Elda cap 20, Tutti vivi?

Questo capitolo è letto da Eugenio Sorrentino

Avevano già oltrepassato la stazione di Termini Imerese, anche lì c’era stato il trambusto alla porta del vagone: una massa che voleva salire e pochi che invece volevano scendere. All’uscita di una lunga galleria Elda scorse molto in lontananza il Capo Zafferano, l’aveva sempre visto dall’altra angolazione ma riconobbe con gioia un luogo amico, c’era tempo per arrivare e tratteneva il respiro sperando che non le arrivasse qualche calcio o gomitata, poi iniziarono a comparire una dopo l’altra stazioni ferroviarie della costa che lei non conosceva, non aveva mai percorso il tragitto da quella direzione e ogni volta che il treno si fermava, leggeva l’insegna sul casello pensando che fosse Santa Flavia. Vide così sfilare davanti a sé, una ad una, Trabia, San Nicola, Altavilla, in ognuna di esse c’era la solita calca di chi saliva e scendeva. Il treno camminava ad una velocità talmente ridotta che si sarebbe potuto saltare giù e anche risalire senza fretta, poi arrivò la stazione di Casteldaccia, sapeva che quello era un paese vicino a Santa Flavia e iniziò a spingere i suoi bagagli in modo che potesse averli pronti da gettare giù sgomitando fra membra umane, le sembrò ormai di conoscere quei luoghi, il mare e gli scogli sembravano quelli di sempre, una calma placida, con quel mare non poteva essere successo nulla di grave.

Finalmente, quasi all’improvviso, scorse la stazioncina che conosceva bene e che non avrebbe più dimenticata. Man mano che il treno si avvicinava, lentamente, riconosceva le aiuole fiorite, prima vanto del capostazione e adesso abbandonate all’ingiallimento, affogate in mezzo a una popolazione di persone che si aggirava guardinga lungo la banchina. E la vide, vide sua madre magra come un cencio che vagava su e giù scrutando ogni porta del treno. Elda la chiamò urlando e urlando chiedendo:

”Tutti vivi?”

Il treno nel frattempo si fermò con un tremendo scossone.

“Si tutti vivi!” Urlò sua madre.

Così Elda le passò i bagagli e poi le si gettò addosso scoppiando a piangere. Anche sua madre si sciolse in lacrime abbracciandola mentre Elda si chiedeva come avesse saputo l’orario preciso del suo arrivo. Più tardi, a casa, lei le avrebbe confessato che nell’ultima settimana si era recata alla stazione a ogni arrivo di treno dalla direzione di Messina.

Quella casa angusta e disadorna le sembrò per la prima volta accogliente, c’era suo padre, ancora molto debilitato dalla polmonite, che la strinse talmente forte che i due respiri affannosi si unirono in uno soltanto, quello di lui era debole e soffocato. Elda sentì il suo papà fremere nell’abbraccio, come se stesse piangendo sommessamente, mentre la sua pelle era madida di sudore.

…come è strana la percezione dei giovani sull’età dei genitori, rifletteva quella ragazza adesso quasi ottuagenaria, suo padre a quell’epoca aveva quarantacinque anni e a lei sembrava un vecchio…

C’era anche la nonna a casa, così provata dall’incalzare della guerra che non capì bene da dove arrivava Elda. Wanda invece si emozionò alla vista delle provviste:

“I Baroni sono stati tanto cari a mandarci queste cose.” Elda non ebbe il coraggio di confessare che in realtà era stato il Monsù. Con quelle provviste sarebbero sopravvissuti per quindici giorni.

Arrivò Giulio, la salutò con quel sorriso stampato in volto che Elda conosceva bene e le propose di fare due passi prima di cena, lei era sfinita e le parve una proposta assurda, ma infine accettò, forse temendo la necessità del fratello di rivelarle qualche brutta nuova, forse nel desiderio di farsi perdonare la lunga assenza.

