Elda, 55° e ultimo capitolo

Epilogo
un compleanno

Venerdì 14 maggio 2004, nell’appartamento al secondo piano del palazzo in via XX Settembre.

Erano già passati 12 anni. Elda, come sempre da allora, ricordava quel pomeriggio con la pelle d’oca e si commosse.

Ma che ore si erano fatte?

Controllò l’orologio dal display della radio sullo scaffale, mamma mia sono già le 9 e lei era ancora in vestaglia, seduta alla scrivania con quella pagina dei necrologi davanti a sé. Non le era mai successo di far atturrare la salsa e non era augurabile che ciò avvenisse il giorno in cui si festeggiavano gli 85 anni di quell’orgoglioso granlombardo di suo cognato Ignazio.

Elda si spostò in cucina a controllare  il pentolone con i pomidoro e le cipolle che sobbollivano placidamente, avevano cotto a sufficienza per fortuna senza attaccarsi al fondo, spense il fuoco e andò rapidamente a lavarsi e vestirsi.

Quando ebbe finito il contenuto era sufficientemente tiepido perché Elda lo potesse mettere nel passapomidoro. Organizzò il tavolo da cucina con l’intramontabile tegame di alluminio, il passapomidoro sopra e poi accanto l’altra pentola appena tolta dal fuoco. Con un ramaiolo bucato prendeva grandi manciate di pomidoro sfatto dalla cottura e cipolle ormai trasparenti, poi le versava nel passapomidoro e muoveva meccanicamente la manovella cullandosi nei pensieri. Lavorava con la consapevolezza di essere in ritardo, nonostante fosse come al solito nel suo perfetto treno di marcia.

I suoi ricordi si erano fermati al 1992 e Elda ora pensava che dopo quella bellissima catena umana c’erano state delle fiaccolate, poi un’imponente manifestazione nazionale dei sindacati e infine un commovente incontro col giudice Borsellino nel cortile della Biblioteca Comunale a Casa Professa. Quella fu l’ultima volta che lo si vide in pubblico, una serata struggente col giudice in lacrime che nessuno dei presenti avrebbe mai dimenticato… anche quello era un ricordo che la faceva quasi piangere; cercò di scacciarlo versando il liquido rimasto dalla passata, in modo che si tirasse il residuo di polpa attaccata alla buccia, ma la mente andò all’altro pomeriggio di lutto, quando era arrivata la notizia della strage di via D’Amelio e sembrò che si fosse raggiunto un punto di non ritorno. Quella volta i bambini capirono subito cosa era successo, in due mesi avevano già imparato cosa voleva dire vedere quelle immagini in televisione mentre i genitori bestemmiavano. Dario e Davide si precipitarono sul luogo della strage, poi si misero con altri a vagare dalla Prefettura al Municipio alla ricerca di un morto da commemorare, che non si sapeva neanche dove fosse finito. In Cattedrale poi si rasentò la rivoluzione, con Oscar Luigi Scalfaro, che era appena stato eletto Presidente della Repubblica, che rischiò di essere travolto dalla folla.

Elda ora aveva finito di passare la salsa e come ogni volta si compiacque nel constatare che per cinque chili di pomidoro aveva da gettare soltanto un solo pugnetto di buccia secca, essendo riuscita a recuperare da essa la parte di polpa migliore. Mise sul fuoco lento il pentolone di alluminio dentro il quale si era raccolta la salsa già passata, aggiungendo abbondante olio, sale, zucchero e basilico.

E così, pensava… mentre nel resto d’Italia non era ancora scoppiato lo scandalo di tangentopoli, il risveglio di Palermo aveva costituito un’avanguardia e il ritorno al protagonismo della generazione che aveva fatto il sessantotto: Dario, Gabriella, Emma, Giorgio, Davide e Maddalena erano impegnati come non succedeva da tanto tempo… e, per la commemorazione a un anno dalla strage di Capaci, sarebbero scese in piazza centocinquantamila persone. Per Palermo era una cifra astronomica e questi numeri, anche se non direttamente, pochi mesi dopo avrebbero portato a ridare la poltrona di sindaco al giovane Leoluca Orlando.[1]

Si mise a friggere le melanzane già salate, che stavano nello scolapasta a gettar via il loro liquido nerastro.

Ogni melanzana che infilava nell’olio bollente, c’era un frizzo che sapeva tanto di vita al Carrubo.

“Chissà a che ora torna Pietro!” pensava.

Ormai era in apprensione ogni volta che lui portava l’automobile. Si chiedeva se alla loro età fosse ancora il caso di guidare, ma non farlo avrebbe significato dipendere dagli altri per andare e venire dal Carrubo.

Quando ebbe finito di friggere le melenzane Elda si sedette al tavolo e iniziò a confezionare due teglie di anelletti al forno, disponendo strati di pasta con la salsa di pomodoro, e poi cucchiaiate di ragù di maiale, e poi le melanzane che aveva appena fritte e infine suoli di tuma fresca.

