase dall’angoscia, incominciammo a battere le varie parrocchie che conoscevamo, andammo al Coni, al Consiglio di quartiere, nel frattempo eravamo state riconvocate alla Rete per un’altra riunione, arrivammo lì con il nostro documento programmatico stravolgendo l’ordine del giorno. Conduceva il dibattito un ex compagno del Pci che ricordavo dai tempi della mia militanza politica, rimase subito affascinato dalla nostra grinta, concluse: oggi finalmente abbiamo parlato di qualcosa di concreto, qual è la prossima mossa? Con un certo imbarazzo confessammo che avevamo già una data fissata a breve per una occupazione simbolica. Senza battere ciglio, Mimmo Ortolano si mise con pazienza ad elencare tutte le cose che c’erano da fare.

Andammo al «Circolo Società Civile» di Palermo che si era da poco costituito sulla scia di quello milanese guidato da Nando Dalla Chiesa e che io avevo cominciato a frequentare da qualche settimana. Anche lì restarono un po’ sconcertati per la nostra tempestività ma si interessarono all’argomento, ci seguì personalmente Marcella Ferruzza e ci introdusse ad una riunione del cartello delle associazioni che avevano organizzato la manifestazione dei centocinquanta-mila per il primo anniversario della strage di Capaci.

Andai io con lei, la riunione si svolgeva al centro sociale S. Saverio in un delizioso atrio all’aperto dove ordinatamente seduti in circolo si parlava per criterio di iscrizione. C’era un’atmosfera bellissima, mi resi conto che avremmo ricordato quei giorni: quella solidarietà, quella voglia di confrontarsi, tutti quarantenni naturalmente ma di esperienze anche diverse, molti cattolici, gli unici che a Palermo negli ultimi anni avessero fatto volontariato; c’erano rappresentanti degli scouts, di associazioni culturali, del «Comitato dei lenzuoli» alla cui nascita avevo assistito anch’io un anno prima. Riuscimmo ad iscriverci soltanto per ultime, ci fu un dibattito che verteva sulle varie forme di commemorazione dei defunti di mafia, qualcuno addirittura proponeva di confezionare un’agenda da distribuire nelle scuole dove, purtroppo, quasi per ogni giorno dell’anno, venisse ricordato il morto di mafia corrispondente.

Finalmente dal macabro ci spostammo sul concreto, qualcuno invitò a fare qualcosa di più propositivo, occuparci di un luogo di Palermo, creare un centro sociale, e mi rodevo le mani perché quello era il momento di intervenire proponendo il nostro progetto su Villa Trabia e sulla casena; ma si poteva parlare soltanto quando arrivava il proprio turno e quando toccò a noi la maggior parte di persone era già andata via. Al momento di parlare mi prese l’emozione, Marcella mi venne incontro e con voce altrettanto rotta della mia disse: «Vi annuncio che è nato un altro comitato, il Comitato Vivi Villa Trabia che sabato farà un’occupazione simbolica della villa, chi vuole aderire ce lo faccia sapere subito», era l’ultimo intervento e la gente alzandosi per andar via venne verso di noi per avere ulteriori chiarimenti. Incominciammo a parlare concitatamente con tutti, formammo dei capannelli fuori del centro che durarono fino a molto dopo la fine della riunione. Alcuni ci contestavano l’adesione data dalla Rete, non se la sentivano di sottoscrivere per una manifestazione che poteva essere strumentalizzata da un movimento politico; io capivo ma ero in imbarazzo per Mimmo Ortolano che si stava dando un gran daffare per aiutarci. Alla fine, promettendo che avremmo tolto l’adesione della Rete, ottenni l’adesione di tutti i presenti, le adesioni di quanti del cartello erano assenti o erano già andati via le raccogliemmo l’indomani per telefono.

Dovetti assumere l’oneroso compito di spiegare a quelli della Rete il motivo della loro esclusione, Mimmo con grande disponibilità ci assicurò che ci avrebbe aiutato comunque, a lui premeva che la cosa riuscisse ed avrebbe messo a disposizione i loro mezzi per l’organizzazione della manifestazione. Apprendemmo poi che questo gli era costato un dissidio con la dirigenza del movimento.

