Il senso dei palermitani per la terra

Negli anni sessanta Palermo ha tentato di chiudersi nel cemento, inglobando la sua natura in una sorta di sarcofago nucleare. Era il sacco di Palermo e quel periodo, studiato come esempio di cattiva amministrazione, ha inaugurato un sentimento che perdura tutt’ora: l’odio dei cittadini per la terra.

Le graziose villette Liberty venivano buttate giù per costruire palazzi, mentre nelle nuove periferie il cemento rivestiva, lisciava, sanificava ettari di terra a fave e fichidindia, ma anche orti, giardini e agrumeti della Conca d’Oro. Il motto era “non lasciare un pezzetto di terra al caso.” L’abitazione ideale diventò il pentavani con pavimenti in marmo o ceramica, facili da pulire e da lucidare con la cera Grey. Non un granello di terra doveva essere introdotto tra le mura domestiche, in una sorta di ossessione dell’incontaminazione. E quando negli anni settanta la villetta al mare si impose più come status symbol che come oggetto del desiderio, anche lì la primaria preoccupazione fu quella di tenere alla larga la terra. I bambini dovevano giocare senza sporcarsi e comunque venivano puliti prima di rientrare in casa, la quale era totalmente circondata da terrazzamenti in maiolica, puliti e lisciati come il salotto di città, mentre vialetti cementificati delimitavano aiuole scarne, preferibilmente piantate a succulente.

L’orrore per la terra si ritrovò anche nel linguaggio dialettale “Va lavati! Unni a pigghiasti tutta sta terra?” (Vatti a lavare! Da dove hai preso tutta questa terra?) “Si iu a fari a casa ‘ntu iardino, cu tutta a terra ca trasi rintra!” (si andò a costruire la casa in un giardino, con tutta la terra che gli entra dentro! – Giardino abborrito come se si trattasse di una discarica), oppure l’insulto “piede incretato” che sottintende una natura animalesca e primitva del lavoratore della terra, dimenticando il patrimonio di saperi e conoscenze del mondo contadino.

L’unico verde consentito, allora come ora, è quello produttivo, altrimenti risulta inutile (trova a Palermo un giardiniere che sappia curare piante ornamentali!). Non si apprezza l’ombra di un albero frondoso o la bellezza di un fiore, e se è così se ne soppesa subito il lato negativo: gli alberi sono pericolosi e le piante in balcone generano umidità.

Il verde a Palermo è quindi carbonaro, si impone in modo sovversivo approfittando della mancata vigilanza, esplode in forma erbosa fra le pietre dei basolati, ciuffi di cappero si insinuano fra le pietre dei muretti, arbusti di fico fuoriescono dai buchi dell’asfalto, viti coltivate fra le sporcizie di un marciapiede e poi poi avviate ad arrampicarsi lungo il tubo della gronda per tre o quattro piani, fino a raggiungere il balcone desiderato, ma lo scopo è quello di un vino a buon prezzo più che il godimento del fogliame. E non mancano le derive violente, come i pericolosi (per davvero) alberi di ailanto che spaccano i tufi delle mura Normanne, introdotti in città da un incauto amministratore dei tempi andati. Solo la meravigliosa Pomelia, Plumeria Palermitana o Frangipani, è ammessa nei balconi cittadini, una o due a famiglia non esageriamo, che scarna e solitaria per tre stagioni, trova il suo momento di gloria in estate. Ma lei ha più che altro un significato simbolico.

Mi sono arrovellata sull’origine di tanto odio e credo di averlo trovato. Il sacco di Palermo andò di pari passo con un inurbamento dalle campagne di tutta la Sicilia. Fu la fine della nostra agricoltura, abili contadini si impigrirono a vari livelli negli uffici della nascente Regione Siciliana a Statuto Autonomo, andando ad abitare proprio nei palazzi che si imponevano sui precedenti giardini. Si trattava forse della componente più fortunata del nostro mondo contadino, perché agli altri è toccato emigrare al nord Italia (dove appunto venivano chiamati terroni) o in Europa, ma il sentimento di affrancamento era comune a tutti.

La terra era un trauma generazionale che ci si voleva gettare alle spalle, perché i siciliani la terra l’hanno subìta lavorando come schiavi “da scuro a scuro” (dall’alba al tramonto) curvati dalla zappa, dalle intemperie e dalle schioppette dei soprastanti; umiliati e fregati dalla legge verbale della mancia ‘nchiusa (un gruzzoletto di grano che non bastava neanche a sfamare la famiglia, come unico salario di un anno di fatica). Una condizione di vita spesso insana, dormendo nei giacigli di paglia insieme alle bestie. E quando avevano provato a ribellarsi non era finita bene.

L’odio per la terra è quindi una ferita ancestrale, carne viva spesso incistata da un bisnonno o un trisavolo di cui non si sa più nulla, ma mai elaborata al punto da identificarne il vero nemico, che non è la terra ma il latifondo: un sistema di potere feudale che ha reso schiavi per secoli i popoli siciliani.

Le tante esperienze di giovani che si riappropriano della terra, sparse quà e la nelle campagne siciliane, segnano qundi una sorta di processo postumo di pacificazione con la terra, un lento riabituarsi ai capricci e alle esigenze della natura, che spero riesca prima o poi a contagiare la nostra capitale.

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