Elda cap. 13, La cucina del Monsù

Questo capitolo è letto da Emanuela Chines

Elda visitò tutti i luoghi del cibo con Augusto, la cantina era una grotta sotterranea scavata nella pietra, dove la temperatura poteva arrivare a otto gradi anche nei mesi estivi. Lì era conservata la frutta che ogni giorno una serva aveva il compito di rivoltare nelle ceste, perché la parte a contatto non marcisse, stavano anche appesi i prosciutti e i salami e venivano stivati i pezzi di carne e la cacciagione, altre stanze a metà fra la cantina e il piano terra conservavano i vini, i legumi e le conserve.

Quello che serviva per il giorno andava portato in cucina, regno incontrastato del Monsù, una traduzione in siciliano di quel Monsieur con cui i Borboni chiamavano il cuoco di casa, qui il Monsù si chiamava Don Isidoro e aveva il suo regno in una enorme cucina, motore principale di una industria laboriosa che iniziava la sua attività all’alba, quando Crocetta accendeva il focolare. Sulla parete nord vi era un’enorme esposizione di rame: pentole, forme di budini e padelle, che la piccola sguattera Saretta doveva lucidare ogni settimana con il limone e la cenere. C’era donna Nunzia addetta al forno perché si panificava ogni settimana e donna Cosima che controllava gli arrosti, c’era infine donna Carmela specializzata nelle fritture: arancine, crocchè, verdure in pastella soffici e croccanti. Poi Isidoro preparava sformati, pasticci di caccia, timballi, briosce e anche dolci: cassate, ravioli fritti con la ricotta e lo sfoglio. Don Isidoro aveva anche aggiunto piatti della cucina lombarda come il risotto con l’ossobuco, il brasato e le costolette al burro.

Durante la prima lezione di latino giunse un ricco vassoio con la merenda di cotognata e savoiardi destinata a Olghina, lei sbocconcellò qualcosa e lasciò il resto a Elda. L’indomani il Monsù in persona si presentò con delle briosce con la panna.

Sin da quando Elda era bambina, la passeggiata familiare lungo la via Ruggero Settimo era una gita appagante solamente se aveva come meta la pasticceria Caflish, l’Extrabar o addirittura la Pasticceria del Massimo, per consumare una briosce con panna. La briosce, altro francesismo ereditato dal periodo Borbonico, è un pane dolce che si vende nelle boulangérie francesi, i Monsù delle famiglie aristocratiche avevano creato con questo impasto leggermente dolce, ricco di burro (sostituito dai Monsù con lo strutto) e uova, un piatto salato che conteneva all’interno una farcitura a base di besciamella, formaggi dolci, prosciutto e talvolta carne di vitello. Una versione più popolare della briosce era invece quella venduta in forma di panini rotondi nei bar e pasticcerie di Palermo, consumata dalla cittadinanza in qualsiasi occasione, dalla prima colazione alla merenda. Particolare raffinatezza era abbinare la briosce alla granita di caffè o di limone o addirittura aprirla nel mezzo e riempirla di gelato, ancora un vezzo capriccioso era arricchire la briosce con gelato di una abbondante cucchiaiata di panna, ma il piacere supremo era riempire la briosce solamente di panna. Con lo scoppio della guerra in città, qualsiasi grasso animale o vegetale era stato ridotto al minimo e lo zucchero era sparito del tutto, chi mai avrebbe più potuto consumare una briosce con panna?

Eppure, Elda riusciva ancora a gustare quel sapore, lì ce ne erano quattro, confezionate artigianalmente con farina bianca, burro, panna di prima scrematura e zucchero, le sembrò di essere stata catapultata in un altro mondo, di essere in un sogno.

Olghina ne assaggiò una e dopo qualche boccone concesse degli educati complimenti al Monsù.

Questi accettò i complimenti con un inchino e si rivolse a Elda.

“Signorina Elda, a gradire.”

Elda aspettava tanto che quasi si affogò al primo morso.

Cosa diversa da quelle dell’Extrabar o di Caflish erano queste briosce, si sentiva il sapore del burro che anche lei di nonna veneta sapeva apprezzare, il sapore delle uova fresche e della farina bianca. Le lunghe bolle della lievitatura, erano il frutto di violente sbattute della pasta sulla spessa balata di marmo (Elda l’aveva visto fare alla zia nelle buone occasioni). E poi la panna, scremata da un latte munto al mattino e sbattuto con lo zucchero in una ciotola che nel doppio fondo conteneva ghiaccio tritato, era freschissima!