Scesero le scale e imboccarono la via disadorna e serpentinea dalle case basse e modeste, era quasi il tramonto e si avviarono verso la piazza, si vedeva già la cupola in maiolica della chiesa di S. Anna ed il retro della Villa Filangeri. Giulio per fortuna non aveva brutte notizie, Elda capì che in lui c’era soltanto la volontà, predominante sul disappunto per le frequentazioni di sua sorella, di avere in famiglia un’altra persona giovane che lo sollevasse da alcuni pesi. Le raccontò come dopo il bombardamento del 9 maggio i viveri si erano fatti ancora più scarsi, avevano molto temuto per la salute del padre e lui non sapeva più come racimolare i soldi sufficienti per tirare avanti. Aveva infatti perso le speranze di recuperare i crediti dello studio, ormai i clienti erano tutti sfollati chissà dove e pure in miseria, gli era soltanto rimasto l’impiego al Genio Civile per i lavori di sgombero, così aveva continuato ad andare a Palermo quasi ogni giorno; anche in bicicletta quando la linea ferroviaria era interrotta. Giulio si astenne dal raccontarle cosa aveva visto sotto le macerie all’indomani del 9 maggio.

Lui si era occupato di tutto e Elda non sapeva come esprimergli la sua gratitudine, era assolutamente fuor di luogo raccontargli del suo soggiorno. Anche in futuro, nelle conversazioni fra i due fratelli, furono debitamente tenuti alla larga tutti i discorsi riguardanti Augusto e la sua famiglia. Ma i tanti volti di Giulio consentirono anche dei resoconti che allontanarono la cupezza. Aveva avuto il tempo di preparare tre esami e sostenerli brillantemente in un’amena sessione di giugno, organizzata dall’Università di Palermo nel giardino della Villa Filangeri. Per quell’occasione la casa si era popolata di alcuni colleghi universitari venuti da tutti i luoghi di sfollamento.

“Una mattina – Giulio raccontò – bussano alla porta e la mamma va ad aprire. Te lo ricordi il mio collega Alfredo?”

Elda già rideva quando si faceva quel nome e non si trattenne neanche questa volta:

“Che ci faceva Alfredo?”

“Era arrivato…  – Giulio si sedette sul muretto per ridere in santa pace – era arrivato a piedi da Mussomeli…”

“Ma perché da Mussomeli? – chiese Elda sbellicata dalle risa.

“Perché era sfollato lì con la famiglia ed era venuto qui per gli esami. Pensa tu la mamma… si vede questo allampanato di due metri che dice con un filo di voce… Giulio.”

Mischino[1]… “ – fece Elda, adesso impietosita.

“La cosa comica è che la mamma dovette salire in soffitta, perché da quando fa caldo io dormo lì che sto più in pace…”

“E allora?”

“E allora quando siamo scesi io e la mamma dalla soffitta, Alfredo non si vedeva, ma dov’è andato? chiedeva la mamma e poi lo abbiamo sentito russare.”

“E dov’era?”

“Sul tuo letto!”

“Sul mio letto? E perché?”

“E che ne so io! Era stanco morto e quello fu il primo letto che vide, ha dormito tutto il giorno, russava come un mulo… – continuò Giulio sbellicandosi – abbiamo mangiato a pranzo con quello che si rigirava nel letto russando… –

“No… non ci posso credere!”

“Si svegliò la sera spiegando che era arrivato a piedi da Mussomeli…”

Mischino…” disse Elda per la seconda volta.

I due fratelli, riuscendo a smascellarsi come quando ridevano con la zia Teresa, erano adesso quelli di sempre e Giulio continuò con altre cronache: Pippo, il suo collega di studi di Bagheria, lo aveva presentato a una coppia di suoi amici con i quali anche lui aveva stretto un’interessante amicizia. Vittorio era un giovane antifascista toscano che aveva studiato alla Normale di Pisa, la moglie Igea, che stava per avere un bambino, era invece laureata in lingue. Igea era la figlia di un Duca che occupava la piccola parte di un’ala della Villa barocca di famiglia a Bagheria, mentre i due giovani erano alloggiati in una sua dépendance. Il Duca era un nobile dalle idee progressiste e dalle molteplici vocazioni intellettuali, stava anche nascondendo nelle foresterie della Villa un suo amico musicista di origini ebraiche insieme alla moglie e alla figlia. Da come Giulio descriveva queste persone Elda capiva che per lui erano importanti, le prometteva di presentarglieli intercalando: sono colti… sono affascinanti… sono diversi… sono allegri… Anche suo fratello frequentava adesso dei nobili?

