Io, Elio Vittorini, i miei professori e la gioia di una buona conversazione

L’anno scolastico dei miei esami di maturità fu il 1974/75 quando, a seguito di una recente riforma ministeriale, gli esami si erano trasformati da incubo a piacevole occasione di approfondimento. Si trattavano due materie allo scritto e due all’orale, queste ultime scelte fra una rosa di quattro comunicate dal ministero nel mese di aprile. Delle due orali la prima veniva scelta dal candidato, la seconda in pratica pure, perché per un tacito accordo ogni studente rendeva noto il suo desiderio al membro interno che lo comunicava al resto della commissione, e al novanta per cento veniva accontentato.

Ad aprile ci venne comunicato che le prove scritte consistevano nel tema di italiano e in una versione di latino, mentre le quattro materie fra cui scegliere le due da discutere agli esami orali sarebbero state: letteratura greca, letteratura italiana, geografia astronomica e filosofia.

Non so perché, forse per la nota dialettica provocatoria che mi distingueva, i miei professori si convinsero che oltre alla letteratura italiana avrei scelto come seconda materia la filosofia. Ma ero in silenziosa polemica col nostro professore da cui avrei preferito un approccio diverso alla materia, che magari ci aiutasse a far funzionare il lato speculativo del nostro cervello. Lui ci insegnava anche la storia, ma quella la si può studiare in autonomia, cosa che mi portava ad avere buoni voti.

L’altra incognita era la scelta del nostro membro interno: io speravo con tutto il cuore che fosse il professore Nino De Rosalia, un mentore di altissimo livello che insegnava anche al Magistero e che ci impartiva lezioni di letteratura italiana degne di un corso universitario. A dire il vero ogni professore della nostra sezione vantava livelli altissimi, primo fra tutti Vito Muciaccia, un personaggio sovrannaturale che nessuno dei suoi studenti avrebbe dimenticato, la cui decantazione in metrica greca dei versi su Nausicaa rimase una soave melodia localizzata da qualche parte nel nostro cervello; poi c’era il geniale professore di materie scientifiche, Matteo Smorto, e altri che non ricordo. L’ultimo che avrei voluto era proprio il professore Gioè di filosofia e invece quello fu. Così in uno di quei moti di rabbia che costituivano irrimediabilmente il mio carattere rifiutai di scegliere come seconda materia orale la filosofia, optando invece per la geografia astronomica. Quel professore la prese malissimo e insistette fino all’ultimo perché cambiassi idea.

Tornando al professore Nino De Rosalia, c’è da dire che oltre ad essere un grande divulgatore aveva anche il cuore a sinistra e questo ci accomunava. Mi stimava ma riconosceva in me delle spigolature che andavano smussate, prima fra tutte l’impulsività, poi una certa arroganza, in ultimo il fanatismo politico, invero molto comune in quegli anni fra gli studenti. Gli piacevano i miei temi ma non gradiva che scegliessi quello di attualità per dar sfogo a dissertazioni politiche. Così nell’ultimo anno di liceo aveva iniziato un’opera di addomesticamento che consisteva nell’assegnarmi compiti di critica letteraria sempre più di nicchia: sulla poesia di Ungaretti, sul verismo di Verga, poi su Pavese e Vittorini, poi ancora su Vittorini; infine volle che per l’esame di maturità producessi una tesina sulla polemica iniziata nel ‘46 fra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, che aveva per argomento il ruolo degli intellettuali nel partito comunista del primo dopoguerra: “È giusto – mi disse – che della tua parte politica tu conosca tutti gli aspetti, e poi non ti sarà difficile trovare le fonti fra gli scaffali di famiglia”. In effetti quel granlombardo dello zio Nicola utilizzava la cantina della nonna per accumulare ogni reperto della stampa comunista. Così, nel disappunto di un topo che non gradiva la mia intrusione, trovai in quella cantina ciò che mi era necessario, dal numero 5-6 (maggio-giugno 1946) della rivista Rinascita in cui il dirigente comunista Mario Alicata (il cui fratello per uno strano caso abitava tre piani sopra quella cantina) criticava le sperimentali scelte letterarie della rivista Il Politecnico: “La corrente Politecnico. Poi c’era il numero 31-32 (luglio – agosto 1946) de Il Politecnico: “Risposte ai lettori su “politica e cultura. Poi nel numero 33-34 (settembre-dicembre 1946) de Il Politecnico compariva a gamba tesa “Una lettera di Palmiro Togliatti” (sommo dirigente del Partito Comunista Italiano). E nel numero 35 (gennaio-marzo 1947) su Il Politecnico Elio Vittorini rispondeva con “Lettera a Palmiro Togliatti”. Infine l’odioso articolo del numero 8-9 (agosto-settembre 1951) di Rinascita (a firma Roderigo di Castiglia, pseudonimo di Palmiro Togliatti): “Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato.” Che in questo modo commentava il doloroso distacco dal partito di un intellettuale che non vi si riconosceva più, scelta purtroppo seguita da molte altre perle del panorama culturale italiano.

