Questo capitolo è letto da Brenda Liotta
Era il sabato di uno di quei week-end primaverili al Carrubo che facevano intravedere l’estate alle porte. Al mattino Maddalena e Gabriella erano scese alla tonnara a prendere il primo sole e si erano anche tuffate per un breve bagno. Elda e Emma avevano deciso di dare la rinfrescata di stagione alla stanza grande, svuotando la credenza per buttare il cibo scaduto, pulire i ripiani e lavare stoviglie e bicchieri. Avevano aperto le finestre e spolverato, avevano spazzato e passato lo straccio sul pavimento, mentre Pietro aveva sistemato sotto il pergolato le sedie a sdraio che d’inverno affollavano un angolo di quello stanzone.
Dopo pranzo, mentre Elda e Emma stavano finendo di rassettare, Ignazio e Pietro si erano stravaccati nelle sdraio al sole a sonnecchiare e videro trascinarsi verso di loro un cane lercio e scheletrico che camminava di traverso e che si buttò ai piedi di Ignazio.
“E ‘sto cane? Da dove viene?” fece Pietro.
“Emmuzza porta un po’ di latte che qui c’è un cane che sta morendo!” gridò Ignazio.
Emma uscì fuori con una scodella di latte mentre Elda e Giorgio la seguivano.
“Poverino – disse Giorgio – chissà da quanto tempo non mangia, vado a prendere del pane da spezzettare dentro, altrimenti il latte da solo può fargli male.”
Prima che Giorgio tornasse il cane aveva bevuto tutto il latte, e poi bevve un’altra ciotola con pane e latte.
“Ancora fame ha l’armalo, fece Ignazio, che gli diamo?”
Si passò ai resti del pranzo e alle briciole di biscotti che Emma e Elda stavano buttando. Finalmente il cane alzò gli occhi riconoscente e si ributtò ai piedi di Ignazio.
“E ora che facciamo? – chiese Elda – ‘Sto cane da qui non se ne va più.”
“E mischino stava morendo,” disse Ignazio intenerito.
“Sì ma domani torniamo a Palermo, che ne facciamo?
“Canazzo, con te vuole stare,” fece Pietro.
“A quale cane ti riferisci, a me o a lui? – chiese Ignazio che poi si abbassò e prese la testa del cane fra le mani – Con me vuoi stare? Ma io non sono bravo a crescere cani. Giorgio, quanto avrà ‘sto cane?”
“Secondo me un anno, ha ancora le zampe grandi, stando bene sarebbe bello, per ora poverino è pelle e ossa ma è di una dolcezza disarmante.”
“Chissà chi l’ha abbandonato – fece Emma – se lo lasciamo andare questo muore.”
“No armaluzzo, che dici? – fece Ignazio al cane – ti facciamo diventare più prospero?” Il cane sembrava rispondergli con gli occhi, poi gli poggiò una zampa sul braccio e lo leccò.
“Dai papi, pigliatelo,” fece Emma.
“E come faccio?”
“Appunto Emma, come fa?” disse Elda temendo che poi sarebbe stata lei a occuparsene.
“Se me lo prendo me lo porto sempre appresso, ci metto un fazzoletto rosso e ne faccio un compagno, il compagno Prospero.”
Emma diceva sottovoce a Elda:
“Dai, che ora che sta da solo gli fa compagnia.”
“Ma sì, hai ragione, ma almeno dategli una lavata prima di farlo entrare in casa, che è lercio.”
“Giorgio vai a chiamare i bambini, che lo laviamo tutti insieme,” disse Emma.
Da qualche anno i due magazzini esterni erano stati sistemati ad abitazione, uno per Davide e Maddalena con Eugenia e Stefania, l’altro per Dario e Gabriella con Lucia e Alberto.
Nella casa madre erano rimasti Elda, Pietro e Ignazio nelle loro vecchie stanze, mentre in quella che un tempo era la grande stanza dei bambini ora stavano Emma con Giorgio e il piccolo Emiliano, la stanza di Giulio serviva per gli ospiti e in quell’occasione era stato sistemato Ruggero, in visita per il week-end da Roma.
Arrivarono di corsa i bambini:
“Dov’è il cane del nonno?”
“Dov’è il cane di Ignazio?”
