La famiglia Lorenzi

Questo capitolo è letto da Emanuela Chines
Da quando Elda era nata, la famiglia Lorenzi aveva sempre abitato a Palermo, in un appartamento d’affitto al terzo piano di un palazzo in via Principe di Villafranca, quasi ad angolo con la via Dante. A lei quella casa era sempre piaciuta e non capiva i rimpianti dei suoi genitori nei confronti di una vita precedente:
“Quando stavamo nella villa ai Colli… avevo la mia cameriera personale e il conto in una sartoria di Roma… “ raccontava sua madre.
“Papà aveva l’automobile con lo chauffeur… ti ricordi quel tour in Europa?” incalzava suo padre.
Elda e suo fratello ascoltavano quei racconti trasognati e se anche fossero iniziati con c’era una volta un re, ci avrebbero creduto in eguale misura.
Poi con grandi sospiri arrivavano i rimpianti della mamma:
“Non ho avuto tempo di abituarmi a quel lusso che è subito finito… “
E con poca convinzione i propositi di riscatto del papà:
“Prima o poi ci rifaremo… “
Il bisnonno era arrivato a Palermo dal centro Italia alla fine del secolo a impiantare una fabbrica di letti di ferro, nel 1918 il figlio, cioè il nonno di Elda, si era incaponito a investire in un piccolo cantiere nautico all’Addaura ed era stato un disastro, perciò quel nonno veniva rimpianto soltanto per il benessere che si era portato appresso, il cantiere non era riuscito a produrre altro che due velieri.
L’unica eredità di quel periodo era l’affiliazione a un Circolo esclusivo che i suoi genitori continuavano a frequentare; restare soci del Circolo serviva a ribadire al resto della città che la famiglia non era del tutto decaduta e i genitori di Elda si sarebbero tagliati un braccio pur di poter continuare a pagare le salate quote associative. Palermo era famosa per i suoi “Circoli“ sin dal diciottesimo secolo, una sorta di club inglesi ospitati in bellissime Ville con giardino, dove si riunivano i nobili della città. Venivano chiamati circoli della conversazione, vi erano anche i tavolini da gioco e spesso vi si tenevano sontuosi pranzi ed eleganti feste da ballo.
Ogni famiglia aristocratica pagava annualmente quote associative in ognuno dei Circoli nobiliari presenti in città, più in quelli dei paesi ove avevano feudi. Ogni tanto, dietro presentazione di una famiglia socia fondatrice, poteva essere ammesso al Circolo un illustre professionista o un esponente dell’imprenditoria e del commercio, come nel caso del bisnonno di Elda. In genere con quote d’ingresso che ammontavano alla cifra che serviva agli amministratori per ripianare le perdite del bilancio.
La sua mamma, Wanda, era bellissima, ma soprattutto aveva buon gusto nel vestire e riusciva a essere all’altezza di quell’ambiente.
“Wanda riesce a essere elegante qualsiasi pezza si metta.” Erano solite commentare le sue amiche.
La signora Messineo era la sartina cui veniva affidato il compito di far somigliare le pezze ai figurini mostrati da Wanda. Più che una premier era una mastra e impartiva strilli a due adolescenti svogliate, occupate a sfilare punti lenti e spazzare per terra.
Anche il suo papà, Guglielmo, era un uomo elegante e dal bel portamento, sebbene vestire un uomo presupponeva la maestria di un vero sarto, tanto che i conti della sartoria La Parola tormentavano il magro bilancio insieme alle quote associative del circolo, a cui non si poteva rinunciare.
In casa vivevano anche la nonna paterna, una vedova in gramaglie composta e dimessa, e i due fratelli minori di Guglielmo: lo zio Luca era un giovanotto ardito dagli stivali lucenti che combatteva le guerre d’Africa, a Elda non faceva simpatia, era vanaglorioso e quando era a casa in licenza non si potevano raccontare le barzellette sul Duce; poi c’era la zia Teresa, sorella brutta del papà. Questo era l’incontrovertibile verdetto prodotto in famiglia e la piccola Elda si trovava spesso a scrutare quel volto sempre accalorato, suddividendolo nelle sue componenti per riuscire a capovolgere quel giudizio: il naso non era in fondo così grosso, gli occhi a palla erano dolci, la pelle che si sfogliava poteva essere coperta da un velo di cipria… ma poi riuniva le parti insieme e non c’era niente da fare, il viso risultava disarmonico e pure mortificato da un corpo ossuto e sgraziato. La bruttezza aveva fatto di Teresa una diversa, più che un difetto era considerata un’inabilità: chi mai se la sarebbe sposata? Invece Elda e suo fratello maggiore Giulio la adoravano, era l’unica persona che in famiglia si occupasse di loro partecipando direttamente ai loro stati d’animo e alla loro voglia di svago.
