Elda cap. 32, I compagni

Questo capitolo è letto da Dario Pensabene

Elda iniziò a frequentare insieme a Ottavia le riunioni della Federazione Centrale del Partito, in cui ogni consesso finiva intonando “Bandiera Rossa” e “l’Internazionale”. Stanze polverose adornate di altarini con l’effige di Giuseppe Stalin e il mazzo di spighe di grano, poi manifesti e bandiere con la falce e il martello, oltre a cumuli di sedie accatastate negli angoli che venivano ordinate al centro delle stanze durante le assemblee. Si organizzavano comizi e manifestazioni di popolo e dalle riunioni uscivano parole d’ordine concitate. Chiunque popolava quelle stanze aveva i pugni stretti in tasca e la frustrazione di non poter partecipare direttamente alla lotta partigiana, con la consapevolezza che la storia stava decidendosi altrove.

I giovani comunisti siciliani cercavano in ogni modo di mettersi in mostra facendo a gara a esibire più età di quella vissuta e soprattutto più esperienza e capacità di sacrificio. Anche se lise e accomodate, le giacche erano sempre scure, spesso accompagnate ai baffi, ai capelli pettinati all’indietro e alle sigarette senza filtro fumate con smodatezza. Ognuno vantava un addestramento armato e tutti erano pronti a salire sulle montagne se soltanto il partito avesse fatto un fischio. La serietà contagiava anche le poche donne iscritte che, agevolate dalla moda mascolina anteguerra, ostentavano giacche dalle spalle larghe e dai colori cupi, capelli mortificati da pettinature che sembravano scolpite nel legno e l’assenza di un sorriso. Ottavia faceva eccezione con la sua aria garrula e svagata, ma a lei si perdonava tutto perché era ebrea. Elda invece veniva osservata con sospetto, il partito doveva ben guardarsi dagli infiltrati e lei, con la sua aria borghese e i suoi modi affettati, sembrava capitata lì per caso.

Ormai la sua abituale reazione al sentirsi ignorata era quella di intraprendere una sfida silenziosa per farsi accettare a ogni costo, così offrì la propria totale disponibilità in un contesto dove le braccia volenterose e la capacità di abnegazione erano salutari: si gettò a capofitto nei turni di volantinaggio e nelle vendite dell’Unità di porta in porta in cui i compagni dovevano cogliere l’occasione per parlare con la gente. Era sempre puntuale alle riunioni disponendo le sedie in bell’ordine e poi prendendo nota di tutto quello che si diceva, si adoperava per dare una forma più incisiva ai volantini prima che andassero alle stampe e infine collaborava al tesseramento e al conteggio dei bollini.

In quelle stanze affumicate i giovani dirigenti cercavano masse da coinvolgere nella rivoluzione e in Sicilia potevano trovarle soltanto nelle campagne, anche se il partito sembrava restio a coinvolgere i contadini. Erano perciò determinati a imporre una linea che ripartisse dalle antiche lotte dei Fasci Siciliani[1].

“Ancora quasi la metà della terra siciliana appartiene a cinquemila famiglie, quelli hanno possedimenti da cinquanta ettari in su, certe volte diecimila! Dobbiamo spezzare quel monopolio!”  – urlava in un’assemblea un certo Pio.

Questi erano i momenti in cui Elda si sentiva in difficoltà: se per lei era arduo districarsi fra le teorie economiche marxiste, in questo caso invece la politica arrivava facilmente al suo livello ma al prezzo di dolorosi e inconfessabili sensi di colpa. Il monopolio di cui parlava Pio lei lo aveva visto… possedimenti da cinquanta ettari in sucerte volte diecimila… avrebbe anche potuto testimoniarlo in modo diretto, aiutare la causa del partito, ma il pensiero di svelare quel passato la terrorizzava, stava facendo immani sforzi per farsi accettare e non poteva correre il rischio di tornare indietro. Così si tormentava nel rimorso e nell’incertezza, restare nel partito significava prima o poi fare i conti con la sua vicenda nella famiglia di Augusto, di questo doveva esserne consapevole.