Dietro stavano Maddalena e Gabriella bruciate dal primo sole, più indietro Dario e Davide.
“Prima di abbracciarlo laviamolo che è tutto sporco,” disse Eugenia, che tredicenne si atteggiava a saggia.
“Che bello chiamiamolo Rex!” disse sua sorella Stefania.
“No, già si chiama Prospero” disse Ignazio.
“Nonno, ma Prospero è un brutto nome, perché lo vuoi chiamare così?” protestò Stefania.
“Perché ha lo stesso sguardo del compagno Prospero Palmieri di Vallelunga e poi Prospero era pure il protagonista della Tempesta di Shakespeare.”
“Va bene…” fece Stefania.
Giorgio srotolò il tubo di gomma che serviva per irrigare e si misero tutti a lavare il cane, schizzando acqua e schiuma dappertutto. Prospero sembrava molto contento di quelle attenzioni. A un certo punto, mentre i bambini erano completamente inzuppati, improvvisamente si erano condensati degli ammassi di umido sulle loro teste.
“Mamma sento freddo,” disse Alberto.
“Si mamma, pure io sento freddo,” disse Lucia.
“Mi sa che ci siamo illusi troppo presto – disse Pietro – il tempo vuole fare un ultimo colpo di coda.”
“Sì c’è freddo, bambini ora basta, il cane è pulito,” disse Gabriella.
“Sì – disse Davide – lo asciugo io mentre voi andate a cambiare i bambini, prima che si piglino un’influenza, Eugenia, tu prendi da quella sedia l’asciugamano del mare.”
“Sì però – fece Eugenia porgendo l’asciugamano a suo padre – poi ci andiamo a prendere la pizza alla Casetta Bianca?”
“Sì! Sì! Sì!” fecero Lucia, Stefania e Alberto.
“Ancora quest’anno non ci siamo andati, possiamo?” rincarò Eugenia.
“Ma che bella idea! Così inauguriamo la stagione – rispose allegra Elda – però chiediamo un tavolo all’interno che fa freddo, a voi vi va?” – rivolta a Emma e Giorgio.
“Ho paura che Emiliano possa disturbare…” diceva timidamente Emma col piccolo in braccio.
“Ma figurati! Poi di questa stagione non c’è tanta gente.”
“Chiediamo a Ruggero cosa ne pensa, ma dov’è?” chiese Pietro.
“L’abbiamo visto vicino al pozzo con quel telefono cellulare,” disse Dario.
“Tuo fratello passa tutto il giorno a parlare a quell’arnese, ha speso due milioni e mezzo,[1] che quasi ci veniva un’automobile, per essere disturbato in ogni momento della giornata!” borbottò Pietro.
Ruggero nel frattempo stava avvicinandosi spingendo all’indentro l’antenna del suo telefono.
“Ruggero te la senti di venire in pizzeria?” gli chiese Elda.
“Con tutti i bambini?”
“Lo vedi Elda, non è il caso, è meglio che noi restiamo…” disse Emma.
“Cuginetta, stavo scherzando – disse Ruggero carezzando la testa di Emiliano – certo che mi fa piacere andare in pizzeria con questo marmocchio, a che ora andiamo?”
“Non so, sono le sette, facciamo fra un’ora?” chiese Elda.
“Sì così nel frattempo faccio mangiare Emiliano,” rispose Emma rincuorata.
I bambini si misero a saltare di gioia e si avviarono a cambiarsi con Maddalena e Gabriella.
“Ero al telefono con un cliente – butto lì Ruggero – diceva che in televisione parlavano di un attentato al giudice Falcone.”
Calò il gelo.
“E così lo dici?”
“E come lo dovevo dire?”
Un minuto dopo erano tutti accalcati attorno alla vecchia R4, tormentando la manopola dell’autoradio che dava segnali disturbatissimi …il giudice e sua moglie sono stati trasportati all’ospedale Cervello… non si sa ancora quanti siano i morti fra gli agenti di scorta…”
“Ma quando vi decidete a mettere l’elettricità in questo posto? – si lamentava Ruggero – Come si fa a stare senza televisione?”
A quel punto Pietro buttò giù con rabbia:
“Basta! Non ha senso stare qui, torniamo in via XX Settembre!”
