Dopo la morte dei genitori e poi della zia Teresa, Elda e Giulio avevano preso l’abitudine di andare una volta l’anno al cimitero il giorno in cui era morta Wanda, a giugno. C’era una malandata tomba di famiglia ai Rotoli che ogni anno si ripromettevano di far mettere a nuovo. Portavano i fiori, Giulio andava a riempire il vaso mentre Elda spazzava via le foglie da quella lapide che aveva i loro tre nomi scolpiti di fresco, accanto a quelli dei nonni paterni e di altri di cui ormai nessuno poteva riannodare i fili di parentela. Era l’occasione per stare insieme a quattrocchi, parlare di quello che non potevano dirsi in presenza altrui, aggiornarsi sul lavoro e sulla vita dei ragazzi, commentare i fatti politici.
L’appuntamento del 1987 fu monopolizzato dai racconti di Elda sulla nipotina Lucia, figlia di Dario e Gabriella, che stava per compiere un anno.
“Com’è che non l’hanno chiamata come te?” chiese Giulio.
“Sono stata io a non volerlo. Ho passato la vita a rifare documenti perché mi storpiavano il nome. Non m’è mai piaciuto!”
“È bello, era il nome della nonna… – lo disse malinconicamente e poi improvvisamente si rabbuiò – temo di non stare tanto bene.”
“Che significa? Che ti senti?”
“Non riesco a fare le scale e a camminare senza il fiatone e la sera mi sale la febbre.”
“Che vuol dire ti sale la febbre? Con questo caldo se metto il termometro anch’io ti giuro che avrei 37.”
Elda mentiva a se stessa, s’era accorta anche lei che Giulio non stava bene, era pallido e aveva quel sospiro a mezz’aria che aveva caratterizzato la polmonite di loro padre durante la guerra.
“Che febbre è?”
“38 e mezzo, a volte 39.”
“Ogni sera?”
“Ogni sera.”
“Da chi dobbiamo andare?”
“Se dovessi essere sincero non vorrei andare da nessuno.”
“Non essere ridicolo! Magari è solo per toglierci il dubbio.”
“Tu hai dubbi? A me sembra chiaro.”
Giulio aveva ragione, come sempre, e la sentenza fu inappellabile: carcinoma polmonare maligno, inoperabile, il referto terminava con la seguente prescrizione: non si consiglia alcuna terapia.
“Vedi, il lato buono della questione è che non devo fare niente, nessuno può costringermi a un ricovero e io non devo lottare per evitarlo, la vita scorrerà come sempre fino a che potrò mantenere la mia dignità.”
Elda iniziò a infittire appuntamenti, cene familiari, visite improvvise alla casa editrice, dovevano sembrare casualità ma sia lei che Giulio sapevano che non era vero, che lei moriva di apprensione e avrebbe voluto cogliere ogni attimo di quel che le restava della sua compagnia.
A Giulio in fondo non dispiaceva, riusciva a non pensarci ma i suoi amati momenti di solitudine adesso lo terrorizzavano; al contrario tirare tardi la sera, bere e fumare la pipa senza restrizioni, ridere con Pietro e i ragazzi erano il suo modo per sentirsi ancora vivo, bastava che non si sentisse commiserato. Per Elda era un tormento dissimulare l’angoscia in sua presenza. Al mattino si svegliava come sempre e poi si ricordava del suo peso nel cuore.
Dovette dirlo a Pietro e ai ragazzi, c’era poi la casa editrice, per Dario ed Emma fu un colpo tremendo.
Si prevedevano però alcuni mesi in cui Giulio sarebbe stato più o meno in forma e in cui non si fece che dire: in fondo sta bene, è sempre stato una roccia, magari i medici si sono sbagliati. Si andò avanti mentendo a se stessi, tutti, Giulio compreso, che anzi pubblicò l’opera di un esordiente e riuscì a vincere con questo romanzo un importante premio letterario. Quindi riunioni, spostamenti, viaggi, mondanità.
Poi Dario disse a sua madre, alquanto allarmato, che Giulio si assentava sempre più spesso dalla casa editrice. Così Elda iniziò a prendere confidenza con quel museo dell’antiquariato che era la sua casa, organizzata da uomini e per uomini, in cui qualsiasi donna non poteva non sentirsi a disagio, perfino le sue delle quali non vi era alcuna traccia, non una matita per occhi dimenticata in bagno, non una camicia da notte appesa dietro la porta della camera da letto.
