Il salotto della nonna era una sorta di domestica stanza del trono, adiacente all’alcova della Principessa, lì una volta a settimana la Nobildonna riceveva. Nei restanti giorni comunque, alle donne di casa si aggiungevano delle intime aristocratiche che lei si divertiva a punzecchiare, erano invadenti a tal punto che la Principessa poteva dir loro qualsiasi cattiveria senza mai togliere un sorriso adulatorio dalle loro labbra. Era il suo modo per vendicarsi di un mondo che odiava dal giorno del suo matrimonio.
Dopo l’infanzia in Lombardia, la Principessa era stata educata al collegio della SS. Annunziata a Poggio Imperiale, sulle colline che circondano Firenze, frequentato dalle giovinette di sangue reale di tutta Europa e in seguito da Maria José del Belgio futura Principessa di Piemonte. Terminato il collegio, era stata in giro fra vari corti aristocratiche d’Europa, imparando quattro lingue e sviluppando una notevole curiosità intellettuale. Essendole stato impedito di frequentare un’Università aveva accresciuto la sua cultura in modo autodidatta, potendo però disporre di biblioteche smisurate, inviolate dai più. La giunonica ragazza era già avanti negli anni senza che gli anziani nonni fossero stati capaci di mettere delle briglie al suo cervello, che era frutto di una cultura mitteleuropea e che faceva fuggire ogni pretendente con una conversazione stravagante. Minacciando di diseredarla essi riuscirono a imporle il matrimonio col nonno di Augusto, dal quale sarebbe nato un unico figlio maschio che era il padre dell’innamorato di Elda.
Anche lo sposo, un giovane vigoroso e dai modi grezzi, subiva un matrimonio imposto, sebbene conveniente dal punto di vista araldico e patrimoniale. Egli faceva parte di un mondo che considerava la cultura un superfluo accessorio, che aveva corrotto alcuni suoi eccentrici rappresentanti: fra la nobiltà Siciliana, in questo differente da quella Lombarda, il fatto che qualcuno cercasse di istruirsi, più che inutile sembrava disdicevole, come ammettere di non avere sufficienti latifondi per vivere di rendita. In passato addirittura qualcuno orgogliosamente apponeva negli atti di compravendita la scritta analfabeta in quanto nobile.
Il prezioso abito nuziale non era stato ancora deposto nel baule che già la giovane donna aveva intuito quale sarebbe stato il suo destino, aggravato dalla propria ostinazione nel non volersi piegare al gioco delle carte.
Era riuscita a sottrarsi con alcuni viaggi in Europa per visitare zie e cugine. Per il resto si era dovuta accontentare del ruolo di Principessa della sua corte. Così aveva trasformato il suo enorme bagaglio di esperienze in raffinate frecce per colpire altre donne, riuscendo sempre a centrare il bersaglio. Tra quelle montanare mezze nobili, sospettate non a torto di tessere relazioni sentimentali con il marito, il gioco era stato fin troppo facile e ai tempi di quel soggiorno era giunta a un’età in cui il suo sadismo, ormai affinato negli anni, stava iniziando ad annoiarla: era stata cattiva con la nuora e si sarebbe apprestata a fare lo stesso con Elda se mai quel fidanzamento fosse stato ufficializzato.
Un pomeriggio, una settimana dopo l’arrivo della ragazza, il salottino era animato dall’abituale tediosa conversazione che prima o poi sarebbe scivolata in un confronto di titoli nobiliari: per ogni famiglia chiamata in causa, si ricostruiva l’albero genealogico e poi si passava alla sua variante preferita: descrivere i gioielli di ogni casato, soppesando i carati, contando le filigrane, calibrando le perle ed enumerandone i fili; la conversazione si era arenata sulla descrizione di uno degli stemmi di famiglia e la Principessa era andata in camera da letto a prendere una miniatura che potesse supportare la sua tesi. Non c’era Ludovica, uscita con le amiche, non c’era la Baronessa madre di Augusto, non c’erano nemmeno Olghina e l’istitutrice, andate a far spese. C’erano alcune dame, lontane parenti, che liberate momentaneamente della presenza dell’austera insegnante, si erano lasciate andare a qualche pettegolezzo estemporaneo.
Dopo qualche minuto di assenza della Principessa, Elda sentì un tonfo sordo. Si rese conto che le altre non avevano sentito nulla e così, forse per impulsività, forse per interrompere la noia, si alzò silenziosa come un gatto intrufolandosi nella camera da letto della Principessa.