“Ma sì – disse Dario – almeno seguiamo le notizie dalla televisione e facciamo qualche telefonata.”
Rapidissimamente furono rientrate le sedie a sdraio, chiuse le imposte e caricati nelle macchine ceste e bagagli, mentre Stefania, Lucia e Alberto chiedevano perché non si andasse più in pizzeria. Eugenia invece aveva capito, perché in classe avevano fatto una ricerca sul maxiprocesso.
Nella macchina di Giorgio, Ignazio stava accanto a lui col cane in braccio, invece Emma stava nel sedile posteriore cercando di attaccare al seno Emiliano, che piangeva dalla fame.
Nella loro vecchia R4, seduta accanto a Pietro, andando verso Palermo, Elda si ricordò di una mattina di settembre di qualche anno prima, in un bar di via Notarbartolo. Pietro aveva dovuto fare delle analisi ed erano seduti nei tavolini all’aperto a fare colazione. Ad un tratto avevano notato che la gente guardava dallo stesso lato, compresi i camerieri. Poi davanti al portone del palazzo accanto si erano visti degli agenti armati vestiti in borghese, e un via vai fra il portone e una guardiola in cemento che era stata costruita sul marciapiede. Gli agenti iniziarono a parlare concitatamente al radiotelefono, fino a quando una volante della polizia posteggiò di traverso nel bel mezzo della strada, bloccando il passaggio alle automobili all’altezza dell’incrocio con via Sciuti. La stessa cosa aveva fatto un’altra volante tra via Notarbartolo e Viale della Libertà.
La strada era completamente vuota, soltanto gli uomini armati erano padroni di tanto spazio e vi si muovevano a piedi scambiandosi gesti concitati. Dopo un po’ arrivò un’auto blindata scortata da due volanti della polizia, una davanti e una dietro, si fermò all’altezza del portone, ne scesero tre agenti armati e lasciarono le porte aperte controllandole a breve distanza con i loro mitra. Altri agenti entravano e uscivano dal portone parlando concitatamente al radiotelefono, poi tre uomini armati attraversarono l’androne del palazzo e salirono in fretta le scale. Nel bar il tempo era rimasto sospeso: solo alcuni continuavano a fare colazione con la tazza in aria e il cornetto nell’altra mano, ma sempre con lo sguardo diretto a quella scena da guerra.
Gli automobilisti bloccati ai due lati della strada erano stranamente accondiscendenti, probabilmente abituati a vedere quella scena ogni giorno. Lo spettacolo aveva guadagnato altri spettatori perché dei pedoni si erano fermati a distanza, mentre dai balconi si sporgevano donne che sbattevano tappeti, giusto a quell’ora, e dei pensionati in pigiama non volevano perdersi la scena. L’azione stava raggiungendo il culmine della sua suspense, quando finalmente da quel portone uscì, protetto da due barriere di uomini armati, un piccolo uomo ancora assonnato che stringeva la sua valigetta portadocumenti. Un uomo che in questo modo quotidianamente si recava ad adempiere al diritto-dovere sancito dal primo articolo della Costituzione.
Due giorni dopo Elda e Pietro camminavano in silenzio per viale della Libertà con due ombrelli al braccio, aveva ragione lui, dal sole di sabato si era passati a un tempo piovoso. Sembrava che la gente andasse in un’unica direzione, ognuno con un ombrello in mano e la stessa espressione fosca. Svoltando per via Emerico Amari si stupirono di non trovare automobili, questa volta la gente a piedi era tanta, al punto che non c’era posto per tutti sul marciapiede e si affollava l’asfalto.
Quando svoltarono per via Roma si resero conto che tutti si recavano alla stessa funzione, perché un centinaio di metri più in là la barriera umana diventava impenetrabile ed erano ancora molto, ma molto lontani dalla piazza della Chiesa di San Domenico.
Elda si commosse di nuovo come quella mattina al bar.
Il giorno prima avevano pensato che sarebbe stato come le altre volte, un doveroso atto di presenza in una città deserta e distratta e si erano dati appuntamento per fare numero con Dario, Gabriella, Davide, Maddalena, Ignazio, Emma, Giorgio.
