Questo capitolo è letto da Emanuele Naccari.
Nella famiglia Lorenzi l’unico infaticabile lavoratore era stato il bisnonno di Elda, che aveva fatto parte di quella vitale linfa imprenditoriale che era giunta a Palermo alla metà dell’ottocento, suo figlio Giulio e i suoi nipoti Guglielmo e Luca s’erano invece trovati a gestire un patrimonio in cui gli utili sembravano arrivare come in un processo automatico. Alla morte del bisnonno, il nonno Giulio aveva nel bene e nel male gestito gli affari dando ai suoi figli, ragazzi viziati dagli agi e inclini alla pigrizia, delle cariche rappresentative ma poco determinanti. Dopo la morte del padre Giulio, Guglielmo e suo fratello Luca avevano scoperto di essere assaliti dai creditori e per evitare il fallimento avevano dovuto vendere tutto.
Luca si era così gettato nella carriera militare mentre Guglielmo, già laureato in giurisprudenza e appena maritato, aveva dovuto aprire un piccolo studio legale nello stesso palazzo in cui aveva preso casa la famiglia dopo la vendita della villa ai Colli. Non che Guglielmo non fosse brillante, ma non era abituato a faticose ore di lavoro, non amava andare al mattino in tribunale e, dopo l’obbligatoria siesta siciliana, riceveva svogliatamente i suoi clienti fino alle cinque. A quel punto iniziava a smaniare per proseguire al Circolo la sua giornata.
Era sedotto da quell’ambiente dove ogni membro conduceva una vita comoda: svegliandosi tardi al mattino e oziando poi per casa in attesa dell’unico impegno della giornata, che era il gioco delle carte. Se qualcuno volesse trovare l’origine della scarsa imprenditorialità del popolo siciliano, rifletteva ora Elda, dovrebbe studiare con attenzione la peculiarità di quella che per secoli è stata la classe dirigente dell’Isola: anche dopo la meteora imprenditoriale della Belle Epoque, rappresentata soprattutto dalla famiglia Florio, la Sicilia continuò a reggersi su di un’economia di stampo feudale dove, grazie al basso costo della manodopera, i ricavi arrivavano senza fatica e comunque, chi doveva logorarsi nel difficile rapporto con i contadini erano degli intermediari sparsi nei feudi. I feudatari restavano in città a godersi i proventi, andando nelle campagne di tanto in tanto, giusto per un doveroso atto di presenza.
Ebbene, rifletteva Elda, non vi era una censura sociale per l’ozio, anzi era considerato una furberia, probabilmente questa mentalità avrebbe in seguito agevolato il ricambio della classe dirigente in una altrettanto oziosa, sebbene abbarbicata alla pubblica amministrazione anziché al feudo.
Ma tornando a noi, Elda adesso era propensa a giustificare il padre, ritenendolo vittima di siffatto contesto. Guglielmo considerava il gioco di carte al Circolo la sua reale attività professionale, del resto quelle frequentazioni gli consentivano di allargare la sua cerchia di clienti e in ultima analisi lui e sua moglie riuscivano ad arrotondare il bilancio familiare con delle discrete vincite. Erano infatti molto bravi, dando a volte all’avversario il piacere della vittoria, in modo che non fossero esclusi dai futuri tavolini.
Qualcosa d’altro doveva succedere in quelle stanze se ogni tanto in mezzo ai singhiozzi di Wanda, Elda poteva udire distintamente:
“Lo capisci Teresa, lo capisci cosa ha fatto tuo fratello? Anch’io se volessi, che ti pare! E’ che io sono una madre, non potrei mai!”
Neanche nel tradimento c’era una reale censura da parte di quella società, a patto che fosse soltanto l’uomo a compierlo. Quando Guglielmo superava il limite l’intera famiglia era costretta a prenderne notizia: settimane in cui si urlava, si piangeva e si sbattevano le porte, in cui lui supplicava lei di perdonarlo, fino a quando la pace veniva suggellata da un prezioso gioiello mostrato a tutti con orgoglio.
“Maman[1], guardi che bell’anello mi ha regalato Guglielmo!” diceva trionfante Wanda alla suocera, allungandole la mano sotto gli occhi.
Maman in genere non era molto compiaciuta, sapeva che suo figlio non se lo poteva permettere e che presto quel gioiello sarebbe finito al Monte di Pietà per un decimo del proprio valore.
Quindi, pensava la piccola Elda, essere una madre non voleva dire comportarsi come la zia Teresa, portarli al mare o al cinematografo e confezionare cappottini? Essere una madre significava soltanto la dolorosa rinunzia alla cosa che faceva il papà, peraltro sempre perdonata?