Gli altri non diedero altro che la loro adesione nel volantino, ma l’eco della manifestazione dei centocinquantamila aveva investito il cartello «Palermo Anno Uno» di una tale autorità che queste firme legittimarono istantaneamente il nostro comitato.

Articolo di Salvatore Savoia, su Quattrocanti dell’aprile 1993

Raccolte le adesioni si doveva procedere all’organizzazione della mattinata, avevamo già deciso che non sarebbe stata una festa, non c’era niente da festeggiare, tutto si doveva ancora fare.

Alla Rete ci mostrarono il numero di Aprile della rivista «Quattrocanti» che portava un servizio di Salvatore Savoia su Villa Trabia, gli chiedemmo se durante la manifestazione poteva fare una lezione sulla storia della casena ai ragazzi delle scuole che avrebbero partecipato, cortesemente diede la sua disponibilità.

Chiedemmo a Gabriella Saladino del «Comitato dei lenzuoli» di farci uno striscione (con un pezzo di stoffa preso dalla mia sartoria) per informare della manifestazione, lo appendemmo sul ponte di Villa Trabia, punto strategico perché nelle ore di punta vi passano sotto moltissime automobili. Quel ponte restò poi il nostro luogo d’elezione per tutte le convocazioni a Villa Trabia.

Il giovedì precedente il fatidico sabato andai a casa di Francesca per diramare con lei le telefonate e i fax, di lì a poco scadeva il termine per il pagamento del modello 740, problema per molti in quel periodo non indifferente, e mentre dovevamo spesso rivolgerci al maggiore dei figli di Francesca per il funzionamento del computer, apprendemmo che da quella mattina tutti i numeri di telefono e di fax del comune di Palermo erano stati cambiati, iniziavano tutti con l’odioso codice 740.

In quella occasione scoprimmo di saper lavorare in una perfetta sintonia, la vita quotidiana ci aveva co­strette, nostro malgrado, a fare mille cose contemporaneamente e adesso il tempo che avevamo per Villa Trabia era sempre rubato ad altro, così pensavamo e scrivevamo di getto intendendoci con gli occhi.

Il venerdì pomeriggio al «Circolo Società Civile» con Marcella mettemmo a punto il documento pro­grammatico da distribuire l’indomani, mandammo gli altri fax, alla questura, alla prefettura, a tutti gli organi di informazione (anche se parallelamente ci stava già pensando Mimmo Ortolano) preparammo i tazebao e ci ritirammo a casa esauste.

L’indomani vennero gli allievi delle due scuole medie che furono intrattenuti da Salvatore Savoia, i rap­presentanti di tutte le associazioni del cartello, Bibi e Francesca della cooperativa «Lo Scarabocchio», cro­nisti della Rai e del «Giornale di Sicilia» e di svariate altre televisioni private e due auto della polizia.

Un curioso e robusto personaggio con unghia lunghe e curate, anello d’oro e capelli impomatati, scese da una macchina recante lo stemma del comune di Palermo; si diresse verso di noi, individuate come le responsabili di tutto quel subbuglio e ci investì in un siciliano mellifluo: «Ho ricevuto un altro messaggio d’amore di questo comitato, ma c’era bisogno di chiamare pure il Prefetto?». Toccò a Marcella e ad alcuni esponenti di Legambiente portarlo in giro per una perlustrazione del parco. Aveva a che fare con l’asses­sorato ville e giardini ma, ad occhio e croce, non gli avrei affidato neanche i gerani del mio balcone.

Insomma contavamo le persone che avevamo caldamente invitato ad intervenire, non una di più, questo ci pose dinanzi al fatto che a Palermo non è facile coinvolgere la gente. Poco male, la manifestazione era andata bene, ma d’ora innanzi avremmo sempre dovuto smuovere una montagna per partorire un topolino.

Fummo tutte intervistate, Anna col suo tipico linguaggio parlava a ruota libera, salvando me e Francesca che ci mangiavamo le parole. E l’indomani il «Giornale di Sicilia» riportava un paginone sulla manifestazione richiamato in prima pagina da una foto delle adolescenti della scuola media in calzoncini: c’era un ampio servizio, una foto dei nostri figli che giocavano con le foglie e le lumachine e il faccione agguerrito di Anna accanto a quello di Salvatore Savoia.