La trovò scomposta in quella particolare disarticolazione pelvica tipica delle bambole di bisquit, seduta per terra fra il comodino, il letto e la parete al suo fianco, anche la sua acconciatura, che solitamente la costringeva a uno scomodo pisolino in poltrona, per evitare di richiamare la pettinatrice anche nel pomeriggio, sembrava uno di quei bozzoli di stoppa sfilacciata che sormontavano le teste di porcellana delle poupées.
La vecchia era caduta come una gigantesca marionetta improvvisamente privata dei suoi fili e il suo sguardo supplichevole e vergognato esprimeva una richiesta d’aiuto, discreto se possibile. Successe così una cosa imprevedibile: con una serie di lampi fra le due intelligenze, fatti di sguardi e di pensieri, s’instaurò in un attimo una comunicazione che autorizzò l’impertinente ragazza a compiere un atto che poteva essere giudicato come irresponsabile. Immediatamente, in assoluto silenzio, Elda aveva valutato mentalmente la meccanica dei suoi atti successivi: andò dietro di lei e le infilò le braccia sotto le ascelle e, sorprendendosi di avere una forza sovrumana, nonostante il fatto che la nonna pesasse il doppio di lei, la rimise in piedi in un sol colpo, riassestandola sulle gambe.
Velocemente quindi, e sempre in silenzio, la aiutò a rimettersi in ordine. Fu arduo sostituire il lavoro della pettinatrice e Elda allungò una spazzola presa dal tavolino da tolette in direzione della testa della Principessa temendo uno schiaffone, costei invece si fece riordinare i capelli con animo imbelle e sguardo lievemente grato. Così Elda sistemò al loro posto le forcine che erano scivolate via dai capelli e senza che si fossero scambiate una sola parola, tornò a rimettersi al suo posto nel salottino. Dopo un attimo rientrò anche la Principessa, con quella miniatura che era in precedenza andata a cercare. La conversazione riprese senza che nessun’altra si fosse accorta dell’accaduto.
Di quell’episodio le due non parlarono mai. La stessa donna che fino a quel giorno era apparsa a Elda tanto saccente e altezzosa, adesso si svelava per quel che era: sola, disperata, arrendevole, intrappolata in conversazioni inutili. Elda e la Principessa, complice un semplice sguardo, si erano invece tacitamente coalizzate e avevano deciso per il futuro di non favorire scambievolmente l’una la schiavitù dell’altra, ma neanche questo si dissero mai.
Poi l’indomani, quando la Principessa era già certa che la ragazza era rimasta zitta, decise di metterla alla prova. Mentre Elda era con lei e le altre nel salottino, prese un libro rilegato in pergamena che conteneva nella prima pagina una dedica altolocata e, tenendo il libro in alto, in un’autorevolezza di gesti di cui era complice l’artrosi, iniziò a declamare in francese l’incipit di Guerra e Pace di Lev Tolstoj.
Eh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, des proprietés, de la famille Buonaparte.
Da quella postazione troneggiante, la Principessa leggeva scrutando al di là degli occhiali la reazione delle astanti. Olghina sbuffava nella sua seggiola mentre la signorina Lucia le dava leggere gomitate per suggerirle di ascoltare con più attenzione. Altre tre dame avevano tuffato lo sguardo nel loro ricamo scambiandosi dei sorrisi di traverso, la Baronessa madre si era improvvisamente alzata per andare nelle sue stanze e Ludovica l’aveva seguita poco dopo.
Accovacciata in una sedia fabbricata per un’infante, Elda guardava rapita le pagine del grosso libro che venivano accarezzate e poi voltate in un sol colpo dalle dita sottili della Principessa e, da sola, ascoltava la cronaca del ricevimento nel salotto di Anna Pavlovna a San Pietroburgo. Di tanto in tanto Elda avvertiva su di sé lo sguardo dell’anziana donna, mentre veniva completamente assorbita dalle vicende del romanzo: si risentì per la freddezza con cui il principe Andréj trattava la giovane moglie e poi si divertì per la frizzante allegria con cui Natasha baciava il cugino Boris. A un tratto il maggiordomo Eusebio irruppe nel salottino per annunciare la cena in un siciliano francesizzato.
Elda si accorse di aver fatto camminare la seggiolina su cui stava seduta lungo il pavimento, nel tentativo di avvicinarsi alla fonte dell’ascolto, si alzò volgendosi in direzione delle altre dame e si accorse che nella stanza erano rimaste soltanto lei e la Principessa.
“Continueremo domani alle cinque, signorina, sia puntuale.” le disse costei, mentre Don Eusebio l’aiutava ad alzarsi dall’enorme poltrona.
“Non mancherò, sua Eccellenza, molte grazie.” – fu la risposta della giovane interlocutrice, accompagnata da un inchino impacciato.
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…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla
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