Il segretario della Federazione regionale del Partito era Girolamo Li Causi[2], un siciliano dall’aspetto pacioso e dalla tempra combattiva, i suoi lunghi anni di carcere incutevano un gran rispetto e la giovane Elda restava senza parole quando le riunioni erano presiedute da lui. Sapeva però anche essere bonario e cordiale, come quando cingeva le spalle a un compagno e, parlandogli, si curvava su di lui guardandolo fisso negli occhi. Proveniva dal mondo rurale e, nonostante fosse un ortodosso marxista-leninista, condivideva il desiderio dei giovani di sensibilizzare i lavoratori della terra, perciò fu lui a spedire quel manipolo di ventenni nei centri rurali dell’entroterra a tenere comizi e riunioni. Si imbarcavano in cinque o in sei in una “Topolino FIAT” o in una “Balilla” infestata dalle pulci, quindi venivano smistati nelle varie Camere del Lavoro. La sera, poi, finita la riunione, ognuno di loro aspettava al freddo e da solo che l’automobile lo andasse a riprendere.

 “I mezzadri sono costretti ad andare in feudi a chilometri di distanza dalle famiglie per avere la mancia ‘nchiusa, un sacchetto di grano che gli permette di mangiare fino al prossimo raccolto, mentre devono dormire per terra con le bestie, con gli schizzi di orina e gli escrementi degli animali addosso!” – riferiva Ignazio.

Elda pensava a quel bambino nella stalla con la testa grossa, ricordava ogni cosa ma doveva stare zitta, però sottilmente iniziava a mettere ordine nelle sue esperienze. Adesso tanti pensieri incerti, scritti nella sua mente nel corso degli anni di guerra, si trasferivano su di una mappa dai contorni distinti, dove trovavano posto tutti i personaggi della sua giovane vita. I suoi genitori intrappolati nell’Italietta fascista che però erano riusciti ad avere uno scatto d’orgoglio; la zia Teresa fra le suffragette di inizio secolo; lo zio Luca che finalmente stava scontando in solitudine la sua arroganza fascista; i Baroni come esponenti del monopolio latifondistico; gli Americani da un lato liberatori e dall’altro colpevoli di avere sdoganato la mafia, apprestandosi ad allearsi col Vaticano in una spietata guerra fredda. Poi c’era il campo dei giusti, con il Partito Comunista e il professore Gorla, mentre il mondo intellettuale, che si apprestava ad accogliere suo fratello, fungeva da fiancheggiatore.

Il 16 settembre 1944 arrivò in Federazione la notizia che qualcuno aveva sparato a Li Causi mentre teneva un comizio a Villalba, il paese dove erano nati i fratelli Santelia, per fortuna non era morto nessuno però c’erano stati quattordici feriti e Li Causi era stato colpito a un ginocchio.

A Villalba il famoso Don Calò dei racconti di Ignazio e Pietro era infatti diventato proprietario terriero grazie al favore degli americani, che dopo lo sbarco lo avevano lasciato indisturbato rubare camion e mezzi militari per trasportare le merci del suo intrallazzo. Ignazio, che era nella piazza con Li Causi, l’indomani in Federazione fece il resoconto di quel pomeriggio.

 “Don Calò si fa trovare nel bar della piazza insieme ai suoi sgherri e appena Mommino[3] inizia a parlare Don Calò si alza in piedi e grida Unni bieru[4]! E a ‘sto segnale i mafiosi attaccano a sparare![5]

Ma un mese dopo succedeva un fatto sorprendente che faceva parlare di sé in federazione.

 “Minchia, sto compagno Gullo è grandioso, manco u mienzu e mienzu[6], il 60 a 40 lo capisci Ignazio: il 60 a 40!” –

“Ma che è successo?” – chiedeva Elda ad Ottavia.

 “Il compagno comunista Fausto Gullo[7] è riuscito a fare approvare una legge… “

 “Sono decreti, compagna – diceva un certo Agostino – in cui il compagno Gullo stabilisce che i raccolti devono andare a chi lavora la terra fino al 60%. Nei decreti c’è anche scritto di distribuire ai contadini la terra che gli agrari tengono incolta.”

Alla notizia dei decreti ogni contadino siciliano vide la speranza concreta di avere finalmente un pezzetto di terra tutto per sé.

Già nell’estate del ’45, nelle campagne di Corleone, di Bisacquino, di Prizzi, di Palazzo Adriano, di Vallelunga, si organizzarono lunghi cortei di contadini, braccianti e mezzadri. Mille, duemila, tremila, con donne e bambini, a piedi o sulle mule, con le bandiere rosse, con le zappe, le falci e i vomeri che luccicavano al sole. Avanzavano in direzione di appezzamenti incolti e appena arrivavano vasavano la terra, la misuravano e iniziavano a spartire: un ettaro a testa. Dopodiché iniziava l’occupazione simbolica lavorando di zappa, poi si sedevano tutti in circolo a mangiare: pane, ricotta salata, pecorino e finocchi di montagna sotto sale.

