Il Natale di bambole e giocattoli

Dalla mia dollshouse

E’ una fortuna avere dei bambini con cui festeggiare il Natale, creano scompiglio, contagiano la loro eccitazione, distraggono dai posti vuoti di chi non c’è più, ma soprattutto ricevono giocattoli, dando ai presenti l’occasione di tornare infanti ancora una volta: montare tricicli e monopattini, piste per trenini e macchinette, castelli e casette di lego e poi mettere le pile a droni e razzi laser, vestire e svestire bambole. C’è chi annoia i bimbi seguendo pedissequamente le istruzioni e chi perde pezzi nel tentativo di montare in fretta il gioco. C’è chi dice di odiare il mondo dell’infanzia e poi rincretinisce reggendo il nipotino che ha appena imparato a camminare, c’è la bisnonna un pò dimentica che si ritrova a giocare alle signore col nuovo servizietto di porcellana.

Poi ci sono quelli come me, che in queso mondo trovano tutti i pretesti per restarci. La mia vita s’è sdoppiata fra serissimi studi classici, forte impegno politico… e la costuzione di una dollhouse, fra il design di strutture di pronto soccorso e quello di giocattoli per la prima infanzia, per poi finire a lavorare in un negozio di giocattoli alternativi e infine approdare al teatro che, come dice un amico scenografo, non è altro che una casetta di bambole.

In realtà quello che mi attira del mondo dei giocattoli sono i mondi in miniatura e i loro personaggi, che poi si chiamano bambole. Chissà perché al mondo delle bambole si da un valore sminuente, come se fosse una realtà stucchevole, forse perché appannaggio forzato del genere femminile, dato che ai bambini maschi viene impedito o scoraggiato. Forse perché le donne nella terza età si appassionano nuovamente ad esso. Lo stesso dileggio non avviene però con la passione senile per i soldatini, o per il modellismo di navi e aeroplani, che in fondo sono il corrispettivo maschile delle case di bambola.

In realtà, se cerchi su google il termine “dolls” viene fuori di tutto: le immagini del film di Takeshi Kitano, riproduzioni grottescamente realistiche di neonati, bambole horror, replicanti a scopo sessuale. Le bambole rischiano facilmente di diventare oggetti inquietanti, forse per questo alcuni produttori sentono il bisogno di rassicurare il mondo dell’infanzia con smorfie e posizioni spiritose.

Il desiderio di creare umanoidi: replicanti, avatar, bambole, marionette o robot che siano, è antico quanto la storia delle civiltà. Addirittura il corpo umano è stato usato come parametro geometrico per canoni artistici o architettonici. L’essere umano non riesce a prescindere dal proprio aspetto neanche quando si tratta di immaginare mostri o alieni, alla fine si aggiunge un dettaglio che rende la “cosa” umana. Anche adesso, quando si progettano robot per puri scopi utilitari si cerca di dargli braccia e gambe, e magari due occhi e la parola. Sembra anche che gli esseri umani finiscano per affezionarsi ai robot che compiono imprese pericolose o faticose in loro vece. Io stessa ho voluto dare il nome “Anacleto” al disco aspirapolvere che gira da solo per casa, provando empatia per lui quando rimane impigliato in qualche cosa.

Quando quindi si parla di bambole come mero oggetto di gioco infantile, per giunta “femminile”, si fa torto ad un desiderio recondito che probabilmente è in ognuno di noi, cioè quello di avere un alter ego.

Quindi confesso la mia passione per la bambole, anche se sui generis, perché a 60 anni non ho resistito alla tentazione di montare da me una stampante 3D, per poi finire a stampare bambole snodabili da me progettate.

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