Elda cap. 8, Bombardamenti

Questo capitolo è letto da Lorenzo Davì

La guerra incalzava e mostrava a Elda i suoi aspetti peggiori. Ormai era un’abitudine coricarsi mezzi vestiti con le scarpe slacciate ai piedi del letto pronte da infilare, svegliarsi di notte per quell’opprimente suono delle sirene e correre al rifugio, passare il resto della notte ammassati nei sotterranei con le donne che sferruzzavano e l’odore degli altri umani appiccicati addosso, uscire all’alba da quelle viscere e contare, fra case sventrate e fili di alta tensione pencolanti, quanti palazzi erano stati risparmiati.

A casa erano rimasti senza servizio: Catena era morta qualche anno prima e la ragazza che l’aveva sostituita, all’incalzare degli allarmi notturni, era ritornata dalla sua famiglia al paese d’origine. C’era soltanto una donna che veniva a rigovernare per qualche ora.

Ogni tanto Elda accompagnava sua madre a fare la spesa al mercato del Capo, che prima era stato un pullulare di voci esotiche e variegate mentre adesso era in preda allo squallore; là dove prima si erano affollati i pescivendoli con le loro casse di pescato fresco e argenteo, adesso c’erano piccoli capannelli attorno a qualche cesto di verdure.

Nelle costruzioni che avevano subito un bombardamento le saracinesche[1] risultavano contorte e gonfiate come vele al vento, i negozi erano quasi tutti chiusi e nei pochissimi aperti c’era solo un po’ di legumi secchi e qualche pesce salato. Non si trovava carne né uova e qualcuno forniva indirizzi presso i quali si sarebbe potuta trovare merce migliore. Sarebbe stato compito degli uomini di casa spingersi in certi vicoli e mischiarsi a quella gente, ma gli uomini non c’erano e le donne “perbene”, come si definiva Wanda, dovevano osare da sole.

Ormai la gran parte della popolazione abbandonava la città con carri e camion carichi di masserizie che sfilavano continuamente per le vie semideserte, il Duce stesso aveva consigliato a tutti gli Italiani di abbandonare i centri urbani e Palermo, essendo città sul mare, era una delle più colpite. Ogni tanto in famiglia si affrontava il problema dello sfollamento, ma poi si concludeva che fosse troppo dispendioso.

Seguirono giorni ancora più tristi. I bombardamenti incalzavano e la situazione alimentare si faceva sempre più problematica. Nelle mattinate scure bisognava far presto a cercar la roba nei cassetti per vestirsi, perché alle otto cessava l’erogazione della luce elettrica, per poi riprendere solo a sera. Spesso la folla assisteva con muta ostilità alle parate delle truppe tedesche: lunghe schiere di autocarri, automobili e soldati che percorrevano le strade della città.

Le uniche consolazioni di Elda erano le visite di Augusto. Facevano passeggiate sempre più circoscritte alle poche aree del quartiere salvate dai bombardamenti, dove ormai quasi tutti i negozi erano chiusi.

La zona del porto, vicino al Borgo vecchio, era stata bombardata ripetutamente. Una mattina all’alba, senza neanche il tempo di raggiungere i ricoveri, la città fu svegliata da un boato terrificante. Era saltata in aria una nave della Marina Militare Italiana. Con quella incoscienza che accompagna la rassegnazione, Elda e suo fratello scesero in strada arrivando all’incrocio della via Villafranca con la via Paolo Paternostro, una grossa arteria che oltrepassando la piazza Castelnuovo si collegava idealmente alla via Emerico Amari per raggiungere il porto. Da lì videro risalire urlanti e piangenti dei marinai Italiani, manichini seminudi, in più parti spogliati anche della propria pelle. Enormi parti metalliche di quella nave, sculture di ferro contorte più grandi di un essere umano, sarebbero state ritrovate in città a centinaia di metri di distanza dal porto.

Tornati a casa i ragazzi supplicarono la madre di abbandonare la città.

“Ma dove possiamo andare noi? – diceva rassegnata la mamma – Partono quelli che hanno possedimenti in campagna, anche un fazzolettino di terra che possa consentire un piccolo orto, noi non abbiamo niente e nessuno è disposto a ospitarci.”

Giulio evitò di essere ancora una volta crudele con lei, sapeva che sua madre aveva atteso invano una conferma della baronessa Modica per due stanze della foresteria nella villa di Cardillo e che alla fine le stanze erano state date ad altri, del resto ogni famiglia aristocratica riceveva pressioni dai vari rami del parentado.

“Mamma dobbiamo prenderci una casa in affitto da qualche parte – diceva conciliante Giulio a sua madre – purtroppo ci siamo lasciati sfuggire quella a Santa Flavia con lo zio Domenico, ma possiamo chiedere loro se ce n’è qualcun’altra, magari più piccola.”

“E come facciamo a pagare due affitti? – rispondeva Wanda – Non possiamo certo lasciare questa casa, dove ci sono tutte le nostre cose.”

“No – rispondeva Giulio – dobbiamo prenderne un’altra, anche una stanzetta, basta che ci leviamo da quest’inferno. Non ti preoccupare per i soldi, sto cercando di farmi pagare dai creditori di papà e poi Giovanni ha detto che al Genio Civile cercano assistenti per lo sgombero delle macerie, dice che prendono anche studenti della mia età, del resto gli altri sono al fronte.”

 “Ma sei pazzo figlio mio? Che andiamo a fare a Santa Flavia se poi tu devi scendere ogni giorno a Palermo? Poi quel lavoro è pericoloso, c’è il rischio che ti crolli tutto addosso o che ti prendi delle malattie!”

“Mamma, papà non c’è, lascia decidere a me – poi carezzandola mentre lei iniziava a piangere – su, non ti preoccupare, mettiti in contatto con lo zio Domenico e digli di cercare qualcosa per noi.”

“Sei tanto caro, figlio mio – disse Wanda adesso singhiozzando – certe volte mi dimentico che sei diventato un uomo, del resto ormai sei all’Università.”

Grazie alle insistenze del suo professore di Storia e Filosofia, Giulio aveva fatto il salto dell’ultimo anno di liceo. Il giovane professore Gorla era un personaggio carismatico al Liceo Classico frequentato dai fratelli Lorenzi insieme ai figli della migliore borghesia palermitana, si sapeva essere antifascista e all’inizio della guerra aveva iniziato a spingere gli studenti più brillanti al salto. Bastava avere la media dell’otto allo scrutinio finale e si poteva sostenere da esterno gli esami di licenza, convinceva i colleghi a chiudere un occhio per garantire la media e poi la commissione esterna faceva il resto. Era un espediente per far giungere quei ragazzi alla leva con un titolo di studio, in modo che non dovessero essere arruolati come soldati semplici. Giulio adesso era iscritto al secondo anno della facoltà di Giurisprudenza, aveva sostenuto in fretta gli esami universitari e sarebbe anche riuscito a laurearsi prima del tempo, sperando di non essere chiamato alle armi. Se la guerra non fosse finita entro un anno, sarebbe toccato a lui.


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[1] le saracinesche a quel tempo erano costituite da un unico corpo di lamiera ondulata.

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