Nello stabilire regole di amore materno restava in ombra il ruolo della zia Teresa: era infatti pacifico che se Wanda non fosse corsa ogni sera al Circolo dietro suo marito le cose sarebbero andate ben peggio, e anche che questo era consentito dal fatto che Teresa si occupava dei bimbi. Ma Teresa era zitella e le regole stabilivano che tutto questo le spettasse di dovere, poi in famiglia non mancavano le occasioni per mortificarla con frasi irriguardose che sottolineavano la sua condizione.
“Che hai, zia Teresa?”
“Niente, niente, cose da grandi.”
In quel caso Elda sapeva che buttarle le braccia al collo e darle un bacio, era per la zia la consolazione necessaria.
“Lo sai quanto bene voglio a te e tuo fratello.” rispondeva zia Teresa accarezzandola.
Poi ci fu quel pomeriggio in cui lei e la zia erano nella stanza del cucito, mentre il papà e lo zio Luca erano nella stanza accanto a riguardare i conti di famiglia; a un certo punto, nella pausa fra una pedalata e l’altra della pesante macchina Singer, attraverso la porta a vetri, si sentì lo zio Luca:
“Papà ci ha lasciato come unica eredità nostra sorella, bell’affare!”
Elda aveva tredici anni e stava accomodando la bretella di una sua sottoveste, mentre la zia Teresa era seduta alla macchina da cucire intenta a rivoltar lenzuola. La ragazzina aveva alzato gli occhi dal suo lavoro, per capire se la zia avesse ascoltato e controllare se qualche lacrima stesse rigando le sue guance. La zia Teresa invece aveva continuato a tormentare energicamente quell’enorme lenzuolo matrimoniale costringendolo a passare all’interno del piccolo braccio di ghisa; cadenzava il lavoro con brusche partenze del pedale mentre il piedino dell’ago veniva alzato e ribattuto in giù con gesti nervosi, non aveva detto neanche una parola. Ma sul suo collo c’era adesso un’enorme chiazza rossa che dallo sterno avanzava verso le orecchie per raggiungere il naso, si sarebbe potuto vedere uscire del fumo da quelle narici. Lei aveva sentito.
La cattiveria di quella frase gelò anche Elda che non fu capace di dire nulla.
Nei giorni successivi la zia Teresa ebbe un gran daffare, entrava e usciva da casa senza dare spiegazioni, finché comparve un pomeriggio ad annunziare che si era arruolata nel corpo delle volontarie della Croce Rossa, stava per partire alla volta dell’ospedale militare di Milano, dove, dopo un duro apprendistato fra padelle di ferro smaltato da strofinare e bende purulente da sterilizzare, sarebbe diventata infermiera, poi probabilmente sarebbe stata impiegata in ospedali militari nelle colonie.
La nonna ritenne la figlia ormai perduta e per giorni seguitarono frasi urlate all’indirizzo della figlia:
“Dovrai girare fra corsie piene di soldati lerci e sfigurati, uomini! Stare nei dormitori con donne di ceto basso, fare la serva!”
Poi si aggiustava la veste e lo scialle, apriva il ventaglio tossendo e quasi sottovoce infilava il suo solito rimbrotto:
“Se ci fosse ancora la fabbrica non saremmo a questo punto!”
Guglielmo, Wanda e lo zio Luca rimasero basiti, se ne andava l’oggetto del loro scherno e contemporaneamente l’organizzazione della famiglia avrebbe perso un suo prezioso cardine. Elda e Giulio capirono invece in un istante cosa sarebbe stato il vuoto di quell’assenza.
Se la memoria della partenza della zia rimase confusa, invece Elda ricordava distintamente la volta in cui lei era tornata per qualche giorno alla prima licenza. Quando la vide scendere la scaletta del postale di Napoli, pensò che mai donna era stata più bella di quella donna brutta di trent’otto anni, con la croce rossa stampata nel petto, la fascia bianca in testa, la mantellina blu e il candido grembiale stretto in vita. Anche Elda era stata influenzata dal fascino che in Italia suscitavano a quel tempo le divise, perfino l’odioso zio Luca indossandone una aveva aumentato la propria reputazione in società. Quella della zia Teresa però aveva un significato speciale, Elda aveva letto la storia di Florence Nightingale ed era ammirata dal coraggio della zia nel seguitare la strada di quell’eroina del secolo precedente, riuscì così a comprendere i motivi dell’abbandono della zia e da allora in poi lesse con attenzione, sui giornali, tutte le cronache che riguardavano l’attività della Croce Rossa.
