
Legge questo capitolo Eugenio Sorrentino
Man mano che incalzava l’autunno la vita della città diventò più febbrile, i negozi cominciarono a vendere ma a prezzi astronomici, fortune improvvise si fecero e si sfecero con incredibile rapidità. Dietro le divise americane si vedevano dei visi strani, sconosciuti, sbucati come per incanto dalle rovine, a ogni angolo donne imbellettate, bancarelle eterogenee dove si vendeva dalle saponette ai lavori siciliani. Molte vetrine vendevano tutto il contrario di quanto annunciava l’insegna: un fioraio piatti di frittelle, un negozio di stoffe ninnoli di pessimo gusto, la città forniva le sue mercanzie senza produrre nulla, ogni casa offriva porcellane, capi di vestiario, lavori a maglia e ad ago e pezzi del proprio arredamento o direttamente o tramite intermediari, si era anche arrivati a forme primitive di scambio. Si vendeva e si comprava con un avvicendarsi caotico mentre gli americani alzavano i prezzi.
Ogni salotto buono coccolava le alte gerarchie militari, il colonnello Charles Poletti aveva preso alloggio in una suite all’Hotel delle Palme, altri avevano preso in affitto villini a Mondello, altri si erano insediati senza tanti complimenti nei palazzi nobiliari trovati vuoti al loro arrivo. Gli stessi blasonati adesso facevano a gara a ricevere gli invasori, soprattutto gli inglesi fra i quali c’erano alcuni baronetti, come nel caso di Lord Francis Rennel of Rodd[1] che preferiva affidare importanti ruoli sociali agli aristocratici seguendo la tradizione del colonialismo Inglese.
Elda si iscrisse all’Università, seguendo il suggerimento del suo professore, Giulio nel frattempo accelerava la laurea e intanto ambedue continuavano a impartire lezioni private. Guglielmo era guarito e a fatica riprendeva le fila del suo studio legale insieme al figlio.
All’inizio di novembre arrivò a Palermo la zia Teresa. Annunciò il suo arrivo con un telegramma e si presentò disinvolta e sicura di sé, camminando dritta tutta in blu con un colletto bianco ed una mantellina che le arrivava sotto i gomiti, era diventata un’importante dirigente della croce Rossa ed era stata inviata per coordinare la nascita dei presidi nella città appena uscita dalla guerra. Dopo l’apprendistato e il diploma era stata in Abissinia ad assistere la popolazione civile, era poi tornata nuovamente a Milano, dove aveva curato i feriti della guerra di Spagna. In seguito allo scoppio della guerra mondiale si era poi spostata fra vari presidi della Croce Rossa in Italia dove si era rivelata una donna pratica ed efficiente, dotata di una grande umanità. Era stata preziosa anche per la sua famiglia la volta in cui aveva raggiunto a Napoli Guglielmo, malato di polmonite, organizzando poi il suo rientro a casa.
Elda era felice di avere di nuovo la zia a casa, adesso lei era grande e potevano stare a parlare delle ore sedute nel letto fino a sera tardi, come due amiche. Prese posto nella sua vecchia stanza, non aveva mai smesso di mandare aiuti economici alla famiglia e di nuovo si mise a disposizione per i soldi per la spesa. Appena vedeva Elda entrare nella sua stanza apriva il cassetto del comodino dove era predisposto il mazzetto di AMlire.
Una mattina fu Wanda a bussare alla porta della camera di Teresa, il suo corpo si era fatto molto esile ma non aveva perso la sua bellezza, nel viso dominavano due occhi queruli, profondi e interessanti, aveva un abitino di seta artificiale che le stava a pennello, essendosi finalmente liberata, ma a caro prezzo, delle maniglie sui fianchi che l’avevano tanto tormentata prima della guerra, si sedette nel letto di sua cognata mentre questa andava avanti e indietro preparandosi per uscire, non sapeva cosa dire e Teresa si predispose ad una richiesta di danaro superiore alla norma, invece Wanda andò dritto al sodo:
“Vorrei lavorare anch’io, ti prego Teresa, potresti aiutarmi?”
“Wanda, ma non credo che ce ne sia più bisogno, Guglielmo ormai sta bene e poi ci sono anch’io…”
“Teresa, mi sembra giusto così, ho il mio diploma… potrei fare la segretaria… tu ormai sei inserita, conosci tanta gente…”
“Wanda, so quanto hai fatto per tutti durante la guerra, anche per la mamma, so che non sei rimasta con le mani in mano e sei così sciupata che adesso hai diritto a riprenderti…”
“Teresa!”
