
Se riesci a leggere 437 pagine in 48 ore è doverosa una riflessione. Soprattutto se avevi comprato il romanzo per curiosità, pensando solo di sfogliarlo, per poi non riuscire a staccarti dalle sue pagine. A quel punto decidi di rispondere anche tu alle domande che attanagliano da questa estate il mondo dell’editoria, mentre case editrici e agenzie letterarie sono alla ricerca del clone de “I leoni di Sicilia” (e probabilmente lo troveranno troppo tardi, quando i gusti dei lettori si saranno spostati su un altro genere):
- Come è riuscito questo romanzo a diventare un caso letterario?
- Perché una saga sulla famiglia Florio viene pubblicata da una casa editrice che si chiama “Nord”?
- Perché altri non ci avevano provato prima?
Provo a rispondere con ordine:
- La ricetta per scrivere un caso letterario vorremmo averla tutti ma non c’è, inutile cercarla.
- Avrebbe potuto pubblicarla una casa editrice siciliana come Sellerio, oppure una del gruppo Mondadori, chiedete a loro.
- Ci avevano provato eccome, infatti il segreto del successo non sta nel soggetto quanto nella scrittura di Stefania Auci. (in piccola parte anche in una copertina accattivante)
A Palermo la famiglia Florio gode di un culto che va oltre la sua capacità imprenditoriale. Come tante famiglie non ha retto alla terza e quarta generazione, una maledizione che ha visto in città ascese e cadute per l’incapacità di mantenere il capo chino sui bilanci aziendali. In loro arriva prima o poi il desiderio di sbattere il denaro in faccia a quei nobili che li avevano trattati dall’alto in basso, e finiscono col vivere come loro, mischiarne il proprio sangue e restarne contagiati.
Però vissero alla grande! Si, alla grande… e così se ne andò un patrimonio.
Nel caso dei Florio il culto è anche alimentato dalla figura di Donna Franca, della quarta generazione, prima di tutto una siciliana alta e poi dotata di un fascino che le fotografie dell’epoca non riescono a mostrare, ma ci riuscì il pennello di Boldini.
Date queste premesse, tanti hanno cercato di descrivere il mondo dei Florio, vantando conoscenze dirette, mostrando deferenza e ammirazione, attenendosi alla documentazione certificata. Invece Stefania Auci, pur documentandosi a dovere, ha osato farne un racconto di finzione, romanzando una vita privata che non ci era dato conoscere, entrando perfino nella camera da letto di Giulia e Vincenzo Florio. La prima cosa che ammiro in lei è dunque l’audacia.
La seconda cosa che ammiro è la scrittura, che io ritengo ragione principale del suo successo. In una narrazione tutta al presente lei stordisce il fisico del lettore con le scosse del terremoto di Bagnara Calabra, fa sentire in bocca la polvere delle macerie, ammaraggia lo stomaco nella traversata a bordo dello schifazzo, disturba l’olfatto con l’olezzo umido dei bassi della Vucciria, guarisce il male con le erbe contenute negli albarelli dell’aromateria. Qualche considerazione va anche fatta sul dialetto che lei adopera: asciutto, mai ammiccante, smarcato da quello mal masticato di chi fa finta di conoscere i quartieri bassi, ma in reltà li guarda dall’alto. Mi piace molto il suo linguaggio e mi piacciono anche i siparietti storici all’inizio di ogni capitolo: utili e ben scritti. Quando Stefania Auci si affrancherà dalla fatica della saga dei Florio, mi piacerebbe sentire il suo racconto non verista della Sicilia più cruda: racconti delle campagne, delle saline e delle zolfare. La sua scrittura ne ha facoltà.
Tornando a “I leoni di Sicilia”, abbiamo letto il primo volume della saga che ci descrive le prime due generazioni, quelle meno raccontate, in cui inizia ad arrivare la ricchezza e il desiderio di magnificenza è ancora contenuto. La narrazione si svolge principalmente dentro la Vucciria, dove nel primo tentativo di mischiarsi all’aristocrazia la padrona di casa si mostra a disagio. Nel prosieguo della saga confido in consulenti capaci di non sottovalutare i dettagli della belle Epoque palermitana, dal modo di apparecchiare la tavola alle fasi di vestizione di una dama. Nel girare il Gattopardo, Visconti riempì di abiti d’epoca armadi che non dovevano neanche essere aperti e per questo mandò sul lastrico la casa di produzione, ma mantenne il patto con lo spettatore.