Elda cap 26, Rientro in città

L’estate era finita e per i siciliani era anche finita la guerra. I Lorenzi iniziarono a organizzare il rientro in città. Una mattina di ottobre Elda e Wanda andarono in avanscoperta, per riprendere i contatti con la casa e cercare di rimetterla in ordine.

Le due donne sapevano che avrebbero trovato una città stravolta e cambiata, ma lo stesso l’arrivo in città immise loro in uno scenario orrifico e surreale. Fuori la stazione centrale c’era un’enorme buca lunga quasi quanto l’intero marciapiede, tutto era avvolto in una nube densa. S’incamminarono a piedi fra le macerie di una via Roma tetra e silenziosa, completamente velata da una coltre bianca che era la polvere delle demolizioni, l’intera città ne era ricoperta e questo era un particolare che non avevano previsto. Avanzavano lentamente, cariche di sporte sistemate alla meglio in una vecchia carrozzina per neonati, al centro di una via semideserta.

Un palazzo, non distante dalla scala che conduceva al mercato della Vucciria, era come tanti altri completamente in rovina, non aveva più le basi di marmo dei balconi, le persiane erano appoggiate di traverso sorrette da un unico cardine, le travi dei tetti uscivano dai vani delle finestre privi degli infissi come fossero aste di bandiere, grossi cavi pendevano dalla facciata piena di graffi e buchi lugubri mentre ancora restavano intatte delle colonne in stile ionico; eppure il portiere stava ancora lì, seduto con la sua uniforme e il suo berretto a fare la guardia a un portone divelto e a un androne pieno di macerie e polvere, osservando le jeep degli americani che andavano su e giù. Elda stentava a riconoscere i luoghi; la via che era sempre stata animata di negozi e di commercio, adesso trattava l’unica merce che gli americani gradivano: alcool e ragazze.

Le botteghe erano state a una a una svuotate delle proprie mercanzie dopo ogni bombardamento, e al posto di ogni vetrina stava un tavolino con delle bottiglie di vino e sedute a banchetto qualche ragazza e un’improvvisata tenutaria. Quelle erano state ragazze perbene. Le strane botteghe avevano cartelli rudimentali con scritte storte a pennello, in Inglese: right price, laundry, american drink.

La mamma strinse Elda a sé. Per evitare che avesse sguardo e per evitare che fosse oggetto di sguardo. Più avanti, di fronte all’ingresso dell’Hotel delle Palme, l’esplosione di una bomba aveva creato un cratere che aveva trascinato giù un’autovettura, che adesso era affogata dai detriti e della quale si vedeva a malapena il tetto.

Man mano che avanzavano, risalendo la via Emerico Amari, sempre la stessa scena: palazzi sventrati, saracinesche contorte, infissi divelti, strade polverose e mucchi di macerie che rendevano arduo il passaggio della carrozzina. Giunti a piazza Politeama c’era un’enorme buca davanti all’Extra Bar Olimpia mentre la statua di fronte al teatro Politeama era senza testa.

Costeggiando a destra la piazza, quasi ad angolo con la via Villafranca, Elda scorse un palazzo del quale era crollato un intero angolo, sembrava una casa di bambola aperta su di un fianco, in cui si vedevano una sull’altra le solette dei piani e quello che restava degli arredamenti. Lei era stata in un appartamento al secondo piano di cui adesso si vedeva il lampadario pendere dal soffitto e un quadro storto. In quella casa lei aveva giocato con la piccola Sofia, la figlia di un’amica della zia Teresa. Forse anche Elda era entrata in quel salotto, di cui si vedeva la carta da parato liscia e pulita sui muri e il pavimento completamente sfondato. Ma dov’era adesso Sofia? Dove erano finite le sue cose? Anche quella famiglia, come la sua, si era probabilmente accomiatata con dolore da un salotto ingombro di casse, sperando di ritrovare tutto com’era in quel momento.

Elda sapeva che la loro casa era rimasta in piedi, Giulio vi era andato qualche giorno prima, ma non si faceva alcuna illusione, tutto sarebbe stato diverso, la loro casa, la loro vita cittadina, dopo soltanto dieci mesi di sfollamento. Dieci mesi in cui era successo tutto.

Davanti al loro portone Carmela, la bella e bruna figlia dei portieri, stava in piedi appoggiata allo sportello di una jeep, conversando civettuola con dei soldati, era la prima volta che Elda la vedeva calzare un paio di scarpe e non aveva molta voglia di biasimarla.

La casa era senza vetri alle finestre ma stranamente non era stata violata da vandali, sciacalli o soldati di qualsiasi esercito. Forse non era risultata molto appetibile. Era invece popolata da ogni sorta di insetti che uscivano a frotte dalle condutture dell’acqua, ormai secche da troppo tempo. Non c’era acqua, né gas, né corrente elettrica. Non era impresa da poco pulire quella casa disabitata da quasi un anno, dalle cui finestre era entrata la spessa coltre di polvere bianca delle macerie, non avevano sapone sufficiente e l’acqua bisognava andare a raccoglierla per strada, più tardi sarebbe arrivata razionata: ogni tanto un filo. Le cimici si erano impadronite delle reti e dei materassi.