…così per sette anni con Orlando avevano avuto il piacere di vivere in una città Europea… come sarebbe piaciuta a Giulio quella Palermo! Una capitale della cultura con festival di teatro e cinema, con estati in città ricche di avvenimenti culturali che distraevano loro tutti dalla villeggiatura al Carrubo; con registi come Harold Pinter, Pina Bausch o Thierry Salmon che decidevano di debuttare a Palermo, con le strade piene di musica, con luoghi ritrovati come lo Spasimo e i Cantieri Culturali alla Zisa. Si era riaperto il Teatro Massimo, si era liberato il verde di Villa Trabia e il prato del Foro Italico…

…poi era rimasto il peso di vivere in una città malfatta e disarmonica. I palermitani sembravano adesso trasportati alla deriva nella dimenticanza della cultura, della ragione e delle idee, e da questo sfacelo veniva voglia di difendersi tuffando la testa nei libri e ascoltando buona musica…

…e loro erano rimasti lì, dei romantici perdenti arroccati come carbonari in quel palazzo… ma se loro erano i perdenti, chi erano i vincenti? Quelli che vivevano braccati dentro le stalle, nelle stesse condizioni di vita dei contadini del dopoguerra?[2]

Elda sentì arrivare l’ascensore e poi Pietro che apriva la porta di casa.

“Elda, ci sei?” le disse arrivando in cucina con due ceste piene di fave.

“Ti sei caricato le ceste da solo?”

“No, mi ha aiutato Dario, l’ho incontrato in portineria. Lo so che già c’è tanto cibo, ma ho dovuto raccogliere le ultime fave altrimenti marcivano per terra.”

“Mettile nel camerino che domani le faccio a coniglio, poi vieni a sederti che ti ho conservato un poco degli anelletti dei timballi.”

Il tavolo da cucina era apparecchiato a metà con il solo posto di Pietro e così lui le chiese mesto:

“Non vuoi proprio mangiare?”

“Lo sai che quando cucino mi si leva l’appetito, e poi sto assaggiando cibo da stamattina, come se avessi già pranzato. Ah, che bravo! Ti sei ricordato di portarmi il basilico fresco! Comunque ti terrò compagnia mentre mangi, non ti sentire abbandonato! Dopotutto sto preparando la cena per tuo fratello!”

“Hai ragione tesoro mio, scusami, forse ero di cattivo umore perché Ruggero è stato sfuggente al telefono.”

“Ma non devi insistere più di tanto per stasera. Se non ce la fa pazienza. In fondo è soltanto suo zio.”

“Si ma una volta che siamo tutti insieme…”

“Dai… – fece Elda mettendogli gli anelletti nel piatto – non ci pensare e mangia.”

“A che punto sei? Non è che ti stai stancando?”

“Tutto a posto, manca solo il pesce che lo porta Davide nel pomeriggio… e fra poco arrivano le ragazze per allungare la tavola e prepararla.”

Pietro finì di mangiare e andò a sedersi a leggere nella poltrona della veranda.

…E sì, Pietro non si dava pace da quando nei tanti servizi televisivi sui processi di tangentopoli aveva visto Ruggero, bello ed elegante insieme agli altri avvocati della difesa, correre dietro a un inquisito eccellente. D’altro canto – ripeteva Elda fra sé e sé – sia Guglielmo che sua Eccellenza avevano sempre detto che ogni imputato ha diritto alla sua difesa. E poi, in quegli anni Novanta in cui la sinistra aveva iniziato a guardare gli imprenditori con un occhio di simpatia, in cui si erano ammorbidite molte posizioni settarie del Partito, in cui Occhetto si era permesso di versare lacrime in pubblico o manifestarsi innamorato, due genitori comunisti potevano anche non fare molto caso al fatto che il figlio non fosse proprio schierato…

Bussarono alla porta e Elda andò ad aprire, erano Lucia, Eugenia e Stefania.

“Nonna – disse Lucia – eccoci qua, che dobbiamo fare?”

Elda baciò le ragazze:

“Per prima cosa dovete allungare il tavolo, poi ho messo sulla credenza la tovaglia e i pacchi di piatti, bicchieri e tovaglioli.”

“E perché ci sono pure tutti questi bicchieri di vetro?” chiese Lucia.

“Quelli di vetro li dovete mettere più in vista e quelli di plastica dietro, che li teniamo solo di riserva.”

“Ma sono quelli belli. Se si rompono?”

“Se non le mettiamo oggi le cose belle quando le dobbiamo mettere?”

“Appunto – disse Stefania – il nonno fa 85 anni!”

“Eugenia mettiti da quel lato a tirare il tavolo che io lo tiro da qui. A che ora arrivano zio Emanuele e Christine?” chiese Lucia mentre tirava.

“Alle sei e mezza, va papà a prenderli,” rispose Eugenia tirando dall’altro lato.

“Christine viene con Pier, vero?” disse Stefania con la tovaglia in mano.

“Certo, ormai sono sposati e aspettano un bambino – disse sua sorella Eugenia aiutandola a disporre la tovaglia – È simpatico Pier, vero?”