Elda arrivava portando un ciambellone, una crostata, uno sformato, sempre avvertendo in precedenza. Chiacchieravano un po’ fino a che era Giulio a dire che si sentiva stanco e preferiva riposare. Era sempre ben rasato e vestito di tutto punto, mai vestaglia e pantofole, sempre accompagnato dal profumo della sua intensa acqua di colonia.
In una di queste visite incrociò per le scale la giovane moglie di un avvocato che più di una volta aveva visto in compagnia di Giulio, una bella donna bionda, alta e slanciata, fra i trenta e i quarant’anni, spesso l’aveva anche vista all’uscita delle scuole elementari che stavano dietro casa sua, mentre prendeva i bambini.
Si scambiarono un saluto furtivo, quasi imbarazzato.
Giulio le aprì la porta in pantofole, anche se perfettamente vestito e sbarbato, si reggeva al bastone del nonno, quello con la testa di cane d’argento.
“Scusami ero sdraiato sul letto.”
“Torniamo in camera tua allora.”
“Sì ma preferisco sedermi in poltrona.”
Giulio si avviò, mentre Elda passò prima dalla cucina per posare sul marmo una piccola pirofila con un gateau di patate ancora tiepido, guardò dentro il frigorifero e vide quasi intatta la porzione di pasta al gratin che aveva portato il giorno precedente. Nel lavello c’erano un piatto sporco, due posate, un bicchiere e una tazza, aprì il rubinetto per lavarli mentre Giulio gli diceva dalla camera da letto:
“Lascia stare, li fa domani Filippo, vieniti a sedere, prenditi una sedia…”
Elda passò dal salotto, prese una sedia imbottita e la portò con sé posizionandola di fronte alla poltrona di Giulio, nella sua camera da letto, lui non fece neanche un gesto di complimento per aiutarla.
“Come va?”
“Non riesco più a dormire.”
“Hai provato con un sonnifero?”
“Diversi, ma sembrano non fare alcun effetto, neanche il vecchio antistaminico che mi stroncava a ogni allergia primaverile. E poi una stanchezza infinita, mi sento proprio senza forze.”
“Lo vedo, sei anche dimagrito, e certo, se non mangi.”
“Mi dispiace per i tuoi pranzetti ma non ho proprio appetito.”
“Dolori?”
“Stranamente quelli non ce li ho.”
“Una cosa buona.”
Calò qualche attimo di silenzio, interrotto poi da Elda.
“Ma neanche un riposino ogni tanto?”
“Sì, appena posso mi stendo, ma riesco a perdere la veglia solo per alcuni minuti.”
“Il letto è di rosa, chi non dorme si riposa…”
Sorrisero entrambi, era una frase della nonna.
Accanto alla poltrona c’era il tavolinetto rotondo col ripiano di onice, dalla zia Teresa era passato a lui.
“Qui c’è tutto, anche il testamento.”
“Per favore non fare i discorsi di papà.”
“E quando li devo fare?”
Elda rimase in silenzio e Giulio continuò.
“Ho provveduto a trasferire tutto quello che c’era sul mio conto in quello della casa editrice, che va a Dario ed Emma. A Ruggero va la decapottabile, gli è sempre piaciuta… è tutta restaurata in un garage. Questa casa va a te ma promettimi di tenerla come riserva, nel caso in cui la casa editrice dovesse avere bisogno di una fidejussione.”
“In che stato è?”
“Non va male, eravamo di poco in attivo e con il mio versamento c’è una certa autonomia, l’ultimo romanzo vende bene, grazie al premio letterario e i libri d’arte sono una manna dal cielo, grazie a Emma.”
“Ma i ragazzi saranno capaci?”
“Non essere pessimista. Dai loro un minimo di fiducia.”
“Scusami.”
“Dario è forte ma per Emma qualsiasi fallimento sarebbe un duro colpo, dal quale non so come potrebbe riprendersi, ormai si identifica nel suo lavoro… è stata veramente brava, ricominciare tutto d’accapo, la laurea con 110 e lode… e poi vedessi ormai come padroneggia l’impaginazione, come sceglie le immagini, i colori, ha proprio una specie di intuito…” Giulio parlava con affetto, un sottofondo di preoccupazione e una punta di orgoglio. Perfino per l’ottuso comprendonio di Elda fu inevitabile giungere alla verità.