Dovettero accomodare le finestre con pezzi di cartone e con il vetro tolto dai ritratti di famiglia. Per fortuna gli americani distribuivano provviste, fra cui il sapone e il DDT[1], indispensabile per liberarsi dai parassiti.

Dopo qualche giorno si trasferì l’intera famiglia e a poco a poco i Lorenzi cominciarono ad ambientarsi in una città invasa dagli americani e dal sottobosco di venditori che girava attorno a loro:

“Fare la spesa ormai significa scendere a patti con gente di malaffare! – si sfogò un giorno Wanda a tavola”- Persino il portiere s’è messo a fare la borsa nera! Con quella figlia tutta imbellettata!”

“Quello è un pesce piccolo – commentò Guglielmo – sono i lorsignori ad avere il controllo su tutto!”

“E sai che cosa ho saputo oggi al Capo? Che abbiamo mangiato per quattro anni quel nauseabondo pane nero, mentre i nostri eserciti avevano magazzini pieni di grano!” continuò Wanda gonfia di rabbia.

“Questo lo sapevamo! Non te lo ricordi il magazzino di Bagheria il giorno della fuga dell’esercito?”

“Meno male che almeno quei poveri affamati hanno potuto prendere qualcosa.”

“Se è per questo, quei magazzini li hanno svuotati per primi gli stessi lorsignori. Quei poveri affamati hanno trovato solo le briciole.” disse Guglielmo.

Giulio a questo punto si inserì nella conversazione:

“C’è stato anche qualcun altro che ha sempre avuto il grano durante la guerra, ti ricordi mamma di quella volta che a Santa Flavia sei arrivata felice gridando Il Principe, il Principe! Ha regalato a tutti pane bianco, due pagnotte a testa! ? Vi siete mai chiesti perché mai questo Principe, che manco si sapeva chi fosse, avesse ancora tanto grano nei magazzini?” Elda stava zitta temendo dove suo fratello volesse arrivare.

“Che vuoi dire Giulio? – disse suo padre – è pacifico che chi aveva un pezzetto di terra poteva contare sui prodotti del proprio orto!”

“E lo chiami frutto di un orticello il grano per panificare per un intero paese? Era vietato avere tanto grano ammassato, chiunque produceva aveva l’obbligo di fare passare la merce attraverso il razionamento con le carte annonarie!”

“Difatti quel giorno il pane del Principe fu segnato nelle carte annonarie al posto del pane nero!” precisò sua madre con un tono ancora deferente nei confronti dell’ignoto Principe.

“E perché quel pane non era venuto fuori prima? Non è per caso che il Principe volesse redimersi prima dell’arrivo degli americani? Se non sbaglio è successo poco prima che sbarcassero!”

“Ma chi poteva pensare ad una cosa simile?” disse esterrefatto Guglielmo.

“Lo so papà, non ci ha pensato nessuno, né io, né tu, né la mamma, ne’ il resto della popolazione. Abbiamo tutti ringraziato felici perché non vedevamo pane bianco da tre anni!”

“Certo da qualche parte in Sicilia ci deve essere qualcuno che ha prodotto per la borsa nera in tempo di guerra, non sono certo stati i nostri portieri né i lorsignori.” Guglielmo sembrava disfatto nell’ammettere queste cose, mentre Elda restava in silenzio come colpita da una sferzata.

“Qualcuno che ha le terre! E le terre non le hanno né i contadini né i mezzadri e neanche i lorsignori, le terre le hanno i vostri amici nobili del Circolo!” concluse Giulio; aveva già finito di desinare e il rumore della sua sedia nell’alzarsi da tavola sembrò quasi un gesto di rabbia. Guglielmo andò verso la finestra e si mise a guardare fuori, come era solito fare quando qualche pensiero lo arrovellava. Elda rimase seduta con la testa china mentre sua madre sparecchiava, a un certo punto si alzò anche lei per darle una mano, cercando di non incrociare alcuno sguardo al suo passaggio.

Come dimenticare quelle terre gravide d’ogni ben di dio? Come non ricordare il via vai delle merci dalle campagne ai magazzini dei suoi Baroni, senza sospettare che la gran parte era destinata da qualche altra parte? Come non fare un confronto fra i lorsignori di cui parlava suo padre e quei tipi loschi col fucile che avevano accesso al palazzo di Pietralunga, i famosi soprastanti! Aveva imparato a identificare nel mercato nero, l’intrallazzo, il più meschino dei commerci, uno sciacallaggio che si faceva gioco delle vittime di una guerra, della sua stessa famiglia, di sua madre, che era dimagrita dodici chili negli ultimi tre anni.

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.



[1] Il diclorodifeniltricloroetano o DDT è un insetticida che nel secondo dopoguerra fu usato in dosi massicce sia sulla popolazione civile che su quella militare. Nel 1950, la Food and Drug Administration dichiarò che “con tutta probabilità i rischi potenziali del DDT erano stati sottovalutati”. Nel 1972, il DDT venne proibito negli Stati Uniti, nel 1978 anche in Italia.

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