Elda e Ottavia parteciparono a una occupazione nei feudi di Regaleali, era una delle giornate più importanti e la Federazione centrale aveva organizzato dei camion che all’alba portassero i compagni da Palermo, fu una giornata memorabile con un corteo maestoso accompagnato da un sole tiepido. Sulla strada del ritorno, entrando a Vallelunga, il fiume di braccianti venne attorniato da un gruppo di campieri e gabellotti che con i fucili in spalla e gli sguardi rabbiosi sputarono per terra minacciando:

 “Ma chisti chi buonno raddrizzari i gambi a li cani? Unnu sanni chi i quartari cu li petre un ponnu truzzari?[8]

 “Cca saddividi comu ricimu nuatri, potiti moriri, potiti sputari u sangu ma a leggi i chidda nostra![9]

I contadini sventolarono le bandiere guardandoli negli occhi, perché questo era il modo per far capire che avevano finalmente coraggio, e per maggiore sfida gli cantarono in faccia:

 “Avanti o popolo alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa…”

Anche i compagni rimpaliemmu cantarono in segno di sfida guardando i campieri negli occhi. A un certo punto Elda, mentre sfilava con la sua bandiera e i suoi occhi puntati su quei mafiosi figli di cani incrociò un sguardo astioso che le ricordava un volto conosciuto. Ma era Don Saro! Quello che in una notte del giugno del ’43 l’aveva accompagnata in carretto alla stazione di Valledolmo con la moglie Ciccina! In un attimo le si gelò il sangue, quell’uomo le era sembrato una persona affidabile e mansueta, ma d’altro canto era uno che amministrava il feudo di un Barone. Quel Don Saro era in realtà un campiere dalla faccia contorta e cattiva che sputava in terra insultando lei e i contadini!

…tratto dal romanzo Elda, vite di magnifici perdenti , di Maria Adele Cipolla

I capitoli illustrati verranno caricati ogni quattro giorni nella categoria Capitoli #progettoelda

Nella pagina Audiolibro #progettoelda si potranno ascoltare le letture di tutti i capitoli.


[1] I Fasci siciliani (1891-1893) furono un movimento di massa d’ispirazione democratica e socialista, nato in Sicilia fra contadini, minatori (zolfatai) e operai, sull’esempio dei fasci operai dell’Italia centro-settentrionale. Combattevano contro la proprietà terriera siciliana, spesso collusa con ambienti mafiosi e contro lo stato, che appoggiava i latifondisti. Erano guidati da Giuseppe de Felice Giuffrida. Ai Fasci Siciliani fece seguito il Fascio di Palermo (giugno 1892) guidato da Rosario Garibaldi Bosco e il Partito dei Lavoratori Italiani (agosto 1892). Poi in tutto il resto della Sicilia si aggiunsero altri fasci.

[2] Girolamo Li Causi era nato a Termini Imerese 48 anni prima. Era stato arrestato nel 1928 per la sua attività antifascista e liberato nell’agosto del 1943. Era stato al Nord come componente della direzione per l’Alta Italia del PCI e da poco il partito lo aveva nominato segretario della federazione regionale siciliana.

[3] Abbreviazione di Girolamo (Li Causi).

[4] Non è vero!

[5] La sentenza della cassazione del gennaio 1957 condannò Don Calò insieme agli altri che avevano sparato, ma lui era già morto nel 1954.

[6] quando prima i contadini chiedevano di fare metà e meta (mienzu e mienzu) ricevevano pesanti intimidazioni perché i Baroni pretendevano di avere anche più del 60%, con i decreti Gullo invece le percentuali si invertivano a vantaggio dei contadini.

[7] Il comunista Fausto Gullo emanò i decreti nell’ottobre del 1944 sotto il governo di Ivanoe Bonomi, un governo provvisorio della parte d’Italia liberata, e non certamente favorevole alle sinistre. Gullo era già stato inaspettatamente nominato ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio. I decreti Gullo erano una riproposta di altri già promulgati alla fine della prima guerra mondiale, e nascevano dall’emergenza di dare lavoro ai contadini che tornavano dalla guerra.

[8] Ma questi che vogliono raddrizzare le gambe ai cani? Non lo sanno che le quartare con le pietre non possono ballare?

[9] Qui si divide come diciamo noi, potete morire o sputare il sangue ma la legge è quella nostra!

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