“Sì, sembra simpatico, fa il professore?” – chiese Lucia.

“Sì, insegna al liceo. Sai, stasera vorrei parlare con Christine e chiederle se mi può ospitare a Parigi per un periodo, nel frattempo mi cerco un lavoro lì, per fortuna io il francese lo parlo,” disse Eugenia.

“Ma sì, io credo che ne sarà felice, in cambio l’aiuteresti col bambino, quando nascerà,” fece Lucia.

“Appunto!”

“E te ne vai?” chiese sconsolata Stefania.

“Sorellina, ci vedremo sempre, che ci posso fare… non ne posso più di lavorare da precaria, qui lavoro non ce n’è.”

Elda ascoltava quel cicaleccio intenerita, poi passando dalla veranda vide che Pietro si era appena svegliato da un pisolino in poltrona, con la faccia scura.

“Di cattivo umore? Non è che pensi ancora a Ruggero? – gli chiese – Non è mai stato molto espansivo ma vedrai che verrà.”

“Va bene – disse Pietro rassegnato – speriamo così…”

Le ragazze avevano finito di apparecchiare, andarono in veranda per salutare Elda e Pietro e poi lungo il corridoio verso la porta d’ingresso, l’aprirono per scendere al primo piano quando si aprì l’ascensore e ne uscì Davide.

“Elda, ti ho portato il pesce. Te lo sistemo in frigo?”

“Grazie, Davide – disse lei andandogli incontro e poi accompagnandolo in cucina – il pescespada lo metto in frigorifero, le sarde invece lasciale sul lavandino che fra poco le friggo per la pasta, ti sei assicurato che le abbia pulite?”

“Sì, le ha pulite davanti a me,” disse Davide vagando per la cucina con quel grosso pacco avvolto alla meglio, mentre Elda temeva che sgocciolasse.

“Ha giurato che è freschissimo, altrimenti non te lo dava.”

“Sei stato gentile ad andarci – fece Elda – il mio vecchio pescivendolo ha deciso proprio oggi di abbandonarmi!”

“Ma figurati! A me veniva di passaggio, anzi dimmi se posso fare qualche altra cosa, ho paura che ti possa stancare – Davide si compiaceva, guardandosi attorno, nel constatare come anche quella volta Elda fosse stata in grado di mettere in funzione la sua potente macchina organizzativa – ce la farai da sola?”

“Ho già fatto quasi tutto – disse Elda spostandosi verso il lavandino – le teglie di anelletti sono a casa tua, che Maddalena stasera le mette nel vostro forno. Agli antipasti ci pensa Emma e alle insalate Gabriella. Poi c’è la torta di Maddalena. Io sto finendo la caponata e poi ho già fritto le polpettine e le melanzane. A parte questo mi manca soltanto la pasta con le sarde e poi la ruota di pescespada. Ma quella è soltanto da mettere in forno perché le patate sono già pelate e tagliate! Forse alla mia età non ho più l’energia di una volta, ma sembra che me la cavi lo stesso.”

“Altroché se te la cavi! Vorrei avere la stessa tua energia,” disse Davide osservandola mentre volteggiava con quel corpo asciutto, vestito di una paio di pantaloni larghi e una casacca che le arrivava ai fianchi. Con quella candida acconciatura che le illuminava il viso era ancora una bella donna! “A proposito, adesso tocca a te, quest’estate compirai 80 anni!”

“Zitto! Che non ne voglio neanche parlare,” disse lei mentre lavava sotto il rubinetto i finocchietti di montagna.

“Maddalena mi ha detto che le compagne dell’UDI vorrebbero organizzare qualcosa per celebrarti.”  

“Sì lo so, ma non mi pare proprio il caso!”

“Ma perché? Papà sì, domani all’Istituto Gramsci, e tu no?”

“Ma che c’entra! Non abbiamo lo stesso peso politico e poi… non mi sembra giusto per Pietro. Quando li ha fatti lui 80 anni, nessuno ha organizzato niente.”

“Sì, mi dispiace. Sai quanto voglio bene a Pietro. Però, forse per sua scelta, si è defilato dalla politica ormai da tanto tempo.”

Elda srotolò il pacco delle sarde sullo scolatoio del lavandino e si mise a guardarle una ad una, assicurandosi che fossero ben pulite senza la lisca, la coda, la testa, le squame e allinguate. Le sciacquò quindi accuratamente sotto il rubinetto e si rivolse a suo nipote:

“La sinistra fa presto a dimenticare.”

“È che tu ti sei rimessa in campo mille volte – disse Davide – fino al Comitato dei Lenzuoli. Poi hai scritto tanti libri e ancora adesso sei sempre presente – poi, avanzando verso di lei, rubando nel frattempo una melanzana fritta – guarda che alle assemblee, appena prendi tu la parola, non si sente volare una mosca. Sei un punto di riferimento, inutile che ti tiri indietro. Che ti succede?”