Ancora adesso, pensava Elda a tanti anni di distanza, il ricordo della zia Teresa si sovrapponeva a quello della bianca spiaggia di Mondello, perché proprio in quel luogo straordinario lei aveva regalato ai due bambini un’infanzia felice.
Il lido di Mondello, a dieci chilometri dalla città, era diventato la spiaggia più alla moda dei palermitani dagli anni venti, quando una faticosissima opera di bonifica aveva colmato una grande palude. Vagoni di terra e detriti avevano riempito un malsano acquitrino, quando nel frattempo si era pensato di trasportare un’immensa quantità di sabbia finissima sul chilometro e mezzo di baia confinante, dall’antica tonnara di Valdesi alla punta Celisi. Era stata così creata una spiaggia bianca ed estesa a declivio su di un mare dai colori tropicali, su cui era stato costruito un elegante stabilimento balneare su palafitte, con un corpo centrale formato da saloni e terrazze. In quegli anni erano state inaugurate le prime vetture tranviarie per collegare i pochi chilometri che separavano la spiaggia alla città.
Al tempo dell’infanzia di Elda, fra gli anni venti e trenta, il tram elettrico aveva corse dalle 5,30 alle 23 e la spiaggia aveva uno spazioso arenile costeggiato da un elegante viale di palme e giardini sul quale si affacciavano dei deliziosi villini. Sulla spiaggia, in un’unica fila al centro della lingua di sabbia, vi erano le capanne di legno ben distanziate l’una dall’altra, che si aprivano sul davanti con una struttura di pali di legno sulla quale veniva disposta una tenda. Ogni capanna era data in affitto per la stagione a una sola famiglia, ma la famiglia di Elda non aveva una capanna. Teresa e i bambini andavano ospiti in quella di alcuni lontani cugini, un ramo della famiglia frequentato solo dalla zia.
L’infanzia di Elda e suo fratello era stata ricca di ben quattro mesi estivi in cui ogni mattina la zia li aveva portati alla spiaggia per trascorrervi l’intera giornata. Lei si svegliava all’alba preparando frittate o uova sode, chiudendo nei tegamini ermetici la pasta, lavando la frutta da portare avvolta nei tovaglioli. Poi tutta indaffarata e col viso rosso svegliava i bimbi, li portava in bagno a lavargli la faccia e levar il moccio dal naso, versava il latte nelle tazze mentre allacciava i loro sandali, pettinava Elda stringendo un fiocco sulla testa e abbottonava la casacca di Giulio. Poi si doveva correre alla fermata del tram a prendere la corsa delle 9,30 e Elda doveva stare attenta a non lasciare la mano della zia perché una volta si era persa per strada:
“Zia perché non prendiamo l’autobus che passa dal parco della Favorita? Con quello si arriva prima!”chiedeva il piccolo Giulio, di due anni più grande di Elda.
“Il tram è più economico!” diceva sbrigativa la zia sorreggendosi alla maniglia del tram, mentre i piccoli stavano seduti nelle panche di legno.
Bisognava prima percorrere la strada di campagna fra le ville ai colli:
“Zia è qui che avevamo la villetta?” – chiedeva Giulio.
“Si, si.” rispondeva evasiva la zia, mentre il tram oltrepassava la Casina Cinese avviandosi verso il borgo di Pallavicino.
Era una noia passare da quella contrada soltanto per risparmiare denaro! Il tram si infilava a fatica in mezzo a bimbi lerci e popolane sguaiate, poi girava a destra e si arrampicava in quella salita tutta sterrata che faceva ondeggiare la zia in piedi appesa alla maniglia. Finalmente si confluiva nel bel viale Regina Margherita, dove passava anche l’autobus dei ricchi e sembrava di essere già arrivati, perché a quel punto si svoltava a sinistra e si scendeva di corsa il viale alberato verso quella spiaggia bianca che si versava in un mare verde chiaro.
La zia Teresa arrivava alla capanna rossa e sudata, si chiudeva dentro a cambiare se stessa e la piccola Elda mentre Giulio pretendeva di fare tutto da solo già dalla tenera età. Finalmente erano pronti in costume per gettarsi in acqua mentre la zia si abbandonava su di una sedia a sdraio a conversare con i cugini. Il bagno durava sempre troppo poco e la cura del sole troppo a lungo, che bisogno aveva la zia di frizionare tutto il corpo con l’asciugamano, appena usciti dall’acqua, per poi stare tutto quel tempo a sudare asciutti sotto il sole? Per giunta con uno strato spesso di crema Nivea che attirava i raggi come il miele le mosche.
“Zia siamo già asciutti, ci possiamo fare un secondo bagno?”