Con gli altri rappresentanti delle associazioni del cartello prendemmo accordi per vederci ogni settimana alla villa. Alle riunioni venivano anche Bibi e Francesca de «Lo Scarabocchio», Mimmo Ortolano, Salvatore Savoia e Sonia Balsano che in quel periodo pubblicarono una nostra lettera su «Quattrocanti»; non essendoci panchine sufficienti ci riunivamo seduti sulle radici affioranti dei ficus, ognuno portava i propri figli, così la torma di utenti bambini prendeva corpo.

Ad una di queste riunioni venne un esponente del comitato di quartiere. Prese in disparte noi tre e ci riferì che il presidente del circolo voleva trovare una mediazione: sarebbe stato disponibile a regalarci delle panchine, purchè non sollevassimo il problema dell’affitto della casena. Lo lasciammo senza neanche una risposta: regalare poi a chi queste panchine? A tre signore qualsiasi?

Improvvisamente una notte crollò uno dei piloni che dalla via Salinas tenevano il cancello, sembrava che un camion vi fosse finito contro. Così l’accesso da quella parte fu transennato e i soci furono costretti a percorrere tutto il parco in automobile entrando dal cancello di piazza Scalia, anche se in effetti dall’altra parte restava sempre un varco aperto per passare a piedi, in fondo si trattava di percorrere pochi metri.

Questo attraversamento avveniva a grande velocità a dispetto dei nostri figli che, giocando, mangiavano la polvere sollevata dalle loro auto. Una volta addirittura si sfiorò la tragedia con una bambina che stava per essere investita, poi improvvisamente trovammo vicino al posto dove solitamente ci riunivamo, le panchine che prima stavano a ridosso della casena.

Organizzammo tutti insieme una visita guidata per la villa per sabato 26 giugno: Salvatore avrebbe nuovamente illustrato la storia della casena, Giuseppe Barbera docente di culture arboreee alla Facoltà di Agraria e Cristina Fatta della Lega Ambiente avrebbero percorso il parco illustrando le varietà botaniche; ci occupammo tutti insieme di avvertire i vari organi di stampa.

Se si offre un programma concreto la gente finalmente accorre, ecco la ricetta! Vennero centinaia di persone, fu un pomeriggio bellissimo: Cristina affascinava drappelli di gente portandoseli in giro e raccontando amenità sulla storia delle varietà botaniche, anche Salvatore e Giuseppe riscossero molto successo, le persone avevano una gran voglia di conoscere, non capivano bene da chi fosse stata indetta la manifestazione, ma volevano possedere quella villa che alcuni apprendevano essere loro soltanto adesso.

L’estate andò avanti, Francesca si trasferì per la villeggiatura a Caltagirone e io ad Aspra, a 20 chilometri da Palermo. Necessariamente allentammo i nostri rapporti.

Il 19 luglio ci fu la manifestazione per commemorare la strage di via D’Amelio: per quanto, data la sta­gione, non partecipata quanto quella del 23 maggio, fu una cosa molto sentita. Il corteo si snodava dentro le viuzze del centro storico e ovunque arrivasse si intavolava un vivace battibecco con le persone affacciate, le si invitava ad esporre lenzuoli dai balconi (un ormai conclamato simbolo antimafia). Dopo le prime ritrosie, andavano a prendere il lenzuolo più bello e lo esponevano all’applauso generale, era tutto un biancore di bucato, tranne che per i balconi degli arabo-africani che esponevano dei lenzuoli coloratissimi.

Arrivati a piazza Magione dove era montato il palco per i comizi, venni a sapere che la segreteria del cartello aveva inserito un mio intervento su Villa Trabia che nel frattempo era diventato uno dei punti programmatici di «Palermo Anno Uno». Mi colse l’angoscia, non avevo preparato nulla, e poi il comitato aveva fino ad ora eluso interventi pubblici, adottando la tecnica di marcare ad uomo le persone; trovarmi lì col microfono davanti a migliaia di persone, ripresa in diretta televisiva mi fece tremare la voce, leggevo un piccolo appunto non vedendo l’ora di finire, senza fare capire molto di quello che dicevo. Scesa dal palco fui abbondantemente presa in giro da Maurizio e da altri amici presenti, ma comunque anche questa era andata. Il 31 luglio arrivò la convocazione per un incontro ormai insperato che avevamo chiesto da circa tre mesi al Commissario straordinario per il comune di Palermo, Piraneo.