La zia Teresa non smise mai di essere nelle loro esistenze: mandava lettere ai nipoti in cui raccontava la sua vita in quegli ospedali, fornendo resoconti del duro apprendistato e dell’amicizia fraterna con le altre sorelle, condivideva con loro la soddisfazione di aver ridato fiducia a qualche milite invalido, di averlo aiutato a camminare senza una gamba e aver convinto la fidanzata a incontrarlo ancora. Quando iniziò ad avere uno stipendio mandò anche golfini e camicette ricamate per Elda e pantaloni e bluse per Giulio,
La vita senza la zia concise con l’adolescenza dei due fratelli che adesso passavano lunghi pomeriggi in casa ad annoiarsi con tristi presenze: la serva Catena era l’unico residuo di quello stuolo di famigli che aveva popolato il precedente e agiato ménage, il cui numero variava nei racconti secondo l’umore dei padroni di casa.
La nonna invece si trascinava da una stanza all’altra con un rimbrotto di sottofondo, un unico lungo lamento misto di rancori passati e altri più recenti. Lei non aveva perdonato al marito la brusca variazione di stato sociale, aveva da ridire sulla nuora frivola e sul figlio vanesio, seguiva poi la preoccupazione per l’altro figlio che combatteva in prima linea, mentre l’unica figlia femmina dava le stesse preoccupazioni senza neanche un orgoglio fascista. Infine sembrava considerare i nipoti come un impaccio. Con una nonna tanto ombrosa non era facile entrare in confidenza ma Elda e Giulio si accorgevano che lei avvertiva quanto loro l’assenza della zia. Ogni tanto Elda, che da lei aveva preso il nome, la scorgeva ricamare tutta sola alla finestra nella stanza del cucito, allora le sedeva accanto per farsi insegnare il punto a croce e tenerle compagnia.
I pomeriggi dei due fratelli venivano spesi a fare i compiti, Giulio finiva subito mentre Elda si stancava per ore sui suoi libri con gli stessi risultati del fratello, poi quando faceva buio iniziavano a raccontarsi le spassose avventure con la zia, sempre le stesse e con nuovi particolari. C’era il racconto del suo imperioso ammonimento a non far cascare l’uovo sodo fra la sabbia di Mondello, specialmente se già morsicato fino al tuorlo, seguivano le risate a perdifiato quando riecheggiava il riso soffocato di lei, che sostituiva il rimprovero quando l’uovo puntualmente cadeva; poi le risate dei ragazzi si sovrapponevano al ricordo di quelle della zia al cinematografo, per le comiche e le avventure di Topolino; ancora si divertivano a rammentare l’equipaggiamento per le passeggiate in montagna del club alpino: i pantaloni alla zuava, i pesanti scarponi e i calzettoni che la zia rivoltava all’ingiù. Ma il pezzo forte dei loro racconti era la scoperta della figurina del Feroce Saladino[2] in una scatola di cioccolatini Perugina. Ogni domenica all’una, l’intera famiglia seguiva alla radio le puntate dei Quattro Moschettieri, una parodia umoristica del famoso romanzo di Dumas I Tre Moschettieri, il programma iniziava con la voce di Nunzio Filogamo che cantava avevo un cagnolino pechinese.
La Perugina aveva anche inventato un album con le figurine degli eroi del programma: con un album completo si aveva in regalo il libro ed una macchina fotografica, completando molti album si avevano premi sempre più belli sino ad arrivare al mitico traguardo di 150 album completi che dava diritto ad una Topolino[3]. Loro erano riusciti a completare un album ma, come al resto d’Italia, mancava la figurina del Feroce Saladino. Tutta l’Italia era impazzita alla ricerca di quella figurina e anche loro, ogni volta che passavano da un bar o da una pasticceria, si fermavano a guardare le confezioni di cioccolatini:
“Secondo me sta in quella più grande di tutti” disse un pomeriggio Giulio indicando una fila di scatole di cioccolatini che stava nello scaffale più alto, sopra il bancone della pasticceria Sacchiero.
“Così è troppo facile, secondo me l’hanno messa in quella piccola piccola lì sotto.” rispose la zia Teresa.
“Lo dici perché vuoi risparmiare!” fece Giulio.
“E tu l’hai detto perché sei un gran goloso!” disse la zia dandogli un pizzicotto. Giulio si stava offendendo.
“Allora decido io – disse Elda – prendiamo quella da ventiquattro.”