Elda, dopo averlo rumorosamente cercato nello stipo, prese un tegame di alluminio basso e largo, col fondo spesso e i manici di rame, lo pose sul fuoco e lì dentro iniziò a rosolare la cipolla grattugiata, poi osservò pensierosa:

“Non lo so, da stamattina penso a tante cose.” Davide a quel punto si incupì:

“Giornata strana oggi. Vero? Io penso alla mamma, continuo a chiedermi come sarebbe se ci fosse lei.”

“Forse Ignazio avrebbe smesso prima o poi di fare politica.”

“Invece non ha smesso mai, anche più di prima. Credimi, certe volte ho sperato che spuntasse fuori qualche giovane compagna.”

Elda continuava a fare appassire ben bene la cipolla, poi aggiunse le passoline e i pinoli e spense il fuoco.

“Sembra incredibile! Tuo padre non è riuscito a sfruttare la vivacità di quel palazzo neanche da vedovo. Ogni ufficio di Botteghe Oscure nascondeva la stessa storia: il dirigente con la giovane compagna. Fino a che quei ‘cattocomunisti’ trasferivano uno dei due in un’altra federazione. Tua madre era invece troppo simpatica per essere dimenticata, riusciva a dargli quel tocco frizzante che a lui mancava…”

Elda nel frattempo aveva preso una padella che stava appesa vicino ai fornelli, vi aveva versato un poco d’olio e aveva iniziato a friggere le sarde, fece un mugugno ritraendosi da uno schizzo d’olio.

“Vuoi che ti dia una mano?” chiese Davide.

“Se insisti ti prendo le polpette da arrotolare dentro le melanzane. Ti va?”

Davide annuì, Elda levò dal fuoco il pentolino, passò uno strofinaccio bagnato sul tavolo di marmo, poi prese un piatto con le polpettine già fritte e un altro con le melanzane del mattino. Quindi prese una grossa pirofila e vi versò uno strato di salsa. Davide nel frattempo iniziò a prendere le polpettine e ad avvolgerle una a una dentro una mezza fetta di melanzana, per poi posizionarle ordinatamente dentro la pirofila.

Elda finì di friggere le sarde e vi aggiunse il condimento della pasta, assaggiò il sugo e lo coprì.

“Ecco questo è fatto, le altre sarde poi le metto alla fine!”

“Certe volte penso che la politica abbia rubato a papà la giovinezza – continuò Davide arrotolando i suoi fagottini – in realtà anche a me…”

“Dovevi continuare… quelli che sono rimasti sono tutti peggiori di te.”

“Non ho avuto la sua capacità di resistenza. Troppe liti.”

Elda era in piedi con un braccio appeso allo sportello del frigorifero, scrutando interrogativamente i ripiani:

“Cosa stavo cercando? Ah, sì giusto! I carciofi e le uova per la maionese.”

Dopo aver tirato fuori l’una e l’altra cosa li posò sul tavolo, poi si accovacciò in una sedia con una pesante ciotola bianca in grembo a montare la maionese e si rivolse nuovamente a suo nipote:

“Comunque riuscivamo a litigare anche a casa. Ti ricordi, quante discussioni a tavola?”

“E che diceva papà in quelle occasioni? Il Partito, l’Unione Sovietica… e poi è andato a Rifondazione con i protagonisti della scissione del Manifesto…” continuò Davide.

“Ti pare poco? Dimmi tu chi è stato capace come lui di rimettere tutto in discussione. Per la nostra generazione il PCI era l’unica via di riscatto ed era difficile ammettere gli sbagli. Dopo la grande stagione che Ignazio aveva vissuto in quel partito, lo sai tu, a proposito di tradimenti, che cosa aveva dovuto sopportare lì dentro? Lo sai cos’è stato per noi nel ‘47, avere tutto quel consenso e vederci scippare le elezioni? Da una organizzazione che neanche riuscivamo ad immaginare così granitica. E lo sai che cosa è voluto dire riorganizzare il PCI dopo la sconfitta e farlo diventare un grande partito d’opposizione? Qualcosa che ha garantito la democrazia per cinquant’anni! Guarda in che schifo siamo adesso, senza quel partito!”

Nonostante la veemenza, la maionese di Elda stava prendendo corpo così lei, abbassando il tono della voce, come se avesse timore di farla impazzire:

“Tuo padre ha avuto il coraggio, a un certo punto, di compiere un’analisi critica e coerente, di difendere quello in cui aveva creduto tutta la vita, ha scritto delle cose bellissime. Probabilmente non era stato tanto sordo in precedenza – prese con un cucchiaino un po’ di maionese per tastarne la quantità di sale e poi spruzzò dentro qualche goccia di limone:

“La vecchiaia non porta solo acciacchi, certe volte regala la lucidità per poter rivedere tutta la propria vita in modo diverso.”

Assaggiò nuovamente la maionese e ne offrì un cucchiaino a Davide, che plagiato dal sapore buttò giù fra il sarcastico e il sentimentale:

“… e riesce meglio di me a tirarsi dietro i giovani… sul serio, sembra un campione di infaticabilità – disse Davide – certe volte mi viene l’apprensione a vederlo percorrere il mondo da un social forum a un G8, da una manifestazione a Sigonella a un’altra a San Giovanni.”