Pezzi di panchine marmoree barocche per terra, così si presentava Villa Trabia nel 1993

Ci andammo io ed Anna con Mimmo Ortolano, trovammo lì già seduto il capo ripartizione di ville e giardini, più tardi ci raggiunsero due funzionarie dei beni culturali (il caporipartizione era in ferie). Il com­missario giudicò pericoloso il fatto che fosse stata aperta un’altra villa a Palermo, considerando quest’ultima una città di vandali, meglio lasciare villa e parco al Circolo Unione che in tutti questi anni aveva saputo tutelarla. Dimostrammo, documenti alla mano che in questi anni erano spariti numerosi pezzi scultorei e architettonici che abbellivano in precedenza il parco, ci rispose che lui la villa neanche la conosceva. Ci vennero incontro le due funzionarie dei beni culturali che, non so se concordemente con il loro caporipartizione o di propria iniziativa, ci sostennero con determinazione, la discussione allora si infervorò senza però portare a nulla.

A novembre ci sarebbero state le elezioni per eleggere il sindaco di Palermo. In effetti era nostra intenzione rimandare ogni nuova disquisizione su Villa Trabia al nuovo sindaco con la speranza che fosse eletto Orlando, la posizione del commissario però ci allarmava: bastava che in questo interregno egli firmasse una proroga del contratto d’affitto con i soci del circolo (cosa che comunque non avvenne) e il nuovo sindaco non avrebbe potuto far più niente per mandarli via per i prossimi quattro anni.

Il centro storico di Palermo

In quell’estate partecipavo alle riunioni che si svolgevano per sostenere e formulare il programma di governo di Orlando sindaco, si erano formati dei gruppi di lavoro ed io aderii a quello che si occupava della cultura: lavoro nel mondo dello spettacolo e quindi quella era l’area che più poteva interessarmi, ma in realtà nello scegliere quell’argomento il mio pensiero era andato al centro culturale di Villa Trabia.

Già si giocava al toto assessori, la poltrona più difficile era certamente quella dell’assessore alla cultura. L’ ambiente intellettuale palermitano e soprattutto quello teatrale è diviso in lobbies di operatori demotivati, molti dei quali in passato, per assicurarsi dei sussidi economici per le loro attività, non hanno disdegnato d’ andare dietro a questo o a quel politico, sostenendolo anche elettoralmente. Adesso incredibilmente erano tutti accorsi in previsione della vittoria di Orlando, ognuno negando le proprie precedenti appartenenze. Poi c’erano quelli che prima erano rimasti a bocca asciutta, che adesso rivendicavano il diritto ad essere presi in considerazione.

Si partiva sempre dalla convinzione che l’intellettuale avesse bisogno di un risarcimento economico per la propria scelta professionale, quindi si chiedevano dei finanziamenti a pioggia un po’ per tutti, spesso con un criterio di anzianità di servizio, indipendentemente dal merito di ognuno e dalla uniformità di un programma culturale. Ribaltare questa concezione non fu facile, le riunioni del nostro gruppo erano le più accese, si formavano fazioni, spesso si perdeva di vista l’obiettivo che era quello di formulare un programma per la cultura a Palermo per i prossimi quattro anni.

Di conseguenza non sarebbe stato facile per Orlando scegliere l’assessore alle attività culturali, qualsiasi intellettuale cittadino scelto come assessore avrebbe inevitabilmente portato avanti la propria concezione di politica culturale a scapito degli altri. A differenza di Maurizio ho sempre operato in questo ambiente senza farmi completamente coinvolgere: un mestiere con poche gratificazioni economiche, che comporta invece grandi sacrifici personali, rischia spesso di trascinarti verso un individualismo narcisistico, e questo mi ha sempre spaventata.

Alle riunioni cercavamo di prendere il problema dal punto di vista dell’utente: bisognava ribaltare la logica di trasmissione del dialogo fra operatore e cittadino. Qualcosa (molto?) a Palermo non funziona da anni: la gente non va a teatro, non legge, va al cinema soltanto per vedere alcuni film commerciali, c’è un appiattimento del livello qualitativo e uno strappo con gli intellettuali che dal canto loro sembra a volte che parlino un linguaggio cifrato.