“Anche quella è cara…” disse Giulio col broncio.
“E invece vi faccio vedere che entro e la compro!” disse la zia con tono di sfida.
“E poi la nonna si secca!” disse Giulio ancora di traverso.
“E noi non le diciamo niente!” fece Elda.
La zia entrò a comprare la scatola da ventiquattro che fu aperta avidamente appena fuori dalla pasticceria, e c’erano due figurine fra cui quella del Feroce Saladino!
Elda aveva scelto la scatola giusta e la zia e Giulio fecero pace, erano tutti felici! Poi furono costretti a mangiare otto cioccolatini a testa prima di tornare a casa, per non farsi scoprire dalla nonna.
Giulio compilò il modulo per l’ottenimento del premio, preparò il pacco con l’album completato che fu spedito dall’ufficio postale, e poi si attese a lungo.
Il giorno in cui arrivò il pacco fu memorabile, c’era una macchina fotografica ed il libro illustrato dei Quattro Moschettieri! Non era il vero romanzo di Dumas, quello l’aveva la zia e loro l’avevano già letto: Elda e Giulio erano degli avidi consumatori di libri e avevano iniziato molto presto, la loro letteratura per l’infanzia era spesso truculenta, come nel caso di Pierino Porcospino e delle novelle di Hoffmann, anche fra le favole di Andersen ce n’era qualcuna che faceva paura. C’erano poi i libri della Scala d’Oro, una collana per bambini che rielaborava i classici della letteratura per l’infanzia, da Peter Pan a David Copperfield, oltre a ridurre e narrare in prosa quelli per adulti di epoche e culture diverse, dalla Gerusalemme Liberata a L’ Eneide. Loro però amavano soprattutto i libri di Vamba, Ciondolino e Il giornalino di Gian Burrasca, preferendo quest’ultimo perché era allegro mentre la storia di Ciondolino era triste anche se la descrizione della comunità di formiche era interessante; ma il pezzo forte per Elda e Giulio era Il viaggio incantato di Annie Vivanti[4], sembrava proprio la loro storia, due bambini che si annoiavano in un pomeriggio di pioggia e sognavano di entrare in un quadro dove poi vivevano esperienze fantastiche.
Nei pomeriggi senza la zia la lettura era quindi una grande consolazione, Giulio era già passato ai romanzi di Emilio Salgari e di Giulio Verne mentre Elda aveva scoperto, fra le cose che la zia aveva lasciato, i romanzi di Luciano Zuccoli[5]: aveva iniziato con L’occhio del fanciullo, pensando che fosse una storia per bambini e in effetti la prima parte era divertente, lui e la sorella che sputavano nel caffè di una insopportabile ospite che voleva la schiumetta, poi la storia si complicava in vicende di adulti che Elda intuiva non fossero adatte a lei, però fu avvinta da quella trama, finì il libro e continuò con gli altri che erano ancora più scandalosi, La freccia nel fianco e L’amore di Loredana. Sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e in mancanza d’altro, Elda si era dovuta piegare a Salgari e Verne come Giulio a Zuccoli, così i ragazzi pensarono di aggredire i volumi dello scaffale del soggiorno, c’era il noiosissimo ottocento italiano e molto D’annunzio che doveva piacere alla mamma, anche se non era una gran lettrice.
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note
[1] Maman è un francesismo aristocratico usato in Sicilia per chiamare la suocera, tradotto nel siciliano Mamà dalle altre classi sociali.
[2] Nel 1934 l’EIAR mandò in onda un programma radiofonico a puntate, I Quattro Moschettieri di Nizza e Morbelli, presentato da Nunzio Filogamo e abbinato ad una campagna pubblicitaria della Perugina. In ogni prodotto della Perugina si trovavano delle figurine con le quali si doveva riempire un album al cui completamento seguiva un premio. La figurina del feroce Saladino fu stampata in numero minore rispetto alle altre, costringendo i concorrenti ad una caccia sfrenata dei prodotti Perugina.
[3] l’utilitaria della Fiat uscita proprio in quegli anni e che era un sogno per moltissime famiglie di italiani.
[4] Anna Emilia (Annie) Vivanti, (Norwood (Londra) 7 aprile 1866 – Torino 20 febbraio 1942) scrittrice eccentrica, personaggio dagli interessi multiformi, protagonista della vita intellettuale e mondana di molti paesi.
[5] Luciano Zuccoli (Calprino, 1868 – Parigi, 26 novembre 1929) è stato uno scrittore, giornalista e romanziere svizzero naturalizzato italiano.
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