“Dimmi…”
“Non voglio più trovarmi così impreparata, ho la sensazione che se imparo a fare il lavoro degli uomini, se mai ci sarà un’altra tragedia come questa, mi sentirò meno perduta.” parlandole guardava negli occhi sua cognata, cercando di trattenere le lacrime, Teresa le si sedette accanto:
“E’ stata una guerra terribile, Dio solo sa quello che ho visto in quegli ospedali…”
“Ma tu sei forte…”
“Sono diventata forte per necessità… e anche tu… non credere che non mi sia accorta di quanto sei cambiata… – Teresa andò davanti allo specchio per appuntare in testa con due forcine il velo della Croce Rossa, mentre Wanda osservava sua cognata compiere meccanicamente e in modo disinvolto un gesto che rivelava tante cose, probabilmente imparato al dormitorio con le prime sorelle e poi ripetuto infinite volte in quegli anni. Quanto era lontana la Teresa goffa ed impacciata che le chiedeva consigli sul vestiario al cospetto della signora Messineo! Allora Wanda le combinava addosso modelli che sarebbero andati bene per lei ma che ridicolizzavano il corpo sgraziato della cognata. Eppure allora Teresa, tanto era insicura e tanto si fidava di Wanda, adesso invece era cambiata e non aveva alcuna voglia di vendicarsi delle piccole angherie subite in passato, infatti così rispose:
– …alla sede dell’AMGOT di via Bari c’è bisogno di personale per coordinare lo smistamento degli aiuti, sono sicura che sarai all’altezza di quel lavoro.”
Teresa non dovette faticare a ottenere il posto per la cognata, che si rivelò una lavoratrice precisa e instancabile, riuscendo anche a farsi rispettare. Capiva tanti aspetti della guerra e della ricostruzione e contribuiva all’economia della famiglia. Ogni giorno, tornata a casa, aveva un gran raccontare a tutti.
Arrivava a ora di pranzo con lo scatolame dell’AMGOT, ma spesso passava dalla friggitoria di via Dante, che ormai a quell’ora era diventato il luogo di ritrovo della borghesia palermitana dove ognuno si disponeva ordinatamente in coda per il suo pacchettino di panelle e crocchè, cibo povero originariamente del proletariato urbano.
“Ai ragazzi piacciono tanto… “ dicevano le signore tra di loro, per non confessare che quello era l’unico pasto della famiglia.
“Io invece compro le panelle quando non ho soldi per altro, non mi vergogno a dirlo.” – disse un giorno francamente l’ingegnere Messina, liberando in un istante la cordialità del resto della fila.
“Noi le mangiamo tre volte la settimana – disse subito ridendo un docente universitario – e gli altri tre possiamo digiunare perché abbiamo lo stomaco talmente sconquassato…” – risero tutti.
Tutti avevano i gomiti sfondati e le giacche rivoltate, le uniche fibre indistruttibili erano quelle autarchiche: Giulio aveva un paio di pantaloni di fibra di ginestre che avevano lo strano effetto di allungarsi di mese in mese costringendo Wanda a scorciare l’orlo. C’era chi confezionava camicie con la seta dei paracadute, mentre a casa di Bianca, l’amica di Elda, avevano trovato rotoli e rotoli di tela cerata usata dal padre ingegnere per i progetti, l’avevano messa a bagno nell’acqua calda per levare l’appretto e vi avevano confezionato camice nelle quali in controluce si vedevano i tratti del pennino a china. Elda e le sue amiche avevano disfatto tutti i coprifasce di lana dei loro corredini da neonate trovati negli armadi, avevano steso la lana bagnata per far riprendere forma e si erano adoperate a confezionare golfini dalle nuance cangianti dei vari colori pastello:
“Sembra proprio modello.” Diceva Wanda alle ragazze che sferruzzavano.
Elda ora si sentiva meglio vestita di quando stava sulle Madonie. Si chiedeva se lassù stessero ancora parlando di gioielli.
[1] Subalterno del generale Alexander che era il capo dell’intera amministrazione dell’isola, più in alto dello stesso Poletti.
…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla
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