Divorai ogni scritto di Elio Vittorini, da quelli giovanili a quelli più criptici degli ultimi anni, piansi lacrime amare per le arance di Conversazione in Sicilia, leggendolo più volte. Nel frattempo esaminavo ogni virgola della polemica, caricandomi di indignazione, ma anche di fascinazione per Elio Vittorini, imparando però a dosare le parole. Riguardavo le bozze col professore e, anche se non lo capivo, in quei mesi diventavo adulta.

Gli esami scritti passarono lisci e come sempre scelsi il tema di attualità. La versione di latino procedette così come ci aveva abituati il professore Vito Muciaccia: un lavoro di gruppo in cui i tre esperti di lingue classiche che avevamo fra noi (Silvana Giuliana, Marcello Romano e Nino Pipitò) svolgevano il lavoro intuitivo e di coordinamento, una decina di diligenti riguardava ogni frase e una manovalanza che mi comprendeva cercava sul vocabolario. Ricordo il momento in cui Silvana, sfinita, si girò verso i banchi alle sue spalle chiedendo ad alta voce: “Vorrei il quarto periodo e il termos del tè freddo.” I professori, che avrebbero dovuto sorvegliarci, guardavano ammirati quel lavoro di squadra.

Nonostante la scuola avesse terminato il calendario scolastico, tornavamo in classe ogni pomeriggio per ripetizioni straordinarie di letteratura che il professor De Rosalia ci accordava generosamente. In uno di quei pomeriggi andammo un pò prima, perché avremmo trovato i tabelloni in cui veniva dichiarata la seconda materia che la commissione aveva scelto per ogni candidato.

Ricordo la faccia del mio compagno Roberto Leone che, entrato per primo nell’androne della scuola, era subito rispuntato nella scalinata esterna cercandomi con lo sguardo, a quel punto gli occhi della classe furono puntati su di me. Tutti i maturandi della scuola erano stati accontentati nella scelta della seconda materia, tranne me, perché il professore Gioè in piena coscienza (disse poi di averlo fatto per permettermi di dare il meglio) aveva affermato che desideravo discutere di filosofia e non di geografia astronomica, la materia per cui mi ero preparata con l’aiuto di un grande scienziato come Franco Foresta Martin, allora giovane collega di mia madre al giornale L’Ora.

Scappai a casa furiosa e la sera mi accorsi di avere la febbre, sarei stata una delle prime ad essere interrogata e in una settimana avrei dovuto ripassare una materia che avevo abbandonato dal mese di aprile.

Ci trasferimmo all’Aspra insieme alla famiglia di Orietta, che la filosofia l’aveva scelta davvero come secondo argomento d’esame e che ripassò con me l’intero programma, spiegandomi la materia così come non aveva saputo fare il professore. I suoi appunti potevano essere consegnati in tipografia per la pubblicazione di un manuale, tanto erano chiari, sintetici e dotati della corretta punteggiatura; lei aveva un dono eccezionale nell’assimilare le lezioni e inserirvi la sua nota critica, l’esatto contrario di me sempre tormentata da un deficit d’attenzione. Eravamo sicuri che la nostra classe, inserita nella gloriosa sezione B del Liceo Ginnasio Giuseppe Garibaldi di Palermo, avrebbe ricevuto tre 60, che allora rappresentava il massimo dei voti, sapevamo che sarebbero andati per certo a Silvana Giuliana, Marcello Romano e Nino Pipitò; ma se la commissione avesse voluto accordare un altro 60, per quello c’era una rosa di candidati che comprendeva Orietta, così come Fiorella, Licia e altri, non certo me che avevo avuto una carriera scolastica alquanto discontinua.

Il 19 luglio mi diressi all’esame orale di pessimo umore, peggiorato da mio padre che, ammirando il lungomare di Aspra mentre era alla guida, continuava a declamare: “Ormai l’estate è finita!” quando la mia cominciava giusto quel giorno.