Omaggio a Karl Valentin in un mio acquerello

Maurizio aveva avuto un grande amore per un autore di cabaret tedesco degli anni Trenta, Karl Valentin (non per niente la nostra figlia maggiore si chiama Carla Valentina). Il suo cavallo di battaglia, quando lo chiamavano per delle piccole performances, era recitare un suo esilarante monologo «Il teatro dell’obbligo»: era tutta una disquisizione su come salvare il teatro tedesco, obbligando con delle leggi statali la gente ad andare a teatro. Beh, se non proprio obbligandolo bisognava fare in modo di rinfoltire il pubblico delle attività culturali, cosa che indirettamente avrebbe favorito anche chi di questo mestiere doveva vivere. Si fece una bozza di programma che proponeva l’azzeramento dei finanziamenti a pioggia, l’assessorato si sarebbe mosso seguendo una propria linea culturale e, in base a questa, avrebbe potuto accogliere o bocciare le proposte dei vari operatori, si sarebbero animate le strade e le piazze, si sarebbero utilizzate aree ed edifici comunali dismessi, la cultura sarebbe stata alla portata di tutti in una programmazione continuata e decentrata.

Il programma fu sottoposto ad Orlando, in una giornata di lavoro in cui tutti i gruppi si incontravano alla «Casa del Fanciullo di Padre Messina». In ogni stanza si riuniva un gruppo di lavoro diverso, e Orlando andava da una stanza all’altra per sentire le varie proposte, c’era veramente una bella atmosfera, poteva nascere da queste proposte una città bellissima, se non altro, come diceva il nostro candidato, una città normale.

Leoluca Orlando

Trovai quest’uomo estremamente affabile, di presenza risultava molto più simpatico e allegro, era capace di qualche battuta spiritosa ed era interessante ascoltarlo su un argomento diverso da quello solito dell’antimafia, nel quale peraltro mostrava muoversi assolutamente a proprio agio. Trovai nel gruppo fra gli altri Emilia e Maria che si occupavano di arti visive e di artigianato, avevano con altri una associazione culturale, «Mutazioni». Emilia la conoscevo già come mamma di un amichetto di Va­lentina, ci ritrovammo nel nostro modo di intendere quel programma e riuscimmo a farvi inserire anche qualche cosina che poteva riguardare specificamente Villa Trabia.

Con l’autunno si infittiva la campagna elettorale, oltre che partecipando a tutti gli incontri e comizi, noi aiutavamo il comitato elettorale di Orlando raccogliendo le firme per la sua candidatura e facendo vo­lantinaggio, sempre con i bambini al seguito.

Decidemmo alla fine di organizzare una grande festa a Villa Trabia per la domenica precedente le elezioni: avevamo già capito che per coinvolgere le persone bisognava offrire un programma di intrattenimento, e così ci predisponemmo a proporre in una mattinata un sunto di tutte le attività che potevano in futuro svolgersi nel parco e nella casena: volevamo far capire come si poteva vivere in una città diversa, ma senza dare una connotazione politica alla manifestazione.

Il volantino della festa

Adesso c’erano tante persone che lavoravano con noi e la cosa più trainante fu, da allora in poi, il piacere di collaborare insieme ad una progettualità comune. Per noi quella resterà una giornata indimenticabile, come scrivemmo di getto il giorno dopo per l’articolo richiestoci da «Mezzocielo», che iniziava: «Un pomeriggio di un giorno d’aprile…». In effetti riguardandoci indietro avevamo in otto mesi fatto tanto, tanto c’era da fare, ma un obiettivo per noi fondamentale era stato raggiunto: quello del coinvolgimento della gente. Erano venute circa tremila persone, per Palermo è una cifra non indifferente, il programma aveva funzionato benissimo, ognuna delle persone coinvolte gratuitamente aveva reso il massimo, la gente era entusiasta, non voleva più andar via. Avevamo distribuito nelle scuole dei volantini rivolti ai bambini dove li si invitava a partecipare allo scambio dei giocattoli: come prescritto da un ordinato regolamento allegato, vedevamo arrivare frotte di bambini con il loro sacchetto di giocattoli «usati ma funzionanti», ogni bambino prendeva posto in un tappetino personale messo a disposizione nel loro spazio dalle ragazze de «Lo Scarabocchio», e iniziava la contrattazione con gli altri bambini «senza alcuna integrazione in denaro». I bambini erano eccitatissimi, erano liberi di scegliere quello che volevano senza la mediazione dei genitori, per un gioco costosissimo c’era chi sceglieva un pupazzetto da mille lire, ma era quello che voleva lui, e quando finivano di scambiare i giocattoli portati da casa, cambiavano i cambi, era un gioco infinito…