Il modo in cui Elda gustò la sua briosce fu più eloquente dei tanti inchini educati di Olga, e a ciò si aggiunsero delle lodi sentite e competenti. Mai nessun complimento, neanche quelli della Principessa in persona, aveva riempito tanto d’orgoglio il Monsù Isidoro, quanto gli occhi soddisfatti di quella ragazza emaciata appena sfuggita ai bombardamenti della città. Il Monsù decise che di lì in poi avrebbe nutrito Elda come un cucciolo trovatello.

L’indomani, nel pomeriggio, Elda venne intercettata per casa dalla cameriera Vincenzina che le chiese di seguirla.

“Signorina, venite, venite! Don Isidoro ha messo da parte una cosa per lei.”

Così attraverso l’anticucina Elda venne clandestinamente introdotta nell’enorme cucina dove c’era ad aspettarla un piatto di sorbe, una porzione di cotognata e una fetta di sfoglio[1].

Erano le quattro del pomeriggio e la cucina seguitava il suo perenne lavoro fra la colazione e il pranzo della sera: ancora le sguattere non avevano finito di asciugare le posate che già il Monsù stava disponendo gli strati di un sartù di riso, mentre donna Carmela passava per farina, uovo e mollica le crocchette di latte e Crocetta stava disossando un pollo.

Elda iniziò a consumare la sua merenda guardandosi attorno:

“Questo si chiama sfoglio – diceva orgoglioso il Monsù – è il nostro dolce.”

“Ne avevo sentito parlare – disse Elda – ma è la prima volta che lo mangio, non si sente che c’è il formaggio.”

“Perché la tuma è freschissima, è di ieri mattina.”

“Manci tutto signurì, si viri ca si fici sicca npaliermu.[2]

“Ma che dici Crocetta? La signorina è tanto bella.” disse Carmela.

“Non si preoccupi, non mi offendo – rassicurò Elda – lo so che sono fatta magra, ma dove abito io è diventato difficile mangiare a sufficienza.”

A quel punto la fabbrica si fermò di colpo, ogni operaio con il proprio utensile sospeso in aria per sentire le notizie dalla città.

“Comu su i bummi?[3]

“Vieru iè ca satò u purtu?[4]

Elda si mise a rispondere uno ad uno mentre sentiva l’intercalare mischinamischinamatri santa… biii…

Qualcuno aveva notizie indirette, altri avevano figli in guerra nei fronti più esposti. Le chiesero anche della sua famiglia. Elda familiarizzò con quell’enorme popolazione, una comunità invisibile che coabitava con l’altra. Avevano dei nomi, dei soprannomi o inciurie, avevano delle famiglie che vivevano peggio di loro e che loro non vedevano mai, avevano sentimenti e sofferenze la cui unica consolazione era vivere di riflesso la vita dei Baroni: gioire delle loro gioie, soffrire per le loro avversità. Lì la ragazza si sentì accolta.

Ebbene sì, Elda ormai aveva la certezza di non essere perfettamente intonata con quell’ambiente aristocratico, dove ognuno era imparentato con l’altro. Al Circolo aveva osservato una ad una le altre ragazze, cugine più o meno lontane di Augusto e aveva temuto che per lui sarebbe stato facile, una volta che lei fosse ripartita, lasciarsi sedurre dal piacere di un fidanzamento ufficiale con una di quelle fanciulle, comodo, gradito alla sua famiglia.

Quel pomeriggio Augusto si accorse che Elda era stata in cucina e la rimproverò:

“Ti prego, non dare troppo filo ai domestici, e poi ricordati di stare nel salotto della nonna con le altre.”

No grazie, stasera non ho punto appetito.”

No grazie, stasera non ho punto appetito.”

——–

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.


[1] una scatola di pasta frolla con un ripieno di tuma fresca, zucchero, cannella e cioccolata fondente.

[2] mangi tutto, Signorina, si vede che a Palermo è dimagrita

[3] come sono le bombe?

[4] vero è che è saltato in aria il porto?

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