“È proprio adorato dai giovani… e meno male – disse Elda – in questo periodo di sconfitte sembra che solo lui sia ancora capace di attingere manciate di esperienza dalla propria storia, per regalarla all’opposizione sfiancata che è diventata la sinistra palermitana.”

Per niente appagato da quel solo cucchiaino, Davide iniziò a saccheggiare la ciotola con manciate di pane. Poi insieme a Elda rimase a fissare la maionese:

“Adesso cosa ne fai, di questa?” le disse, tornando poi a tuffare un altro pezzo di pane. Elda se ne accorse e cercò amabilmente di scacciargli la mano mentre lo rimproverava:

“Ma guarda tu? Stai lasciando tutte le briciole! Questa, se ne lasci un poco, dovrebbe servire per i carciofi!”

Ambedue risero, tornando a dileggiarsi come quando Davide era ragazzino.

“Quella – disse Elda indicando il condimento della pasta con le sarde – la cuocio verso le sette e poi la passo un attimo nel forno dopo cotta, con il pangrattato sopra, così incrocchia un poco.

“Sopra ci metti le mandorle tritate e tostate?”

“Sì, e anche le sarde disposte a raggiera.”

“Di pasta cosa metti, i bucatini? Già sono morto di fame!”

“Guarda che mancano alcune ore alla cena, quindi se hai già appetito fatti un panino!”

“Colpa tua che non mi fai mangiare la maionese!” protestò Davide.

“Comunque – riprese Elda ridacchiando – preferisco quelli un po’ più grossi, i maccheroncini, sono più tradizionali anche se difficili da prendere con la forchetta.”

“Ma alla fine chi viene?” disse Davide mentre Elda irrorava di salsa le polpettine che Davide aveva finito di sistemare nella pirofila.

“Allora: Ignazio, Emanuele con Christine e Pier; poi tu, con Maddalena, Eugenia e Stefania; poi Emma, con Giorgio ed Emiliano; poi Dario, con Gabriella, Lucia e Alberto. Poi… – elencava Elda mentre spolverava del parmigiano sulle polpettine – Poi Pietro e io e poi Ruggero non si sa mai quello che fa, perché forse non verrà.”

Elda infilò la pirofila nel forno e iniziò ad andare e venire dalla sala da pranzo portando vettovaglie. A questo punto Davide si mise a lavare alcuni tegami che Elda aveva accatastato nell’acquaio.

“Davide, grazie ma non fare tardi, alle sei e mezza devi essere all’aeroporto per prendere Emanuele,” urlò Elda dal corridoio.

“Lo so Elda, sono le cinque, finisco questo e vado.”

Si aprì la porta ed era Dario:

“Ancora qui Davide? Non dovevi andare a prendere Emanuele?”

“Sì, sto andando, ho finito.”

“Volevo aiutare mia madre ma vedo che hai già fatto tutto tu,” fece Dario posando lo sguardo sul grembiale a fiorellini indossato da suo cugino.

“Ti rifarai più tardi, ciao tesoro come stai?” disse Elda entrando in cucina.

Davide si tolse il grembiale, salutò e andò via.

“Dov’è papà? Alberto voleva essere aiutato a ripassare filosofia,” chiese Dario a sua madre sedendosi al tavolo della cucina.

“Credo che sia in veranda a leggere, tenetelo occupato perché non è di ottimo umore.”

“Ruggero?”

“Ancora non si sa se viene.”

“E papà sta facendo la solita tragedia?”

“La verità è che tuo padre ha la sensazione che voglia snobbare la cosa di domani al Gramsci.”

“E se anche fosse?”

“È che tuo padre teme che non venga per polemica. Ogni tanto lo assale il dubbio che sia diventato di destra.”

“Ma io non ci credo. Non è di destra… semmai non è di sinistra… mamma non è stato facile crescere con genitori come voi. Gli avranno dato a noia troppi discorsi di politica, in questa casa non si parlava d’altro…”  

Elda si sedette al tavolo accanto a suo figlio. Ormai tutto era a buon punto e poteva rilassarsi per un po’.

“Che vuoi dire Dario? È stata veramente così dura per voi?”

“A parte le prediche a scuola perché non eravamo battezzati, non è stata così dura. Stavo solo scherzando.”

“Ero sicura che ci avreste apprezzato per la nostra diversità, perché eravamo meno bigotti degli altri.”

“Meno bigotti non lo so. Comunque io non sono neanche autorizzato a parlare. Ho portato i miei figli a ogni catena umana dopo le stragi del ‘92 e quelli adesso manco partecipano alle occupazioni a scuola.”

Dalla veranda si sentiva la voce di Alberto che ripeteva Aristotele e poi i commenti di Pietro, amabili e pacati.

“Andiamo a sentirci un po’ di musica in salotto, mamma, così ti riposi un pochino.”

“Sì, ma ricordami che ho le polpette nel forno.”