Giulio raccontava che nel complesso l’inverno lì era stato interessante, tanti giovani in vacanza forzata organizzavano gite in bicicletta, sul litorale di Aspra, al capo Zafferano, a Casteldaccia, alla spiaggia dell’Olivella, nonostante si temesse che la costa fosse minata. Era anche stato un inverno mite e avevano preso bagni senza sosta. C’era poi un ragazzo che non si sa come aveva dei dischi di musica Jazz, loro potevano soltanto sentirli dal grammofono con le finestre tappate e il volume bassissimo perché se fossero stati scoperti, avrebbero rischiato un’accusa di disfattismo: con le disposizioni autarchiche era sovversivo persino ascoltare la musica americana al posto del Trio Lescano[2].

I fratelli ripresero il cammino lungo il Corso verso la ferrovia, la strada era affollata e da lontano la piazzetta fra il caffè e il passaggio al livello sembrava animata di gente.

Man mano che si avvicinavano Elda osservava tanti ragazzi seduti sul muretto che delimita la villetta della stazione, nessuno aveva i soldi per sedersi al caffè ma in quella piazzetta c’era un’aria frizzante che stava contagiando anche Elda. C’erano ragazzi del suo liceo e colleghi d’Università di Giulio e tutti, come del resto suo fratello, oscuravano ogni tormento con un’ansia incontenibile di socializzazione.

In mezzo a un gruppetto c’era Lia, la sua compagna di banco, che si alzò festosa salutandola e abbracciandola:

“Elda ma dove sei stata? Non sai la notizia meravigliosa? Siamo stati tutti promossi!”

“Ma che dici? Anche noi del terzo?”

“Si!” fece quella raggiante.

“E gli esami di licenza?”

“Niente! Ce lo ha detto il professore Gorla che è qui sfollato dalla sorella. Capisci la mia fortuna? Non ce l’avrei mai fatta!”

“Ma non è possibile!”

“Elda! Non fare la prima della classe! Non vorrai certo dire che ti dispiace?”

In realtà a Elda dispiaceva.

Da tre anni aspettava il momento degli esami come il coronamento glorioso della sua carriera scolastica, si era immaginata lei, seduta davanti alla commissione, stupire tutti con la sua colta dialettica. Ma non poteva certo ammetterlo, soprattutto alla sua cara amica Lia, che era sempre stata in bilico a ogni scrutinio.

“Mi dispiace non vedere più tutte voi, anche i professori. Non abbiamo avuto il tempo di salutarci.”

“Ma siamo quasi tutte qua! Potrai iscriverti a lettere e Filosofia con Bianca e Giulia, come voleva il professore Gorla. Mettiti d’accordo con loro, stanno tutt’e due all’Olivella. Io non continuo, è già stato un miracolo avere la licenza liceale. Poi finita la guerra io ed Attilio ci sposiamo.”

“Di già?”

“Ho vent’anni, è l’età giusta!”

In realtà Lia era più grande di lei perché era ripetente, ma anche Elda fra meno di un mese avrebbe compiuto 19 anni. Essere adulte adesso non le sembrava più una cosa tanto eccitante.

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.


[1] Mischino in siciliano vuol dire poverino, è un aggettivo benevolo.

[2] Il Trio Lescano, trio vocale popolarissimo in Italia a cavallo tra gli anni trenta e gli anni quaranta, rappresentò la risposta italiana al trio statunitense delle Andrews Sisters, perfino il loro nomi olandesi vennero italianizzati: da Alexandra ad Alessandra, da Judith a Giuditta e da Kitty Leschan in Caterinetta Lescano.

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