Non fu facile incunearsi fra la folla per giungere in quella piazza, dove c’era una enorme popolazione compatta ed era impossibile riconoscere qualcuno. Di entrare in chiesa non se ne parlava, di sedersi da qualche parte nemmeno, neanche avere visuale dell’ingresso.
Si chiedevano a che ora fossero arrivati quelli che erano riusciti a sedersi nei gradini laterali della chiesa, o gli altri che stavano aggrappati alla cancellata della colonna dell’Immacolata.
Si sistemarono in un pezzetto di marciapiede nel lato opposto alla Vucciria e aspettarono in piedi, zitti come gli altri. Arrivavano le autorità con variabili di gradimento che si manifestavano in fischi o applausi. Ma a un certo punto dall’entrata principale passarono soltanto quelli che avevano condotto con buon esito il confronto con la propria coscienza, gli altri cercarono scorciatoie dal retro della chiesa. Non c’era neanche un Presidente della Repubblica, sulla cui identità si stava decidendo in quei giorni a camere unificate. Iniziò la pioggia, una pioggia fitta, lenta e inesorabile che da quel momento infierì sulle loro spalle, immergendoli in una umidità tropicale che si mischiava alle lacrime. Qualcuno iniziò ad aprire gli ombrelli, ma presto li ritirò insieme alle bandiere dei partiti. Non si sentiva nulla, non avevano voluto mettere gli altoparlanti per permettere di ascoltare l’omelia dall’esterno, eppure erano stati messi per il funerale di Salvo Lima, due mesi prima in quella stessa chiesa, inutilmente poiché i pochi accorsi avevano potuto accomodarsi nelle panche della chiesa.
Passò così più di un’ora, il caldo umido dava alla testa e Elda iniziò a temere che Pietro potesse sentirsi male.
Poi dalla chiesa iniziarono ad uscire le bare, accolte da applausi interminabili, quindi si divisero i cortei funebri, le autorità entrarono nelle loro auto blu e partirono accompagnati da scorte schiamazzanti, mentre la folla non si diradava, nonostante la pioggia.
Elda e Pietro imboccarono la via Roma dove ancora la folla stentava a disperdersi, poi girarono da via Guardione e in via Wagner incrociarono la macchina funebre di uno degli agenti di scorta, con tutta la famiglia che mestamente camminava dietro a passo lentissimo. Dietro la madre in nero e gli altri parenti, camminavano un gruppo di persone fra cui Dario e Gabriella, lei non riusciva a smettere di piangere e aveva i capelli bagnati di pioggia appiccicati addosso, erano tutti completamente inzuppati.
Dopo giorni e giorni passati davanti alla televisione da un canale all’altro a rivedere la stessa scena e i tanti servizi sulla vita di Giovanni Falcone, iniziarono le telefonate fra amici.
“Ma non dobbiamo fare niente?”
“Già siamo andati alla manifestazione dell’ARCI e non c’era quasi nessuno.”
“Ci vorrebbe un segnale alle finestre, un drappo a lutto.”
“Sì ma bianco piuttosto che nero:”
“E perché non dei lenzuoli?”
“Meglio però scriverci qualcosa.”
I Santelia potevano contare su più balconi nello stesso palazzo, in un punto discretamente strategico della città, così tutti in famiglia si misero al lavoro per confezionare lenzuoli dalle scritte significanti.
“Io ne voglio fare uno con scritto mafiosi inginocchiatevi perché è quello che ha detto quella signora al funerale,” – disse Eugenia
“Hai ragione – la seguiva molto orgoglioso Davide – è quello che ha urlato in chiesa Rosaria Schifani, e questo lo possiamo fare pendere dal balcone di papà che è quello più visibile.”
“In un altro possiamo scrivere la mafia uccide il silenzio pure,” – diceva Maddalena.
“Anche ora basta! È un bel messaggio,” diceva Dario.
“Mettiamoci nel pianerottolo che è più lungo, bambini voi aiutate me,” disse Gabriella.
“Io pure voglio scrivere!”
“Alberto ma se tu non sai scrivere che ancora vai all’asilo? Io sì che sono in prima!”
“Papà Lucia vuole fare tutto lei!”
“Calma bambini, noi grandi facciamo i contorni e voi li riempite,” rabboniva Dario.
“Ma senza sbavare!” ora era Lucia.