Durante il lento assai del Quartetto per archi di Ravel bussarono alla porta, Dario andò ad aprire ed era Ignazio con Prospero.

“Oh, il festeggiato! Cane come stai?” disse Pietro che arrivava dal corridoio con Alberto, abbracciando poi Ignazio così come suo figlio e suo nipote, mentre Elda gli mandava un bacio dalla sua poltrona.

“Come sto? Come i vecchi, tornavo da una riunione per lo sciopero generale della settimana prossima. Che bello Ravel, fatemi sedere.” Ignazio si abbandonò sul divano e Prospero, barcollando da vecchio cane, con la testa bassa si fece carezzare dai presenti per poi coricarsi ai piedi del suo padrone, lanciando rumorosi lamenti.

“I vecchi veramente non fanno la vita che fai tu,” disse Dario a suo zio.

“Caro mio, qui appena uno si ferma è perduto, domani mi commemorano in vita, stanno aspettando che muoiono gli ultimi compagni come me per levare ‘comunista’ e falce e martello da ogni simbolo elettorale. Non ho nessuna voglia di levarmi di mezzo.”

“Sottraiamo tempo alla morte,” fece Pietro.

“La volete finire tutti e due?” fece Dario.

“È così! – continuò Ignazio – Io per potermi considerare in pareggio col tempo avrei dovuto avere due o tre vite a disposizione.”

“Ogni misurazione ti sarebbe risultata comunque troppo stretta,” disse Pietro.

“Io non è che abbia paura della morte, è che ancora ci sono tante cose da fare. Ogni battaglia mi ci butto come se fosse l’ultima. La politica questo è, stiracchiare, comprimere e deformare il tempo.”

“Se dovete parlare di queste cose, io mi vado a immergere nella vasca da bagno,” disse Elda alzandosi.

“Mamma ricordati delle polpette,” disse Dario.

“Giusto, puoi toglierle tu dal forno?” chiese lei andando verso il bagno.

“Va bene,” rispose Dario.

Elda era immersa nell’acqua con la testa infilata fino alle orecchie.

Decise che quello era un momento giusto per sfuggire alla tirannia del tempo. E non si trattava solo del riposo per quella giornata… chissà cosa sarebbe rimasto del suo mondo…  già non era capace di riprodurre in mente la risata di Giulio! L’unica cosa che le dispiaceva era dover lasciare tutto un bagaglio di modi di dire, sensazioni, gusti… la Principessa in fondo, prima di morire, aveva ripercorso con lei l’eredità del suo mondo, solo ora si accorgeva di averle fatto un favore!

Elda si rizzò di colpo, mettendosi seduta nella vasca, cosa aveva detto a proposito di Guerra e Pace? Non se lo ricordava, doveva essere qualcosa del tipo dietro le vite dei personaggi scorre la storia… forse non aveva detto così ma era quello che adesso Elda pensava, e ci metteva del suo… perché l’accadere delle vicende umane, di tante piccole vite, diventa universale ed esemplare soltanto quando queste esistenze riescono a mettersi in relazione le une con le altre, a raccontarsi e a dare un senso a quello che è stato fatto. Soltanto così si può gabbare il tempo e trasformarlo in storia.

Mentre prendeva i vestiti dall’armadio sentiva in lontananza i discorsi di Ignazio e Pietro:

Cane te lo ricordi quando arrivarono gli americani a Villalba?”

Cane vile, come no? Al posto dei carri della banda del Taz-zim dallo stesso punto arrivarono i carri armati.”

“Che è la banda del Taz-zim?” chiedeva Alberto seduto accanto suo nonno, col manuale di filosofia in mano.

“Quando eravamo bambini, nel giorno del Patrono, la festa iniziava andando ad aspettare, all’ingresso del paese l’arrivo, dei carri dei musicisti della banda.”

“Scendevano dai carri prima dell’inizio dell’abitato, si disponevano tutti impettiti e cominciavano a suonare, per fare l’ingresso trionfale nella strada principale.”

“E noi bambini, io Pietro e gli altri, li aspettavano ogni anno nel punto più lontano, per poter cogliere il momento in cui cominciavano a suonare.”

“Già dalle prime note si poteva capire se quella era o no una banda del Taz-zim.

“Taz-zim?”

“Sai quando gli strumenti non riescono ad attaccare insieme? È li che si sente il Taz-zim.”

“E se c’era il Taz-zim correvamo urlando al resto del paese: Un’altra Banda del Taz-zim è!”

“Ma quando arrivarono gli americani noi già lo sapevamo.”

“Come già lo sapevate?”

“Perché da noi abitava il capomafia di tutta la Sicilia e a Villalba già si sapeva quando sarebbero arrivati gli alleati, erano d’accordo, qualcuno sapeva il giorno e l’ora. Erano appattati!

“Ti ricordi quel picciotto? Che poteva essere il figlio di qualche contadino siciliano, però era vestito con la tuta mimetica e l’elmetto, pigliò dalla tasca un foglio di carta e si mise a leggere: Excuse me, do you know Mister Vizzini? Io volere parlare with don Calogero Vizzini, tu puoi purtarimici?”