Non era regola fare secondi bagni, ma la zia era formidabile nell’infrangere le regole e spesso prima di pranzo ci si poteva buttare una seconda volta. Di costume ce n’era uno a testa, confezionato in una pesantissima maglia di lana che assorbiva l’acqua come una spugna e che veniva messo ad asciugare sul tetto della capanna, il prezzo del secondo bagno era quindi il supplizio di indossare quel costume ancora bagnato. La giornata in spiaggia era lunga e il bagno non era l’unico passatempo; in quella capanna c’erano dei cugini e tanti altri bambini popolavano la spiaggia, che era una sorta di comunità primordiale dove si condividevano le vite private di ognuno. Finalmente all’una si aprivano le ceste di vimini e si pranzava. La pasta aveva subito un’altra cottura dentro il tegamino al sole e se erano spaghetti questi si spezzavano ogni volta che la forchetta voleva tirarli su, anche la frutta era cotta dal sole e anche l’acqua, ma Elda ricordava il tiepido cibo ricotto della spiaggia come una delle tante componenti di un mondo affettuoso. Dopo pranzo, mentre gli adulti riposavano all’ombra della tenda di tela olona, i bambini stavano a giocare nello spazio nel retro della capanna che a quell’ora si trovava in ombra.
Si faceva il gioco delle biglie sulle piste di sabbia oppure si preparavano pasticci di sabbia bagnata, foglie ed alghe.
Quando poi il riposino degli adulti terminava e questi iniziavano a giocare a carte o a conversare, il gioco si poteva spostare nella parte più ampia di spiaggia davanti le cabine: si giocava ai “cerchietti”, a pallone o con i tamburelli, il cui rumore scandiva il ritmo del pomeriggio. Vicino alla loro capanna c’era poi il “Circolo dei Canottieri”, frequentato da giovani molto distinti con larghe braghe di lino bianco, scarpe di tela e maglie a righe; i bambini guardavano dalla rete di separazione l’armatura delle barche ed era un avvenimento se qualcuno di quei dandies occasionalmente rivolgeva loro la parola. Altra opportunità di divertimento, che però succedeva molto di rado, era la gita in barca a vela sino alla stupenda “Grotta dell’olio”, con i marinai locali che si chiamavano tutti Corrao.
Quella comunità che accoglieva calorosamente la zia era composta da cugini e amici che amavano lo sport e la vita semplice e con i quali in inverno Teresa e i bambini andavano alle gite del CAI[1]. Era però un mondo altro dai suoi genitori tanto che i riferimenti a questi ultimi si facevano in francese, la mimica che accompagnava quella lingua mal masticata era invece molto eloquente e non sfuggiva ai bambini. Quello che Elda ricordava della sua infanzia era il desiderio struggente di far combaciare il mondo della zia con quello dei genitori, non dava giudizi, voleva soltanto che cessasse d’un colpo quella palpabile insofferenza.
Anche quando di tanto in tanto i genitori arrivavano a dare un salutino nel pomeriggio, il divario più che colmarsi si allargava. Wanda si presentava con un cappello a larghe falde che sottolineava l’estremo sacrificio dell’esposizione al sole, baci affettuosi ai bimbi e si adagiava sulla sdraio di migliore qualità stando attenta che la sabbia non le entrasse nelle scarpe:
“A Teresa piacciono i bagni, a me invece fanno venire debolezza.” diceva sventagliandosi. Era vero, osservava adesso Elda, la zia Teresa si divertiva alla spiaggia e amava lei e Giulio come fossero figli suoi, ma perché mai un segno di affetto e gratitudine?
Nel frattempo Guglielmo si levava la giacca bianca di lino irlandese mostrando le bretelle e una camicia con collo inamidato, quindi si adattava con magnanimità ai giochi di carte da spiaggia, briscola o scopone, molto più plebei del poker e del ponte usi al Circolo, poi con la stessa aria di sufficienza mamma e papà andavano via con qualche automobile presa a prestito.
I bambini sarebbero invece tornati insieme alla zia Teresa con la corsa delle 8 di sera e a casa, ancora ubriachi di sole e sazi di giochi, di aria e di iodio, avrebbero consumato una veloce minestrina prima di andare dritti filati a letto. Non avrebbero rivisto i genitori neanche il mattino seguente, perché si sarebbero dovuti preparare in silenzio stando attenti a non svegliare mamma e papà che “ieri sera hanno fatto tardi al Circolo”.
Hanno fatto tardi al Circolo veniva sempre sottolineato con la deferenza che dovrebbe darsi al minatore appena fuoriuscito dal ventre della terra, un lavoratore a cui si deve tutto il rispetto.
In un certo senso era un lavoro.
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