“E tu non ti dare arie!”
Elda stava per compiere settant’anni e aveva già combattuto innumerevoli cause civili. La sua vita era stata tutta controcorrente: lasciare Augusto, sposare Pietro in Municipio, essere scomunicata dal Vaticano, combattere nelle campagne, scrivere in un giornale di frontiera. Tuttavia si rese conto che appendere un lenzuolo di protesta alla finestra era una cosa che la metteva a nudo personalmente. Scendendo per strada dovette salutare il portiere che guardava i loro balconi, e poi dal droghiere, all’edicola e incrociando qualcuno per strada si sentì guardata con curiosità e diffidenza.
Dopo le prime apparizioni di lenzuola in altri balconi si pensò di organizzare il movimento spontaneo e alcune delle riunioni furono fatte al primo piano, dove le case di Dario e di Davide riproponevano l’abitudine familiare a lasciare aperte le porte d’ingresso. Il vecchio tavolo dei pranzi del sabato era passato da casa della nonna Emma a quella di Davide e viveva una seconda stagione di dibattiti. A queste riunioni veniva molta gente, seduta dappertutto, c’erano persino gruppi che si mettevano a parlare fumando nei gradini delle scale.
Elda vi partecipava con piacere accorgendosi di essere trattata come una vecchia saggia.
“Ormai sembra chiaro che la maggior parte di noi vorrebbe una manifestazione a un mese esatto dalla strage.”
“Non siamo ancora così organizzati, rischiamo di restare da soli, l’altro giorno per il volantinaggio eravamo quattro gatti, non vorrei che la gente ci rida dietro.”
“Ma tutte le persone che erano al funerale?”
“Erano persone spinte dell’emozione, ora stiamo parlando di fare qualcosa dopo un mese. Sapete com’è Palermo, la gente dimentica presto.”
“E allora ci mettiamo davanti al Palazzo di Giustizia con i nostri lenzuoli, facciamo delle fotografie e le mandiamo ai giornali.”
Non c’era neanche da contare sul giornale del pomeriggio, che proprio in quei giorni stava definitivamente chiudendo i battenti.
“Io non sarei così pessimista, penso che potremmo essere a sufficienza per tenerci per mano e fare una catena umana sulla scalinata, se siamo fortunati riusciamo a cingere il palazzo.”
Man mano che si telefonava o si mandavano fax a varie associazioni della città, crescevano le adesioni e si pensò di poter far fare un percorso alla catena umana fino a quella che era stata la casa del giudice Falcone e di sua moglie, in via Notarbartolo, che era all’altro capo della città.
Ciononostante si giunse all’appuntamento temendo un fallimento, tutti loro erano lì con i bambini, Eugenia era con la sua professoressa e alcuni compagni di classe, Emma e Giorgio avevano Emiliano nel marsupio.
Ben presto la piazza si riempì e si iniziò a formare la catena, c’erano pochi megafoni però la gente si teneva salda per mano e andava avanti in silenzio. Ogni tanto il serpentone si allungava e iniziavano a dolere le spalle, altre volte le persone si accavallavano l’una sull’altra. C’erano, anziani, bambini, adulti, chi spingeva un passeggino, chi una bicicletta, chi teneva il guinzaglio del cane. Un silenzio di tomba, non si capiva dove fosse andato a finire il traffico cittadino. Dai balconi si affacciava la gente e molti, tantissimi, scendevano in strada e si univano alla catena. Si vedevano moltissimi lenzuoli alle finestre e ai balconi, alcuni scritti, altri semplicemente bianchi. Ai crocicchi delle strade c’erano gruppi che aspettavano la catena per unirsi: boyscout in divisa, preti con i propri parrocchiani; poi i gruppi diventarono folle di persone. La maggior parte di quella popolazione non riuscì mai ad arrivare a destinazione, tanto era affollato quel tragitto di oltre due chilometri, che poi in via Notarbartolo si trasformava in una calca impenetrabile. Un ficus piantato davanti al portone della casa del giudice si riempì di fiori, poesie, disegni di bambini e innumerevoli altre testimonianze di affetto. Alle 18 e 58 ci fu un minuto di silenzio.
[1] nel 1992 il Motorola Microtac costava circa Lire 2.450.000
…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla
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