“Toglimi un dubbio, hai avuto una storia con Ottavia?”
Giulio la guardò a lungo.
“Ne ho avuto due o tre.”
“Che vuoi dire?”
“Lascia e prendi.”
“Anche prima che nascesse Emma?”
“Se vuoi sapere se è figlia mia non lo so, di sicuro non gli altri due.”
Si guardarono negli occhi per alcuni istanti. Poi dissero quasi in coro la stessa frase:
“Papà diceva che gli ricordava la mamma…”
“Glielo potevi dire, gli avrebbe fatto piacere…”
“Almeno avrebbe avuto la prova che non ero omosessuale.”
“Perché, temeva questo?”
“Sì, me lo chiese dopo il suo viaggio dallo zio Luca, nel dopoguerra. Era tornato turbato e non vedendomi mai con una ragazza iniziava a supporre teorie genetiche – poi rispondendo allo sguardo interrogativo di Elda – lo sai, vero, che lo zio Luca era omosessuale?”
“Nooo, lo zio Luca?” – Il pensiero di Elda non poteva che andare agli stivali lucenti, alle divise impeccabili, alla spocchia, ai raduni, alle marcette, alla maniacale cura dei suoi bicipiti.
“Ma guarda tu, quel fascista non riesce a farmi simpatia neanche con questa notizia! Ma papà come lo capì?”
“Papà in Calabria c’era andato perché temeva che lo zio potesse essere vittima di ritorsioni, dopo il suo passato nelle squadracce. Sai che lo zio Luca all’inizio si era fatto ospitare da alcuni parenti? Ecco c’era una delle ragazze di quella famiglia che prima s’era presa una sbandata per lo zio e poi per papà, fu lei a dirglielo.”
“Ma papà? Ancora nel dopoguerra?”
“Fu l’ultima volta. Sai, credo che si sentisse spiazzato dall’improvvisa emancipazione della mamma, quando lavorava per l’AMGOT. Ma dopo quel viaggio, che io sappia, Papà non ha avuto più alcuna storia ne si è più seduto a un tavolo da gioco.”
“Ma tu come le sai tutte queste cose?”
“Papà tornò in vena di confidenze col figlio maschio.”
“E lo zio Luca? Che fine fece? Non ne abbiamo più saputo nulla.”
“Sei tu che non ne hai saputo più nulla, a me è toccato seppellirlo a Catanzaro, manco zia Teresa è voluta venire, e ci voleva un parente.”
“Ma quando è stato?”
“Subito dopo papà, manco te l’ho detto.”
“Grazie.”
Restarono in silenzio per alcuni minuti e poi Elda lanciò uno dei suoi fendenti improvvisi:
“Ma perché hai lasciato che Ottavia si sposasse con Ignazio?” – ma già mentre parlava, vagando con lo sguardo fra i mobili e le suppellettili che popolavano quel regno della misoginia, capì di avere detto una stupidaggine, così cambiò discorso fissando uno scaffale vicino al letto.
“Il libro dei quatto moschettieri che vincemmo col concorso della Perugina! Era di tutti e due, sei terribile, l’hai preso tu!”
“E tu non l’hai mai cercato, disordinata come sei!”
Ora erano due adolescenti a parlare e a farsi dispetto, con i toni e le dinamiche di 60 anni addietro. Rapidamente scivolarono nei ricordi preferiti: i bagni a Mondello, il tram con la zia Teresa, l’uovo sodo nella sabbia, il caffè con la schiumetta del romanzo di Zuccoli. In mezzo alle risa Giulio interruppe per andare in bagno.
Elda rimase al suo posto ebbra di risate e ricordi e quando Giulio tornò, questa volta distendendosi sul letto, fu desiderio reciproco ricominciare da dove si erano interrotti.
Si persero nel gergo della loro infanzia e nessuno dei due voleva smettere. Fino a quando Giulio, leggermente impallidito, le chiese se poteva poggiargli sulle gambe il plaid che stava ripiegato accanto a lui. Si era fatta sera.
“Non vuoi spogliarti e metterti a letto?”
