
Il verismo fu una corrente letteraria sviluppatasi fra il 1875 e il 1895 ad opera principale di Giovanni Verga e Luigi Capuana che, ispirandosi al naturalismo francese, propugnava l’estrema aderenza alla verità, raccontando nei fatti la povertà del sud Italia. La corrente si estese anche nel campo figurativo, teatrale e musicale. Una delle sue caratteristiche fu quella di raccontare fatti e scene di vita popolare con un certo distacco del narratore il quale, soprattutto a quel tempo, non poteva che appartenere ad una classe sociale più elevata.
Questa è la caratteristica che mi fa avvicinare con sospetto alle opere veriste, anche se fra di esse ce ne sono alcune di indubbio valore. Quel che è peggio è una sua degenerazione rimasta appiccicata addosso alla classe dirigente della nostra terra, soprattutto palermitana, un post-verismo per me particolarmente fastidioso.
Spesso sono sfumature che solo un nativo può comprendere, ad esempio un modo di ingentilire il dialetto palermitano, di per sé sguaiato e aggressivo, sciorinandolo nella cantilena dei quartieri alti, scandendo i vocaboli più arcaici in modo da mostrarsi edotti e al contempo distaccati dal retroterra che li ha coniati. Il desiderio del post-verista è quello di porsi da mediatore culturale fra il popolino e l’audience globale, sottolineando la propria estraneità al quadro macchiettistico che sta dipingendo. Il rischio è quello di dipingere una realtà svantaggiata dall’alto in basso, ma ancora peggio è l’aurea poetica che include gli aspetti più esecrabili di questa realtà, come la malavita organizzata.
Quando ero bambina, il post-verismo divertiva i salotti della “Palermo bene” con lo scherno delle scene di vita dei sottoposti: contadini, portieri e servette; dei quali si riproducevano teatralmente il gergo, le scene da cortile, le volgarità e i gesti violenti, col desiderio che tale mondo restasse inchiodato al suo ruolo di foraggiatore dell’economia del latifondo e degli stessi salotti.
Forse fu l’avversione a questo post-verismo ad indurre esattamente 60 anni fa Elio Vittorini, comunista e siciliano sofferto, a cestinare l’opera di un esordiente quando era lettore per la casa editrice Einaudi. Il mondo letterario non glielo perdonò facilmente e neanche la sua casa editrice, perché il romanzo in questione era “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, destinato a diventare bestseller internazionale. Amando profondamente Elio Vittorini, soprattutto nel suo “Conversazione in Sicilia” che riassume l’amore-odio di ogni siciliano cosapevole, devo ammettere che quella fu una reazione esagerata, perché l’opera di Tomasi di Lampedusa è un acritico ma bellissimo affresco del mondo del latifondo che, in quanto magistralmente descritto da un suo protagonista, non scivola nella macchietta. Il problema è che Il Gattopardo diede la stura ad una nuova ondata di post-verismo, marcando il confine fra chi viveva nei salotti dell’aristocrazia e chi ne avrebbe voluto far parte. Il cuore dell’equivoco sta infatti nel “salotto aristocratico palermitano” in sé e data dai tempi dei viaggiatori ottocenteschi (fra icui Johann Wolfgang Goethe e Guy de Maupassant) che concludevano il Grand Tour fra i profumi e gli olezzi che caratterizzano le contraddizioni della mia città, per essere rapidamente rapiti dai salotti aristocratici, dai quali era difficile sfuggire. Come la maga Circe il salotto seduceva lo straniero con pigrizia e seduzione e, a volte, buona conversazione, mentre esso veniva conteso da una famiglia all’altra in una gara di opulenza e buon cibo. Incredibilmente il salotto palermitano sedusse anche il regista Luchino Visconti, comunista ma aristocratico che, dopo il suo tributo alla causa con La terra Trema e Rocco e i suoi fratelli, godette di un ritorno alle origini nella trasposizione cinematografica de “il Gattopardo”. In questa occasione la città che conta visse il suo momento più memorabile, ancora ci sono dame aristocratiche che possono vantare di aver partecipato da comparse alla scena del ballo a Palazzo Ganci. Per l’aristocrazia palermitana Luchino Visconti era un titolato da non farsi sfuggire (Duca di Grazzano Visconti, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese), anche se egli avrebbe preferito ricevere la giusta attenzione in quanto regista cinematografico di talento. Alla fine però la scena del ballo assorbì la maggior parte delle energie e della pellicola, tanto che la passione per il dettaglio con cui il regista volle descrivere il “salotto palermitano” diede addirittura avvio ad una corrente stilistica poi chiamata Viscontismo, mentre il film mandò in bancarotta il suo produttore.
La mia potrebbe sembrare l’invidia di chi in quei salotti non è mai stata invitata, in realtà qualche volta mi è capitato e non posso negare che la voce melodiosa di ciò che è sopravvissuto di quel mondo costituisce tutt’ora una seduzione. Quello che mi infastidisce però è la sua filosofia, quel “Gattopardismo” inaugurato proprio da Tomasi di Lampedusa, per cui pregi e difetti della nostra terra sembrano connaturati ad essa, senza che si possa far nulla per cambiare. Mi indigna la convivenza pacifica fra salotto e mafia, il servirsi dei suoi scagnozzi per poi restarne intrappolati. Ma alla base di tutto c’è il desiderio di continuare a vivacchiare nel modello economico del latifondo, cercando una mamma che spilli latte in abbondanza senza che sia richiesto alcuno sforzo. Prima erano gli enormi appezzamenti di terra che versavano denari in città tramite soprastanti mafiosi, poi si abbatterono le ville di città per costruire orribili palazzi, della cui vendita di appartamenti vivacchiare per qualche anno. Poi il modello venne recepito da alti dirigenti della Regione Siciliana, che percepivano lauti stipendi senza neanche recarsi al lavoro, peggio ancora lucrando sul proprio ruolo. Alla fine, alcuni famiglie latifondiste hanno avuto un’evoluzione virtuosa in nuove generazioni di imprenditori del vino o dell’agricoltura, moderne e laboriose, mentre il vecchio clichè è rimasto appiccicato addosso ad una media classe dirigente, pigra e connivente, piccolo borghese e arrangiaticcia, politicante e ammanigliata, quella che costituisce la melma da cui la Sicilia fatica ad emergere.
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