Alberto li guardava assorto, mentre Dario sfogliava l’ultimo numero dell’Espresso, doveva aver sentito quella storia altre volte.

“E così abbiamo capito che la guerra non era finita e che il nuovo nemico era la mafia, che già si alleava con gli alleati e con i proprietari terrieri.”

Bussarono di nuovo alla porta e ancora Dario andò ad aprire, seguito da Pietro.

Cane come stai?” – erano Emanuele e Davide.

Prospero si rizzò stancamente lanciando degli abbai soffocati, ma dagli abbracci commossi di quegli umani si sentì ancora una volta beffato, lui era l’unico vero cane e invece i maschi di quel branco solevano appellarsi col nome della sua specie, tanto valeva tornare a dormire e si riaccucciò.

Cane, figlio mio, come stai? – disse Ignazio alzandosi – Ma perché tutti questi capelli bianchi?”

“Papà, ho appena compiuto 57 anni e sto per diventare nonno!”

“Ragazzi, qui l’unico cane autorizzato a sentirsi vecchio sono io, che oggi compio 85 anni. A proposito come va Christine?”

“Si è fermata giù dalle cugine, è al quarto mese e già sappiamo che è una bambina.”

“Un’altra? – fece Davide – Abbiamo una maggioranza di femmine, speravo che la prossima generazione riuscisse a riequilibrare il conto.”

“Voi eravate tutti maschi – disse Ignazio – a parte la mia Emma.”

“Io invece sono felice che sia una femmina, anche Christine e Pier volevano una femmina e anche Rosemarie,” disse Emanuele.

“A proposito – disse Davide – come sta Rosemarie?”

“Si è risposata…”

“E tu?”

“Basta! Sono troppo vecchio… a proposito cane – disse dando pacche sul braccio di suo padre – ti porto i saluti di Igea e Vittorio.”

“Quando li hai visti? Come stanno?”

“Sono andato in Toscana da Claudio un mese fa, stanno bene, certo hanno la loro età…”

La porta era rimasta aperta e arrivò Emma, bella e slanciata, con un paio di jeans stretti, una camicia di seta e un carré vaporoso. Fratello e sorella si abbracciarono a lungo.

“Sempre bella la mia sorellina.”

“Emanuele, come stai? Ho appena salutato Christine al piano di sotto – poi rivolta a Dario, sollevando un sacchetto che conteneva dei contenitori di plastica – c’è Elda? Ho portato le spume!”

“Credo si stia cambiando – rispose Dario – Queste portiamole in cucina. Piuttosto, com’è andata col grafico.”

“Meglio non rovinarci la serata.”

“Hai ragione,” disse Dario aiutandola a posare i contenitori sul tavolo della cucina.

“Grazie tesoro!” disse Elda, entrando svolazzante nel suo paludamento sobrio, composto da una completo di maglia di seta blu con blusa e pantaloni, guarnito da due fili di perle.

“Mamma! Ti sei truccata!”

“Ha soltanto un poco d’ombretto celeste, quanto sei antipatico!” fece Emma.

Elda aprì il forno e infilò la teglia di pescespada.

“Mamma ti stai rimettendo al lavoro, ora che sei tutta vestita per la serata? – disse Dario – Perché non vai in salotto? Ci sono già Davide ed Emanuele.”

“Ho da controllare il pesce ogni dieci minuti, poi vado, piuttosto Dario, vai da Maddalena a vedere a che punto è la pasta al forno.”

Dario aprì la porta per andare al piano di sotto, poi si fermò con la mano sulla maniglia:

“Non ho capito che bisogno c’era di fare due tipi di pasta!”

“Perché a Ignazio piace la pasta con le sarde e invece i ragazzi la lasciano tutta nel piatto, su vai! Emmuzza, le spume mettile in quelle terrine che ho preparato lì sopra.”  

Emma iniziò a trasferire le spume ed Elda le chiese:

“E i tuoi graziosi ragazzi dove sono?”

“Si sono fermati giù a salutare Cristina, senti, so che ora sei indaffarata ma ti volevo parlare.”

“Dimmi adesso, tanto devo aspettare il pescespada.”

“Ecco… nel palazzo si è costituito il condominio e ha deciso di chiedere i finanziamenti all’Assessorato al Centro Storico, per rifare la facciata, il cortile e i tetti, però nel frattempo bisogna anticipare dei soldi.”

“E quanti sarebbero?”

“Ecco, appunto, di questo volevo parlarti, sarebbero diecimila euro ma ce li vorrei mettere io e a quel punto io e Giorgio volevamo chiederti, perché… noi a quella casa siamo tantissimo affezionati.”

“Questo mi fa piacere.”

“E appunto ti volevamo chiedere se potevi vendercela, papà potrebbe darmi un grosso anticipo e Giorgio potrebbe avere il mutuo agevolato.”

Elda aveva quasi tuffato la testa dentro il forno per irrorare il pesce di salmoriglio, e lo faceva lentamente, anche per prendere tempo.