“No, grazie, preferisco restare così.”
Elda gli adagiò di sopra il plaid e sfiorando le sue mani le sentì fredde.
“Ora vai – disse lui – magari riesco a dormire un poco.”
“Ma non ti ho fatto mangiare il gateau che ho portato.”
“Sul serio, non mi va.”
“Magari stanotte ti svegli con un po’ di fame.”
L’indomani mattina, alle 8 e mezza, Filippo le telefonò da casa di Giulio, chiedendole di arrivare al più presto.
Elda trasalì riempiendolo di domande:
“Che ha? Sta male? Ha chiamato il medico? L’ambulanza?”
“Sì, ho già fatto signora, venga.”
Elda uscì di casa vestita alla peggio, corse alla fermata dei taxi a piazza Croci e si fece lasciare a casa di Giulio consegnando 10 mila lire senza attendere il resto.
“Dov’è? – chiese appena entrata – Che è successo? L’ambulanza?”
“Sono arrivato troppo tardi signora, mi dispiace, mi dispiace veramente” la voce era quasi rotta.
Elda corse nella stanza di Giulio che era nel letto, ancora nella stessa posizione in cui lei l’aveva lasciato, nessun segno di sofferenza sul volto.
“Ma come? – chiedeva a Filippo – Ieri sera ero qui, non stava male, come è potuto accadere?”
Le stesse domande furono ripetute al giovane medico che negli ultimi tempi assisteva Giulio, appena arrivò, convocato da Filippo.
Il medico rispose a Elda scrutandola per qualche attimo e, trovando solo disperazione, tagliò asciutto.
“Succede, del resto l’attendevano solo sofferenze e privazioni della sua autonomia.”
“Sì, ma questa cosa non riesce a consolarmi, avevamo ancora così tante cose da dirci…”
Il medico redasse il certificato di morte, lui e Filippo sembravano comunicare con gli occhi, in silenzio, in momenti diversi erano entrati in bagno.
Filippo era passato dal corridoio con un bicchiere in mano, era andato in cucina e l’aveva lavato insieme alle altre cose che erano rimaste nell’acquaio la sera precedente, poi aveva asciugato con cura tutte cose e le aveva riposte nei pensili.
Elda entrò in bagno, aprì l’armadietto, tutto era in ordine, il cestino era vuoto, poi andò in camera di Giulio, si sedette nella poltrona di pelle in cui lui era stato la sera precedente.
Arrivò la signora bionda, aveva un enorme paio di occhiali da sole che non riuscivano a nascondere gli occhi gonfi e arrossati, sembrava un ciclone, ma almeno era un’altra persona stupita e sconvolta quanto lei.
Elda si andò a sedere in salotto per lasciarla sola con Giulio. Sprofondò nel divano e iniziò a girargli la testa, vedeva Filippo gestire la situazione con estrema padronanza, aveva una minuta del necrologio scritta di pugno da Giulio, sapeva già quale impresa funebre chiamare, che ne sarebbe stato di lui? Ma sì, già, Giulio aveva provveduto a inserirlo nella casa editrice come segretario. Invidiava quella sorta di maggiordomo inglese che sapeva dove mettere le mani, lei non riusciva a fare nulla, neanche a pensare.
Prima il medico e poi la signora bionda si accommiatarono in fretta, era certa che non li avrebbe più rivisti, neanche al funerale.
Ormai le sembrava chiaro che Filippo e il medico sapessero cose che a lei sfuggivano, se era così perché lei e la signora bionda ne erano rimaste fuori? Era stata un’accortezza di Giulio, per proteggerle… o loro due, donne, non erano sembrate all’altezza di quei segreti?
Di sicuro non era stato un pasticcio di tubetti di Optalidon, la cosa doveva essere stata organizzata con cura, di sicuro Giulio l’aveva convocata apposta il pomeriggio precedente… forse anche la visita della signora bionda era stata pianificata come commiato, all’insaputa di lei… forse quando Giulio era andato in bagno, la sera prima, era stato per bere qualcosa lasciata lì dal medico.
Se era andata così, era dolce pensare che Giulio aveva scelto un momento in cui erano sereni e ridevano come bambini. Lui l’aveva detto:
“fino a che potrò mantenere la mia dignità.”
…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla
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