Accomodandomi di fronte alla commissione intervenne un ulteriore elemento di apprensione, che fino a quel momento non avevo considerato. Il presidente era il professore Elio Carlotti che in passato era stato un grande luminare della mia scuola, ma non era riuscito a diventarne preside accettando la stessa poltrona al liceo classico di Monreale, a quanto pare in quell’occasione aveva avuto motivi d’attrito con il professore De Rosalia, aumentato dalla loro distanza politica; era infatti un democristiano di ala cattolico-conservatrice. Doveva aver saputo che godevo della stima del mio professore, oppure non gli era sfuggito il cognome della mia famiglia comunista, fatto sta che esordì con due domande a cui risposi con la mia solita verve polemica.

Per primo mi chiese il nome del più grande scrittore di tutti i tempi e non ci cascai, rispondendo che il giudizio sui grandi della letteratura è estremamente soggettivo e deve tener conto di innumerevoli implicazioni. Gli chiesi però chi aveva in mente e mi rispose: “Riccardo Bacchelli, quello de Il Mulino del Po, lei lo ha letto?”

“No.” – risposi.

“Cosa si celebra il giorno della Pentecoste?” – continuò.

“Non sono tenuta a rispondere a questa domanda.” risposi mentre ricevevo calci da sotto il tavolo. “E lei professore Gioè – continuai – la smetta di rimproverarmi, perché ho pienamente ragione.”

L’esame di li a poi era destinato ad andare a rotoli, ma non con gli elementi che avevo davanti. Il professore Carlotti mi aveva messo alla prova, non ero crollata e l’esame reale poteva cominciare.

Iniziammo dalla mia tesina, sviscerando il rapporto fra politica e cultura, in cui ogni commissario d’esame espresse la sua opinione e io non mancai di rivendicare l’indipendenza della letteratura dalla burocrazia di partito, mostrando di aver maturato quell’autonomia di pensiero auspicato dal convitato di pietra di quel desco, quel professore De Rosalia al quale Elio Carlotti si rivolgeva per mio tramite, probabilmente cercando di superare rancori e ferite personali. Lentamente mi accorsi di star raggiungendo uno stato di grazia in cui riuscivo a spaziare dalla letteratura alla storia alla filosofia, coinvolgendo l’intero parterre ed evitando che mi fossero poste domande a saltare. Alle 13,45 una professoressa intervenne timidamente: “Scusate, anch’io come voi sono rapita da questa conversazione, ma vorrei ricordarvi che abbiamo ancora un altro candidato da esaminare.”

L’esame si concluse con i membri di commissione che si contendevano la copia della tesina che avevo riservato per me, allora si scriveva a macchina con l’aiuto della carta carbone e l’ultima copia era sempre uno schifo. Non ricordo cosa c’era scritto ma non doveva essere male.

Iniziò la mia estate e anche il primo amore, i miei genitori partirono e la casa al mare si riempì dei miei amici. Una mattina ricevetti la telefonata di un amico di famiglia che aveva avuto notizie di prima mano dai Gesuiti del Gonzaga, essendo la nostra classe abbinata alla loro terza liceo.

“Complimenti, hai preso 60!”

“Io? No, io sono Maria Adele, è Orietta che avrebbe dovuto prendere 60, a proposito, quanto ha preso?”

“Lei 58, un ottimo voto anche quello, potresti dirglielo tu?”

“Io? Ma come faccio?

I silenzi che accompagnarono la notizia mi dissero che nessuno l’aveva presa bene, neanche i miei genitori che l’anno prima avevano gioito del 54 di mio fratello, che in quel modo superava anni di difficoltà con lo studio.

Ebbi un momento di pausa dalla sindrome dell’impostore solo quando mio cugino Roberto mi sussurro’ all’orecchio “sono fiero di te”, ma il mio pensiero andava a Orietta, amica del cuore che era stata tanto affettuosa con quelle ripetizioni.

Ogni tanto penso che il Professore De Rosalia fece per me la cosa più generosa che un mentore possa fare per un allievo, stimolarlo al ragionamento, portarlo a quella maturità di pensiero invocato dal nome dei nostri esami di fine liceo. Forse quel voto, più che a me, è stato conferito alla qualità di quei 45 minuti di alta conversazione, forse andrebbe ai professori Gioè, De Rosalia e Carlotti, forse a quel liceo di eccellenza allora diretto dal professore Sarino Armando Costa.

A me erano bastati quei 45 minuti di pura gioia.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.