“Mi sembra quasi pronto.”

Emma aspettava la risposta ormai da qualche minuto e da quella postazione Elda si decise a risponderle, senza però guardarla negli occhi.

“Emma, in quella casa puoi spenderci tutti i soldi che vuoi, quando morirò sarà tua.”

“Lo dici veramente? Ma come…e Dario e Ruggero?”

“Con loro ne ho già parlato – disse Elda rialzandosi a fatica e parlando a braccio – del resto noi siamo una famiglia allargata… è una cosa che ho deciso da tempo… ho sempre pensato che fosse giusto così e penso che Giulio sarebbe d’accordo.”

Emma era frastornata e parlava lentamente.

“Giulio mi ha dato fiducia quando ne avevo bisogno ed è stato tanto paziente con me…”

“Mi sono perso qualcosa?” fece Dario entrando e trovando Elda ed Emma che si fissavano una davanti all’altra con gli occhi che brillavano. Quest’ultima si spostò a guardare dalla finestra.

“Cose da donne, vai a portare il pane di là, va!” disse Elda mettendogli in mano il cestino del pane e spingendolo da un braccio.

Nel frattempo arrivarono Davide e Maddalena con le teglie di pasta al forno e Elda li osservò con una certa apprensione mentre rivoltavano quei timballi. Poi Davide ne portò uno in salotto e Maddalena tornò a casa sua a prendere la torta al cioccolato. Elda decise che il pescespada era pronto e lo estrasse con la sua teglia dal forno, mentre Emma si girava a guardarla con lo sguardo rapito, dicendole:

“Ti voglio bene.”

Elda le sorrise e le fece una carezza:

“Su tesoro, andiamo a festeggiare tuo padre, vai avanti con l’altro timballo.”

“Sì!” disse Emma prendendolo e andando via.

Poi dalla porta del soggiorno iniziarono a sentirsi gli altri arrivi. Giunsero tutte le ragazze coccolando la pancia di Cristina, si sentiva Pietro che salutava Pier in francese, poi Giorgio che salutava Pietro e la voce adolescenziale di Emiliano che salutava suo cugino Alberto:

Cane come stai, ancora a studiare?”

Ma ormai Prospero doveva aver capito il gioco, era tutto un chiamare cane che non lo riguardava. Poi dalla cucina si sentì il rituale strillo:

“No! Prospero! Quello no!”

Poi arrivò l’ultimo cane:

Cane! Sei arrivato figlio mio!” fece Pietro.

“Certo che sono qui, canazzo vile! Dov’è la mamma?” – era la voce di Ruggero.

Elda, con gli occhi gonfi di gioia, finì di spolverare di mandorle tostate la pasta con le sarde.

“Elda dove sei? – gridavano tutti dall’altra stanza – esci fuori dalla cucina!”

Elda arrivò brandendo la sua pirofila di pasta con le sarde come fosse un trofeo.

“Eccomi!”

…fine del romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati sono stati caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.

Ringraziamenti

Elda è nato come racconto nei primi anni duemila, ed è stato grazie al suggerimento di un gruppo di amici con i quali mi riunivo, “gli scriventi”, che è diventato un romanzo; sono Beatrice Monroy, Enzo Di Pasquale, Marco Pomar, Elena Pistillo, Gianfranco Perriera, Martino Grasso e Rossella Floridia. Devo molto a loro, che mi hanno seguita e incoraggiata durante la prima stesura, in particolare a Beatrice Monroy che ha curato un primo editing. Il romanzo è stato poi ampliato nella seconda parte grazie ai suggerimenti di alcuni amici, fra cui Beatrice Agnello, che con pazienza mi ha guidata in questa seconda stesura. Dopo alcuni rifiuti da parte di case editrici, il romanzo era rimasto chiuso nel cassetto per un decennio fino a quando la mia amica Silvana Fernandez, con affetto e determinazione ha organizzato un nutrito gruppo di lettori, i cui giudizi positivi mi hanno incoraggiato ad auto-pubblicare il romanzo. Infine, sono grata a mio marito Jesse, lettore attento di ogni riga che scrivo, osservatore critico di ogni mia illustrazione, la prima persona a cui oso mostrare il mio lavoro.

Maria Adele Cipolla

A richiesta dei miei lettori allego un albero genealogico di tutti i personaggi del romanzo, grazie per avermi seguita fin quì


[1] Nel novembre del 1993, nelle prime elezioni dirette dei sindaci mai tenute in Italia, Leoluca Orlando fu eletto al primo turno sindaco di Palermo con il 75% dei voti. Dal 1885 al 1990  era già stato sindaco di Palermo, eletto nella Democrazia Cristiana e artefice di una esperienza politica interessante, la “Primavera di Palermo”, durante la quale aveva formato una giunta composta anche da esponenti della sinistra, compiendo una forte rottura con le pratiche politiche del passato. Nel 1991 era uscito definitivamente dalla Democrazia Cristiana, fondando il Movimento per la Democrazia “La Rete”.

[2] Era così che viveva in quel momento Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra.

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