Il “Pasticcio del Gattopardo”

La pubblicazione del romanzo “Il Gattopardo” fu accolta con sollievo da mia madre che, essendo allieva della vedova dell’autore (la Principessa Alexandra von Wolff-Stomersee, studiosa di psicanalisi), conosceva i precedenti rifiuti alla pubblicazione che avevano tanto intristito la coppia. Mia madre però era anche incuriosita dalla descrizione di una particolare pietanza, inserita nel menu di benvenuto della scena del pranzo al Palazzo di Donnafugata.

Si trattava del “Timballo di maccheroni”, una ricetta del repertorio di quella cucina dei Monsù, che altri non erano che cuochi di famiglie nobili siciliane chiamati alla francese (Monsù da monsieur francese). La dominazione borbonica aveva infatti creato nel Regno delle due Sicilie una contaminazione di cucina francese in quella nostrana, dando vita a una serie di ricette elaborate, che a volte azzardavano la commistione fra dolce e salato, come la brioshe ripiena e varie versioni di pasticci di cacciagione.

Il Timballo di maccheroni

La particolarità del Timballo di maccheroni era il fatto che questo tipo di pasta, condito con sugo di carne, spezie e sapori forti, fosse inserita in una scatola di pastra frolla dolce.

Nella famiglia di mia madre si è sempre cucinato il “pasticcio di caponata”, cioè una scatola di pasta frolla con dentro la caponata, che vi assicuro è un piatto meraviglioso; anche freddo l’indomani, quando l’agrodolce della caponata ha un pò imbevuto la pasta frolla. In famiglia si parlava anche di un “Pasticcio di Maccheroni”, o “Maccheroni in crosta”, o “Gattò alla francisi“, definendolo una sorta di pasta al forno dentro la frolla, con ingredienti che andavano e venivano in ogni racconto. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, invece, nel suo romanzo dà alcune descrizioni precise dei suoi ingredienti, che ci servono da indizio per riuscire ad interpretare la ricetta originale:

“L’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando squarciava la crosta. Ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”... …(Don Fabrizio) ebbe modo di notare, unico a Tavola, che la “demi glace” era troppo carica...”

Giuseppe Tomasi di Lampedusa in un mio acquerello

Se ne evince che la pasta frolla era dolce, che la cannella si imponeva su altri aromi, che il condimento comprendeva fegatini di pollo e ovetti non nati (oggi introvabili), che i maccheroni erano “maltagliati” e che la salsa, infine, era un sugo di carne color camoscio, che più avanti viene definita demi glace. La salsa demi-glace, che letteralmente significa semi-glassata, è una salsa francese di colore bruno, dalla consistenza vischiosa e cremosa. La cucina dei Monsù la ribattezzò agglassato o aggrassato, cioè un modo di sfumare e atturrare (tostare) il soffritto di un tocco di carne (in genere lacerto) per ottenere un sugo cremoso e scuro. Come per ogni ricetta siciliana, ogni famiglia ha il suo modo di fare l’agglassato. Da sposina mia madre vide una vecchia zia prendere a martellate il fondo di una pentola di alluminio ovale che le avevano appena regalato: “perché più è bitorzoluto, più l’aggrassato s’atturra” – le disse. In realtà il segreto dell’agglassato è quello di tirare via col mestolo il soffritto dal fondo, appena prima che si bruci, e che questa operazione venga fatta tante volte, altrimenti si avrà un normale brodo di carne.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Dalla descrizione di Tomasi di Lampedusa, si comprende che la demi glace sia l’unica salsa a legare le varie componenti del condimento dei maccheroni, mentre non si fa accenno al ragù al pomodoro, che invece alcuni vorrebbero inserire al condimento; quindi nella mia interpretazione di questa ricetta io utilizzo la mia versione di agglassato. Mi discosto invece dalla citazione letteraria per guanto riguarda i fegatini e gli ovetti non nati, di questi ultimi si accenna pure alla durezza del loro guscio sotto i denti. Ora, a prescindere dal fatto che non saprei dove trovare questi ingredienti, di sicuro i miei commensali non li gradirebbero. Quindi ho deciso da tempo di sostituirli con delle piccole polpettine di carne macinata.

Circa i funghi secchi e i pistacchi, accetto il suggerimento del manuale di cucina nostrana che ritengo più attendibile, cioè “La grande cucina siciliana” di Fiammetta Di Napoli Oliver (Flaccovio editore), dissento però col suo inserimento della bechamel, che Tomasi non menziona affatto.

Va anche detto che Luchino Visconti, nella sua fedele trasposizione cinematografica del romanzo, commise un errore: presentando i timballi con un coperchio di pasta sfoglia che il padrone di casa rivoltava prima che i camerieri servissero gli altri commensali. Gesto molto teatrale ma che non c’entrava nulla con la scatola di pasta frolla descritta dall’autore. Io uso invece la mia ricetta della pasta frolla, non con lo strutto come vorrebbe la tradizione siciliana ma col burro, inoltre dimezzo la quantità di zucchero (rispetto ad esempio alla quantità richiesta per una crostata), così come in casa mia si faceva per il pasticcio di caponata, e come suggerito anche da Fiammetta Di Napoli Oliver.

macheroni industriali

Infine una precisazione sui “maccheroni” che, oltre a dare il nome alla pasta in generale, è una forma di pasta ormai poco usata, anche se ogni tanto si trova in commercio. Io preferisco produrli artigianalmente con la mia trafila.

maccheroni artigianali

Ecco quindi il link alla mia ricetta, illustrata passo passo, del Timballo di Maccheroni, detto alla Gattopardo, o alla Francese.

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