Il paginone del Giornale di Sicilia dedicato alla nostra festa

Il nostro tavolo delle torte che sapeva tanto di festa campestre all’inglese aveva funzionato al suo scopo, con le offerte volontarie per ogni fetta avevamo ricostituito le duecentomila lire iniziali, unico fondo cassa del comitato, potevamo anche pensare di fare altre feste, come tutti accoratamente ci chiedevano.

Il parco pullulava di attività, sotto una palma si erano sistemati a cantare gli anziani del centro sociale S. Saverio, sulla gradinata antistante la casena si erano messe a suonare quattro fanciulle: l’architettura settecentesca della facciata faceva da sfondo alle loro musiche barocche, i soci del circolo si erano chiusi dentro.

Salvo Pitruzzella

Nel ringraziare quanti ci avevano aiutati, ci sentivamo rispondere con altri ringraziamenti, come nel caso di Salvo Pitruzzella che aveva fatto uno spettacolo per i bambini. Molti degli avventori ci aiutarono a rimettere a posto il parco, a parte però dover riunire i tavoli e le sedie da restituire al cantiere municipale non c’era granché da fare, la gente aveva buttato i rifiuti nei pochi contenitori che ci eravamo portati da casa (il comune non si era ancora premurato di fornirli), non un pezzo di carta per terra, avrei voluto lì il commissario Piraneo, quello che sosteneva che Palermo è una città di vandali.

Per alcuni giorni l’eccitazione ci fece camminare a un palmo da terra, tutte e tre non riuscivamo a resistere alla tentazione di scambiarci le emozioni, parlavamo moltissimo, commentavamo, progettavamo, il luogo d’incontro era fuori dalla scuola dove incontravamo anche Emilia. A poco a poco avrebbe fatto parte del nostro comitato, sapeva smorzare i nostri eccessi e aveva una grande capacità organizzativa.

Si era sposata molto presto ed ora a trentacinque anni aveva già una figlia di quindici Chiara, Gabriele di undici e Giorgio di sette (allievo del «Mario Rapisardi»). Bella, razionale, con i capelli sempre in ordine, uno sguardo dolce ma determinato, conduceva una vita senza incertezze. Oltre a far parte dell’associazione «Mutazioni», aiutava il marito avvocato a condurre il suo studio legale. Si avvicinava la domenica delle elezioni, Orlando aveva resi pubblici i nomi dei suoi assessori, per la cultura quello di Giuliana Saladino.

Giuliana Saladino, storica firma del giornale L’Ora

La scelta fu accolta dai più come un capolavoro di diplomazia politica. Giornalista e scrittrice, Giuliana Saladino era in effetti un’intellettuale super partes. Schiva, sobria, giudicata da alcuni anche un po’ snob, aveva un grande senso critico e una notevole intelligenza. Per una cerchia di persone era stata un caposaldo: un punto di riferimento politico e culturale, più o meno dal dopoguerra ad ora. Per me era una persona di famiglia e questo avrebbe potuto costituire un handicap, era infatti una delle migliori amiche di mia madre e qualcosa di più: anche per me era stata un punto di riferimento, ero sempre molto attenta ai suoi giudizi su tutto quello che accadeva, non c’era avvenimento, l’uscita di un libro o di un film, l’avvicendarsi dei fatti di cronaca, della vita politica, che non mi spingesse anche indirettamente a conoscere il suo parere. Certe volte chiedevo a mia madre: «Che ne pensa Giuliana? Ne avete parlato insieme?» Anche quando si era costituito il «comitato dei lenzuoli» il cui gruppo storico era formato dai numerosi e anche un po’ elitari componenti della sua famiglia, Giuliana aveva rappresentato l’intelligenza del gruppo, il pensiero politico. Orlando aveva preso due piccioni con una fava, aveva reso omaggio ad un comitato che stava facendo storia e si era assicurato una delle più rap­presentative intelligenze della città.

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